Sunday, February 20, 2005

Peggy Guggenheim

INTERVISTA A KAROLE VAIL, LA NIPOTE

Oggi, febbraio 2005

dal nostro corrispondente a New York.

«Nella camera da letto dove dormivo era appesa L’Aurora di Paul Delvaux, che sarà in mostra a Roma. Ma quelle donne nude ritratte per metà come tronchi d’albero non mi facevano così paura quanto i quadri surrealisti di Max Ernst...»

Se le ricorda bene, Karole Vail, le tante vacanze estive e pasquali trascorse a casa della nonna Peggy Guggenheim a Venezia negli anni Settanta, in quel palazzo Venier dei Leoni oggi trasformato in museo. Lei era un’adolescente, abitava a Parigi col padre Sindbad e andava al liceo dalle suore. La tremenda nonna Peggy, che neppure a settant’anni aveva perso il gusto per la provocazione, le rivolgeva domande imbarazzanti: «Hai un fidanzatino? Ci sei già andata a letto?» Poi, quando la nipote aveva diciott’anni, le propose scherzando: «Perchè non ti metti con tuo cugino Sandro?» Se la portava in giro per i canali in gondola, la faceva scendere da sola davanti a qualche chiesa e poi, tornata a casa, pretendeva una dettagliata relazione sulle opere d’arte che la ragazza aveva visto. «Potete immaginare che voglia avessi io allora di studiare gli affreschi della scuola veneziana...», ride la signora Vail, «ma per mia nonna ormai la pittura classica italiana era diventata molto più interessante di quella contemporanea, alla quale pure aveva dedicato tutta la sua esistenza».

Scene di una vita inimitabile, quella della più importante e famosa collezionista d’arte del Ventesimo secolo, italiana d’adozione (visse a Venezia dal 1947 alla morte, nel dicembre ‘79). Ora 75 fra le più importanti opere provenienti da varie sedi del museo Guggenheim (New York, Venezia, Bilbao) sono in mostra per tre mesi a Roma, nelle Scuderie del Quirinale a partire dal 3 marzo. E Karole Vail, che lavora per il Guggenheim e nel ‘98 curò la grande mostra per il centenario della morte della nonna, ci aiuta a ripercorrere le tappe della vita di quella che fu anche una straordinaria mecenate. Peggy, infatti, non si limitava ad acquistare le opere di un artista promettente (da Vasily Kandinsky a Marcel Duchamp, da Francis Bacon ad Alexander Calder): si occupava di loro, li frequentava, si faceva frequentare (a volte anche intimamente: pare fosse di un appetito sessuale insaziabile). Le sue case di Parigi, Londra, New York e Venezia sono state per più di mezzo secolo il crocevia dell’intellighenzia culturale e politica internazionale.

«Il mio pittore preferito era Jackson Pollock», ricorda per esempio Karole Vail (nella mostra romana sono esposte varie opere dell’artista americano). Ma Pollock divenne famoso solo negli anni Cinquanta. Prima era misconosciuto, vendeva pochissimo. Ciononostante, Peggy Guggenheim negli anni Quaranta credette in lui, gli organizzò ben quattro mostre personali nella propria galleria newyorkese (la leggendaria “Arte di questo Secolo” sulla Cinquantasettesima Strada, proprio di fronte all’attuale libreria Rizzoli), gli fece dipingere un “murale” a casa propria e gli pagava uno stipendio mensile. Fra i giovani da lei valorizzati ci fu anche il padre di Robert De Niro, pittore che in seguito raggiunse buone quotazioni.

La vita di Peggy Guggenheim fu scandalosa. «Nacque da due delle famiglie ebree più ricche di New York, i proprietari di miniere Guggenheim emigrati dalla Svizzera, e i banchieri Seligman», racconta Karole Vail. «Allo scoppio della Prima guerra mondiale i Guggenheim controllavano l’85 per cento della produzione mondiale di argento, rame e piombo. Benjamin, padre di Peggy, passava il tempo a Parigi tradendo la moglie Florette e lavorando nella ditta che installò gli ascensori sulla torre Eiffel. Morì nel naufragio del Titanic, dopo aver dato il proprio giubbotto di salvataggio e il posto in scialuppa all’amanteche viaggiava con lui, e che nell’elenco dei passeggeri figurava come “signora Guggenheim”. Peggy, rimasta orfana a 14 anni, soffrì molto per la morte del padre che adorava. Lo cercò sempre negli uomini che amò. A 22 anni cercò di ingentilire il proprio naso a melanzana con una plastica, ma l’operazione fallì e da allora il naso si trasformò in una specie di barometro: “Quando sta per arrivare il cattivo tempo si gonfia”, scrisse in una delle sue ben tre autobiografie.

«Durante i sei mesi in cui lavorò a New York nella libreria radicale del cugino, che ispirò a Ernest Hemingway un personaggio in Fiesta, Peggy conobbe mio nonno Laurence Vail, un intellettuale bohemien franco-americano. Si trasferì a Parigi, lui le chiese la mano in cima alla torre Eiffel, si sposarono nel ‘22 e fecero il viaggio di nozze da Capri a Saint Moritz. A Parigi negli anni Venti frequentarono gli ambienti artistici, ebbero due figli - mio padre Sindbad e Pegeen - e litigarono molto. Si lasciarono nell‘estate del ‘28, quando mia nonna dopo aver ballato sui tavoli di un locale a Saint Tropez si mise con lo scrittore John Holms. Ma nel ‘34 Holms morì durante una banale operazione, perchè il livello alcolico nel suo sangue interagì con l’anestetico causandogli un collasso.

«Nel ‘37 Peggy Guggenheim aprì la sua prima galleria d’arte a Londra e conobbe Samuel Beckett, col quale ebbe un’amicizia intima. Espose le opere di Jean Cocteau, Kandinsky, René Magritte, Piet Mondrian, e degli scultori Constantin Brancusi ed Henry Moore. Poi arrivarono Yves Tanguy e Max Ernst: del primo si innamorò, il secondo lo sposò. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Peggy, tornata a Parigi, approfittò del crollo dei prezzi delle opere d’arte per comprare un quadro al giorno. Fra questi, i Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì e Francis Picabia ora in mostra a Roma, e due sculture di Alberto Giacometti».

«Dopo l’invasione nazista della Francia», continua Karole Vail, «mia nonna si rifugiò a New York con la sua collezione, e aiutò vari intellettuali come André Breton a scappare negli Stati Uniti. Nel frattempo suo zio Solomon aveva aperto a New York il museo della Pittura non-Oggettiva, predecessore dell’attuale museo Guggenheim, ma Peggy lo definì “una presa in giro”. Nel ‘42 aprì la propria galleria-museo Art of this Century, ma nel ‘47 volle tornare nella sua Europa e scelse Venezia come dimora definitiva. Alla Biennale del ‘48 la Grecia, in preda alla guerra civile, le prestò il proprio padiglione che altrimenti sarebbe rimasto vuoto, e lì Peggy espose la sua collezione. Fu un successo senza precedenti: gli italiani reduci dal fascismo non avevano mai visto tanta arte astratta e surrealista, e gli europei conobbero le avanguardie americane che avrebbero dominato la scena artistica degli anni Cinquanta.

«Peggy Guggenheim conquistò l’ammirazione dei veneziani, che la soprannominarono “Ultima dogaressa”. Nel suo palazzo Venier passavano a farle visita tutti gli artisti più famosi del mondo: attori, scrittori, musicisti, da Marlon Brando a Ian Fleming, da Eugenio Montale a Patricia Highsmith, dal futuro Lord Snowdon a Igor Stravinsky. Il libro degli ospiti è una lista infinita del gotha della cultura mondiale: nessun personaggio passava da Venezia senza fermarsi a far visita a mia nonna. E lei, a sua volta, accompagnava la propria collezione nelle numerose mostre all’estero, da Londra a Stoccolma, da Amsterdam a Parigi. Andò anche a New York a vedere l’edificio rotondo che Frank Lloyd Wright aveva progettato nel ‘58 per il museo Guggenheim: “Un grande garage che si attorciglia come un serpente maligno”, lo liquidò mia nonna. Ciononostante, nel ‘76 accettò che la propria collezione si unisse a quella dello zio Solomon Guggenheim. Nel ‘79, pochi mesi prima di morire, accolse a Venezia lo scrittore Gore Vidal con Paul Newman e sua moglie Joan Woodward. Peggy si entusiasmò quando Newman accettò di baciare una delle sue domestiche: «Così in cambio lei resterà con me ancora per un anno», disse con la sua solita lingua tagliente. Morì in un ospedale di Padova due giorni prima di Natale. Proprio quel giorno Venezia fu invasa dall’acqua alta. Mio padre e mia madre si preoccuparono di mettere in salvo la sua collezione».

Fotografiamo per Oggi Karole Vail di fronte a quel museo Guggenheim di New York che sua nonna aveva disprezzato, o finto di disprezzare. Forte e decisa come Peggy, posa imperterrita per il nostro fotografo a dieci sottozero. Di fronte, Central Park è invaso dalle tende arancioni di Christo: «Il primo grande evento d’arte di questo secolo», lo ha definito il New York Times. Quanto alla grande arte del secolo scorso, quella targata Guggenheim è in mostra a Roma da giovedì: un’occasione unica per gustarla.

Mauro Suttora

Friday, February 18, 2005

L'insopportabile Marco

L'inchiesta vecchio stile

Diario, 18 febbraio 2005 (storia di copertina)

La svalutazione del Marco

Vengono da una lunga storia, da gloriose lotte per i diritti civili, da digiuni eclatanti e campagne verbosissime, hanno contrattato con destra e sinistra. Una canzone popolare sembra fatta apposta per i radicali e dice così: «Mamma Ciccio mi tocca, toccami Ciccio che mamma non vede»

di Mauro Suttora

E' il partito più antico d’Italia, fra quelli in circolazione: compie cinquant’anni a dicembre. «Non abbiamo mai dovuto cambiar nome», proclama orgoglioso Marco Pannella. Coincidenza quasi incredibile: il Partito radicale è nato negli stessi giorni in cui una signora di Montgomery (Alabama), Rosa Parks, rifiutò di alzarsi dal suo sedile in un autobus segregato, iniziando così la lotta per i diritti civili dei negri d’America. Pannella come Martin Luther King? Il paragone è lusinghiero, probabilmente azzardato, ma non campato in aria. Lui, il Marco transnazionale che va per i 75, si ritiene perfettamente maturo per il Nobel, oltre che per il laticlavio perpetuo che Carlo Azeglio Ciampi continua a negare a lui e a Mike Bongiorno. I senatori a vita sono quattro, ci sarebbe ancora un posto, che se però finisse a Pannella provocherebbe un suicidio eccellente: quello di Eugenio Scalfari. E viceversa, perché l’invidia e la gelosia sono reciproche.

Entrambi i grandi vecchi del liberalismo di sinistra italiano erano presenti, quell’11 dicembre 1955, al cinema Cola di Rienzo dove nacque il Partito radicale di Ernesto Rossi e Mario Pannunzio. Si detestavano cordialmente già da anni, galletti troppo ambiziosi nel prestigioso ma angusto pollaio della corrente di sinistra del partito liberale. Da allora, Pannella ha sempre fatto politica praticando in realtà il giornalismo: invincibile il suo penchant per le provocazioni intellettuali, invece di limitarsi a raccogliere comodi consensi surfando fra rassicuranti luoghi comuni come un Fini o un Casini qualsiasi. Scalfari, al contrario, ha fatto giornalismo macinando in realtà politica. E oggi eccoli sempre lì, i due uomini che hanno contato di più per i diritti civili in Italia: l’uno con i suoi digiuni e comizi, l’altro con le copertine dell’Espresso e le prime pagine di Repubblica.

A letto con chiunque.

«Divorzio, aborto, obiezione di coscienza, Tribunale internazionale Onu...»: quando Marco ingrana in tv la litania delle sue conquiste assomiglia all’eterno nonno reduce italiano che ha via via tediato i nipoti con i ricordi dei Mille garibaldini, dei ragazzi del ’99, della Resistenza, del ’68. Questo però è un vecchiaccio felice che ancora il primo agosto scorso volantinava da solo in mezzo al milione di persone arrivate per Simon e Garfunkel davanti al Colosseo: «Firmate i referendum sulla libertà della scienza», urlava sorridente ai passanti. E dove lo si trova nel mondo intero un politico professionista ultrasettuagenario che se va per strada a mendicare una firma per i diritti civili (questa volta dei malati)?

Verso la fine del concerto Simon e Garfunkel hanno intonato una delle loro canzoni più belle e famose, The boxer: «E il pugile si porta addosso il ricordo di ogni guantone che lo ha sbattuto a terra e distrutto/ e lui che urlava con rabbia e vergogna “Io vivo, io vivo!”/ ma il combattente resiste sempre, lailalai...». Peccato che il bilingue Pannella (mamma svizzera francese) non conosca anche l’inglese, altrimenti avrebbe egocentricamente concluso che quella canzone era sicuramente dedicata a lui. Anche perché, serendipity, risale allo stesso anno della legge del divorzio, quel 1970 in cui assieme a Roberto Cicciomessere fece il primo sciopero della fame davanti al Parlamento.

I ragazzi radicali, che da trent’anni continuano testardi a raccogliere firme inutili, perché tanto i referendum vengono sterminati in embrione dalla Corte costituzionale o in culla dagli astenuti, si fidano ciecamente di Pannella. Anche Emma Bonino, che lo segue con una fedeltà commovente. «Sei solo una sua protesi», la insultò Silvio Berlusconi sei anni fa. Fosse vero, lei magari ne sarebbe contenta. Ora è con lui anche in questa stranissima richiesta dell’ospitalità, rivolta contemporaneamente a destra e a sinistra. C’è qualcosa di muliebre nel bisogno di venire corteggiati a 360 gradi, di essere scelti invece di scegliere, e qualcosa di francamente puttanesco nella disponibilità a finire a letto con qualsiasi ospitante. Ma quando una cosa la fanno i radicali, chissà perché assume quasi sempre un sapore diverso, magari grottesco, eppure in qualche modo affascinante. Come quella volta di Toni Negri, nel 1983. O di Cicciolina, quattro anni dopo. O della propria pipì bevuta da Pannella-Don Pisciotte in tv, con Maurizio Costanzo e Ciampi ridotti a implorarlo in diretta a Buona domenica.

Partito mio, quanto mi costi.

Poi, certo, ci sono le ragioni prosaiche e spregiudicate di un partito che, seppur minimo, ha anch’esso un apparato da stipendiare. C’è la convenzione miliardaria di Radio Radicale di Massimo Bordin col Parlamento da rinnovare nel 2006: chi sarà al governo allora? A buttarsi con Silvio Berlusconi oggi, si verrà puniti in caso di vittoria della sinistra, e viceversa. Il call center radicale continua instancabile a telefonare ai simpatizzanti e alla nuova mailing list dei firmatari per i referendum sulla procreazione assistita, ma l’autofinanziamento (comunque il più alto, in percentuale, fra tutti i partiti italiani) non basta a pareggiare i conti. «Duemila iscritti a Radicali italiani hanno versato nell’ultimo anno mezzo milione di euro», riassume la tesoriera Rita Bernardini.

Ma i Radicali italiani guidati da lei e dal segretario Daniele Capezzone sono soltanto una delle tante organizzazioni pannelliane. C’è l’associazione «Nessuno tocchi Caino» contro la pena di morte, guidata da Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, che raccoglie un buon numero di contributi spontanei (in primis quelli di Vasco Rossi, che fa loro propaganda nei suoi concerti), e anche finanziamenti dall’Unione europea per i programmi organizzati. «Non c’è pace senza giustizia» avrebbe potuto chiudere i battenti dopo la vittoria sul Tribunale internazionale Onu, finalmente nato dopo che 60 Paesi hanno firmato il trattato di Roma (non gli Usa, fieri nemici), ma continua a fare lobbying internazionale per aumentare i Paesi firmatari e ora si è riconvertita nella campagna contro le mutilazioni genitali femminili. La Bonino non ha partecipato al bailamme delle trattative sull’ospitalità perché è andata a organizzare con l’ex eurodeputato Gianfranco Dell’Alba un convegno a Gibuti in cui pare che alcuni preti africani abbiano fatto marcia indietro sull’obbligatorietà del taglio della clitoride.

Nel 2004 è nata l’associazione Luca Coscioni, dal nome del malato di sclerosi laterale ridotto all’immobilità che si batte per la ricerca sulle cellule staminali. L’anno scorso, oltre alla raccolta di firme per i referendum, il suo segretario Marco Cappato è riuscito a bloccare una risoluzione Onu sponsorizzata da Vaticano e Usa contro la ricerca sugli embrioni.

Altre associazioni specializzate, infine, gravitano attorno ai radicali: quella anticlericale (animata da Maurizio Turco) e quella antiproibizionista, che portano avanti le battaglie dei decenni scorsi e che avranno vita dura in caso di accordo con Forza Italia. Proprio lunedì scorso Pannella e la Bernardini sono stati assolti per aver distribuito pubblicamente spinelli. Esattamente trent’anni dopo la prima volta.

C’è poi il Prt (Partito radicale transnazionale), rappresentato a New York dai fiorentini Marco Perduca e Matteo Mecacci. Dal loro ufficietto di fronte all’Onu fanno vedere i sorci verdi al Vietnam sulla questione dei Montagnard (la minoranza perseguitata degli altipiani), alla Russia sui ceceni, alla Cina su Tibet, Xinjiang e Falun Gong, e a tutte le dittature in genere. Si battono per la nascita della Omd (Organizzazione mondiale delle democrazie), che dovrebbe innervare l’Onu di spirito nuovo ed emarginare i Paesi autoritari. Una delegazione radicale è andata in Ucraina durante la rivoluzione arancione, mentre Pannella a Capodanno è volato in Cambogia dove i revenants filovietnamiti e polpottisti minacciano la vita democratica. In cambio, periodicamente Vietnam, Russia, Cina e Cuba cercano di far togliere al Prt lo status di ong (organizzazione non governativa) presso l’Onu. Ci hanno provato anche durante l’estate 2004, senza riuscirci.

Tutta questa attività ha subìto un duro colpo con la sconfitta alle europee lo scorso giugno, quando la lista Bonino è crollata dall’8 al 2 per cento. Gli eurodeputati si sono ridotti da sette a due, e di conseguenza anche tutto il corredo di portaborse e finanziamenti (per esempio, i convegni con traduzione simultanea). Inoltre, tutti gli eletti versavano metà stipendio al partito: in lire almeno 10 milioni al mese ciascuno, 70 in totale, quasi 1 miliardo all’anno. Perso pure questo. Poi un mese fa è arrivata la tegola della bocciatura della Consulta all’unico referendum sulla legge della procreazione assistita promosso solo dai radicali. Ed è evaporato un rimborso di 250 mila euro. Per questo Pannella la scorsa estate è dovuto ricorrere a un prestito da parte di George Soros (già convertito in fidi con banche italiane). Il miliardario americano nemico di George Bush junior è vicinissimo ai radicali: con la sua Open Society condivide la battaglia per la Omd, e finanzia la Lia (Lega internazionale antiproibizionista) guidata dal radicale Perduca.

Un neocon chiamato Capezzone.

Come si vede, quasi tutte le attuali campagne italiane e internazionali dei radicali pencolano verso sinistra. Risulta incomprensibile, quindi, l’infatuazione di Capezzone e di qualche altro pannelliano per il movimento neocon Usa. Sulla guerra in Iraq Pannella aveva escogitato una posizione mediana: la mozione «Iraq libero», che invitava Saddam all’esilio per bloccare l’attacco statunitense. Ma da allora sono passati due anni, e in nome della lotta per la democrazia (la più recente scusa di Bush per il proprio militarismo) alcuni radicali sembrano aver dimenticato il loro classico antimilitarismo.

Capezzone, soprattutto, il quale imperversa dappertutto. È lui ormai il nuovo componente della trinità radicale, assieme a Pannella e Bonino. Il sito internet radicale risulta quasi comico nel declamarne le gesta: Capezzone dichiara, Capezzone puntualizza, Capezzone di qua, Capezzone di là, Capezzone a Marchette, Capezzone imitato da Neri Marcorè a SuperCiro, comprate i due libri di Capezzone, per arrivare infine all’imbarazzante «Capezzone a Washington». Che purtroppo non è una missione alla Frank Capra, ma il resoconto audio di una conferenza che lo sventurato ha tenuto pochi mesi fa all’Aei (American Enterprise Institute), cioè il maggiore think tank (molto tank e poco think, per la verità) dei falchi di estrema destra Usa. «Sono gli unici ad avermi invitato», si giustifica lui, segretario di un partito che ha tuttora Gandhi nel simbolo. In effetti nel suo discorso, pronunciato in un ottimo inglese, Capezzone non fa sconti ai neocon: concorda sull’espansione della democrazia, ma dissente educatamente sul mezzo adottato (la guerra). Un’altra missione in partibus infidelium da parte dei non violenti radicali sembrano essere i numerosi commenti che Capezzone-prodigio e Mecacci hanno pubblicato sul Washington Times, cioè il quotidiano reazionario (è la voce del Pentagono) pubblicato dalla setta del reverendo Moon (sì, quello della moglie-lampo filippina del vescovo Milingo...)

Qui in Italia, stranamente, a sinistra uno dei più entusiasti nell’auspicare l’ospitalità verso i radicali è Fausto Bertinotti. Eppure proprio Rifondazione comunista è stata dagli anni Novanta la più implacabile nel denunciare il liberismo e il filoamericanismo pannelliani. Nel 1999, durante la raccolta delle firme per i 20 referendum, i rifondatori organizzarono in varie città comitati per il no contro i nove quesiti «economici» (abrogazione articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, pensioni d’anzianità, Inail, monopolio statale obbligatorio sull’assistenza sanitaria, ritenuta d’acconto e liberalizzazione di collocamento, lavoro a termine, a domicilio e part-time). I militanti comunisti volantinarono vicino ai tavoli radicali, invitando i passanti a non firmare. Poi ci pensò come sempre la Corte costituzionale a far fuori 13 referendum su 20. E alla fine, quando il 21 maggio 2000 si votò, l’astensione annullò tutti gli altri. Ma l’unico che non avrebbe comunque vinto, anche con il quorum del 50 per cento, sarebbe stato quello sull’articolo 18 (reintegro obbligatorio dei dipendenti licenziati ingiustamente). Su questi temi Bertinotti e Pannella sono sempre stati agli antipodi.

Quanto alla non violenza, il recente entusiasmo gandhiano di Rifondazione si dipana in polemica proprio contro i radicali, accusati di aver tradito l’antimilitarismo già con l’astensione del 1991 sulla prima guerra del Golfo, e poi con la sollecitazione degli interventi armati umanitari in Bosnia e Kosovo, nonché dei bombardamenti angloamericani in Iraq del 1998.

Eppure c’è una vicenda sepolta nel passato che forse può spiegare questa bizzarra attrazione fra opposti. Per ben due volte, negli anni Sessanta, i radicali si allearono con il Psiup. E in quel partito militava l’allora ventenne Bertinotti. Alle amministrative del novembre 1964 i radicali invitarono a votare psiuppino. E alle elezioni comunali del giugno 1966 a Roma il Psiup ricambiò, praticando l’ospitalità tanto invocata oggi. Ci fu una lista comune. Non ritenendosi sufficientemente appoggiati, prima del voto i radicali si ritirarono dalle liste. Ciononostante, Pannella arrivò terzo con 1.120 preferenze, anche se non riuscì a entrare in Consiglio comunale.

C’è da dire che nel 1965 i radicali erano riusciti a mandare in galera il sindaco dc di Roma Amerigo Petrucci sollevando lo scandalo Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) sulle truffe dc nel settore dell’assistenza. Quindi, contrariamente a oggi, c’erano battaglie concrete combattute assieme a livello locale. Ma il feeling con la sinistra durò pochissimo: nell’estate 1966 Pannella attaccò il Pci con un’intervista a Giano Accame sul settimanale di destra Nuova Repubblica. «Pannella demistificato», reagì subito sull’Unità Maurizio Ferrara (padre di Giuliano). Che dieci anni dopo raddoppiò con questo epigramma: «I radicali sono gente assai lasciva/Finocchi e vacche nude alla Godiva».

È passato veramente tanto tempo anche da quel 1976 quando Pannella si prese uno sganassone da un portinaio comunista a Botteghe Oscure, e dal 1979 quando fu fischiato al congresso Pci dove il suo loden blu venne scambiato per un «mantello di Dracula»: oggi l’omosessuale comunista Nichi Vendola sollecita l’ospitalità verso i radicali in Puglia. Gli altri due candidati del centrosinistra più filopannelliani sono Ottaviano Del Turco in Abruzzo e la ex radicale (corrente Massimo Teodori) Mercedes Bresso in Piemonte.

Con Berlusconi, politica & miliardi.

Ma insomma, chi sono veramente i radicali? Ovvero: chi è veramente Pannella? Lui l’ospitalità l’ha sempre praticata generosamente: nel 1976 voleva dare asilo a Lotta continua ostracizzata da Dp, nel 1979 ebbe il sogno grandioso di aprire a tutta la sinistra extraparlamentare (Marco Boato, Mimmo Pinto), portandola in dote al Psi per diventare vicesegretario di Bettino Craxi. La testata radicale Liberazione fu ospitata per qualche tempo dentro il quotidiano Lotta continua. Una dozzina d’anni fa Pannella la regalò a Bertinotti, così come regalò il simbolo antinucleare del Sole che ride ai Verdi. Fino agli anni Ottanta la linea ufficiale dei radicali era: «Rinnovamento, unità e alternativa di sinistra». All’inizio dei Novanta il libertarismo divenne anche economico, e quindi rivolta fiscale assieme alla Lega. Poi Umberto Bossi definì Pannella «Culosevich», e addio feeling. Nel 1994 cominciarono i giri di valzer con Berlusconi, terminati però sempre a pesci in faccia. Sostiene l’editorialista di Radio Radicale Iuri Maria Prado: «Oggi è difficile pensare che un elettore ‘’non’’ voti per questo o quello, perché è alleato della Bonino. È semmai facile immaginare che un tal nome possa solo portarne, di voti».

Nel 1999 la lista Bonino era diventata il secondo partito dopo Forza Italia in parecchie città del Nord, da Treviso a Monza. Una media del 12-13 per cento da Torino a Trieste, il quarto partito d’Italia. Se oggi i radicali si mettessero di nuovo con Berlusconi, oltre a portare il loro 2 per cento, acquisirebbero i voti di parecchi delusi della Casa delle libertà. È questo il ragionamento di Benedetto Della Vedova, eurodeputato radicale fino a otto mesi fa ed editorialista del Sole 24 Ore. Lui spinge da sempre per un accordo a destra, ha tenuto i rapporti con Berlusconi e alla fine ha convinto Pannella ad allearsi. Con chiunque, pur di uscire dall’isolamento che li ha cancellati dal Parlamento dal 1996.

Quell’anno, come lista Pannella-Sgarbi, i radicali siglarono anche un accordo finanziario con Berlusconi: se nella quota proporzionale non avessero raggiunto la soglia-ghigliottina del 4 per cento, Forza Italia avrebbe versato loro 10 miliardi: 1 come rimborso elettorale, più 9 miliardi in tranche annuali da 1,8 miliardi l’una. Ma Berlusconi dopo il voto non volle più onorare il contratto, considerandolo nullo perché il Polo aveva perso. La questione venne affidata a un arbitrato, nonostante i radicali avessero promosso un referendum proprio contro gli incarichi extragiudiziali ai magistrati. Nel dicembre 1996 un giudice, pagato 200 milioni per il disturbo, diede ragione a Pannella, e Forza Italia cominciò a pagare. In appello, però, un magistrato diverso ribaltò il verdetto: i radicali non solo non videro più una lira, ma dovettero restituire i miliardi incassati. Rimase loro il dubbio che il Cavaliere, anche in questo caso come in altri più famosi, si fosse mosso con argomenti estremamente «convincenti» nei confronti dell’arbitro d’appello.

«Quando si tratta con Berlusconi è solo un suk», ripete da allora Pannella, disgustato. Soprattutto dai cattolici di Pierferdinando Casini e Rocco Buttiglione, ai quali Berlusconi nel 1996 concesse 100 collegi contro i 43 della lista Pannella-Sgarbi. Lui, invece, aveva chiesto la parità con Ccd e Cdu come unica condizione. E quando non venne ottenuta ritirò i propri candidati. A quel punto Vittorio Sgarbi abbandonò Pannella per tornare da Berlusconi, anche se ormai era troppo tardi per togliere il suo nome dal simbolo. E i radicali per ripicca si candidarono anche nel maggioritario, senza alcuna chance ma con l’unico scopo di far perdere il Polo. Stesso comportamento da «muoia Sansone con tutti i filistei» anche alle politiche del 2001.

Oggi Pannella sembra aver abbandonato questo cupio dissolvi, ma il ricordo amaro delle trattative senza rete di sicurezza lo ha spinto a giocare uno schieramento contro l’altro: «Chiediamo ospitalità, ma se ci offrono le stalle dobbiamo avere un’alternativa», dice, e la preoccupazione suona ragionevole. Meno lo è il suo insistere con il linguaggio fiammeggiante: «Destra e sinistra rappresentano solo la cupola della mafiosità partitocratica, sono cosche contrapposte: allearsi coi corleonesi o con i palermitani per noi è lo stesso».

Cuore o portafogli: ecco il dilemma. Pessimismo cosmico, e un estremismo verbale pronto a scagliarsi indifferentemente, a seconda degli accordi, verso destra o verso sinistra. Eppure all’ospitalità passiva i radicali sono abituati. Abbiamo visto l’episodio col Psiup di Bertinotti, ma nel 1960 si registrò un risultato che ebbe conseguenze per i successivi trent’anni di politica italiana. Ben 51 consiglieri comunali radicali, infatti, furono eletti grazie all’ospitalità del Psi. Tranne a Torino dove l’alleanza fu con il Pri, in una lista dov’era candidato Norberto Bobbio. A Roma salirono in Campidoglio i radicali Antonio Cederna (lo scrittore) e Arnoldo Foà (l’attore). L’exploit fu a Milano: su 19 eletti nella lista Psi-Pr, ben quattro erano radicali: Scalfari, lo scrittore Elio Vittorini, il giornalista Sergio Turone e Alessandro Bodrero. Per Scalfari, in particolare, fu un trionfo: quinto fra i più votati con il quadruplo delle preferenze rispetto a un debuttante Craxi, relegato al quintultimo posto. La cronica antipatia di Craxi verso Scalfari risale a quella ospitalità. E la sua vendetta fu consumata nel 1972, quando Bettino non volle più ricandidare l’ospite Eugenio in parlamento dopo i quattro anni di Scalfari come deputato Psi. Quello fu l’unico quadriennio di politica a tempo pieno per il fondatore di Repubblica così come Pannella fece il giornalista per soli quattro anni a Parigi (per il Giorno) fino al 1963.

Alle europee 1989 il Marco transpartito, scomparsi Leonardo Sciascia ed Enzo Tortora, riuscì a far ospitare i radicali in ben quattro liste diverse: Verdi (Francesco Rutelli bocciato, Adelaide Aglietta eletta), Antiproibizionisti (Marco Taradash, eletto), Psdi (Giovanni Negri, bocciato) e Pri-Pli (se stesso, eletto): «Il più incredibile tentativo di quadratura del cerchio nella storia della politica italiana», commentò Gad Lerner sull’Espresso. «Strategia del cuculo», la definirono altri, ricordando l’uccello che depone le proprie uova nei nidi altrui.

E questa volta? Ammucchiata, orgia, digiuno? I radicali hanno il cuore a sinistra (libertarismo) e il portafogli a destra (liberismo). Ma con Pannella c’è una sola sicurezza: non ci si annoia mai. In politica, è già tantissimo. L’unico consiglio che ama seguire è quello datogli da Pier Paolo Pasolini (l’ennesimo comunista diventato radicale) nel 1975, tre giorni prima di morire: «Siate irriconoscibili, continuate a scandalizzare». Fatto, anche questa volta.

Mauro Suttora

Thursday, January 20, 2005

Famiglia cristiana sgozzata nel New Jersey

L'AMERICA TEME UN CASO VAN GOGH

Gli Armanious erano egiziani copti di Luxor. Il padre aveva contraddetto in internet alcuni fanatici islamici

da New York, Mauro Suttora

Il Foglio, 20 gennaio 2005



Siamo a Jersey City, la seconda città del New Jersey, lo stato più industrializzato d'America. Villette di legno in stile Soprano, la serie tv sui mafiosi nei sobborghi di New York. Immigrati, operai, milioni di pendolari che ogni mattina attraversano il fiume Hudson, vanno a Manhattan per farla funzionare, ma alla sera devono tornare in periferia perché non hanno i soldi per permettersela: "Living for the City", cantava Stevie Wonder trent'anni fa.

Comunque un sogno per la famiglia Armanious, immigrata da Luxor (Egitto) nel 1997. Una casa verde oliva di due piani a Oakland Avenue, comprata tre anni dopo con un mutuo di 85mila dollari. Sala e due stanze da letto, una per le due figlie: Sylvia di 15 anni e Monica di otto. Nomi americani, visto che il sogno è americano. Era. Perché la famiglia Armanious è stata sterminata, in perfetto stile Charles Manson. O Al Zarkawi, dato che il metodo è stato lo sgozzamento.

Da due giorni nessuno li aveva più visti uscire di casa. Non rispondevano al telefono. Il cognato Ayman Garas, preoccupatissimo, è andato a vedere di persona cos'era successo, verso mezzanotte di giovedì scorso, ma non è riuscito a entrare: porte e finestre chiuse. Così si è precipitato in commissariato e alla fine ha convinto i poliziotti a sfondare la porta principale, verso le quattro del mattino. 
Man mano che avanzavano nella silenziosa casa dell'orrore, uno spettacolo atroce: i corpi delle quattro vittime, uno dopo l'altro. Prima Hossam Armanious, 47 anni, legato, imbavagliato e con la gola tagliata nella stanza da letto matrimoniale al piano terra. Poi sua moglie Amal Garas, di dieci anni più giovane, nella stanza vicina: stesso rituale di morte, anche lei in una pozza del proprio sangue ormai raggrumato. Infine Sylvia, nella sua camera da letto, e la piccola Monica, trovata nel bagno dov'era riuscita a scappare.

Il signor Armanious lavorava all'università di Princeton, sua moglie alle poste di Kearney. La loro casa aveva ancora le luci e le ghirlande rosse di Natale. Perché la famiglia Armanious era di religione cristiana. Copti d'Egitto, come il dieci per cento dei loro connazionali. Rapporti abbastanza buoni con i musulmani, un ministro degli Esteri (Boutros Boutros Ghali) diventato poi segretario dell'Onu. Ma con scontri periodici, soprattutto negli ultimi tempi: "Non pochi di noi sono emigrati in America anche per sfuggire alle persecuzioni religiose", dicono i copti del New Jersey.

Ma qui comincia la seconda parte della storia. Quella politica, o religiosa. Perchè leggendo i due maggiori quotidiani di New York, il Times e il Post, si ottengono due versioni totalmente differenti. Il Times da sei giorni continua a trattare la vicenda come un semplice fattaccio di cronaca nera da periferia. Lunghi resoconti nelle pagine interne, ma mai un richiamo in prima pagina e nessun riferimento, nei titoli, sommari e didascalie, a un possibile movente religioso della strage. Che invece viene urlato a gran voce da tutti i fedeli della comunità copta di Jersey City, i quali esasperati hanno cacciato lo sceicco islamico egiziano arrivato a presentare le condoglianze al funerale di lunedì.

"Hossam Armanious è stato ucciso perchè aveva osato contraddire dei fanatici islamici in una seguitissima chatroom religiosa su internet", accusa Rafique Iscandar, 51 anni, il migliore amico della vittima. Il New York Post crede alla pista religiosa e martedì spara in prima pagina: "Holy War", guerra santa. L'incubo di Oriana Fallaci si sta avverando nel New Jersey? Un altro sgozzamento in stile Theo Van Gogh è avvenuto a pochi chilometri da Ground Zero, moltiplicato per quattro?

La polizia è cauta. All'inizio aveva ipotizzato la vendetta di un ex affittuario della stessa casa, ma questa versione è ormai evaporata. Adesso, per esorcizzare il movente peggiore, quello di cui nessuno in America vuole sentir parlare, si sta tirando fuori la rapina, visto che dalla tasca di Armanious manca il portafogli e dalla casa qualche gioiello. Ma altri gioielli e soldi sono restati in altri cassetti, e comunque quale maniaco avrebbe inscenato una strage simile, con rituali tanto macabri quanto metodici, per i pochi denari di una famiglia di immigrati indebitati?

Ai funerali è dovuta intervenire la polizia per calmare i mille cristiani copti infuriati della chiesa di San Giorgio. Inalberando cartelli con croci nere, tutti urlavano che la famiglia è stata assassinata perchè Armanious si era esposto troppo nelle polemiche internettiane con i musulmani: "Aveva paura, ce l'aveva detto, aveva già ricevuto minacce di morte. Hanno soltanto messo in pratica quello che gli avevano promesso". 
Un copto è stato arrestato quando è salito su un'auto parcheggiata per aggredire lo sceicco Tarek Yussuf Saleh di Brooklyn, che era incautamente arrivato per calmare gli animi fra le comunità: "Siete voi i killer!", gli ha urlato, e i poliziotti hanno dovuto scortare lo sceicco in fretta lontano dal funerale.

I musulmani del New Jersey sono costernati: "Qualsiasi crimine contro i civili viola tutte le leggi delle religioni e del mondo civile", ha dichiarato Aref Assaf, presidente dell'American Arab Anti-Discrimination Committee. Ma la rabbia dei cristiani copti egiziani non si placa, e qualcuno teme che Jersey City si infiammi come negli anni Sessanta, quando la vicina Paterson venne messa a ferro e a fuoco da una violenta rivolta dei neri.

L'unica risposta, a questo punto, può arrivare dalle indagini. L'Fbi sta collaborando con la polizia locale, ma non si è impadronito del caso: segno che la pista politico-religiosa non è considerata ancora quella più probabile. Un parente della famiglia sterminata è stato traduttore nel processo contro Lynne Stewart, un'avvocatessa accusata di aver aiutato i terroristi di al Qaeda, "ma da anni non aveva contatti con Armanious", precisano gli investigatori.

Lui però il terrorismo lo conosceva bene: proprio nella sua Luxor, nel 1997, gli islamisti provocarono una delle loro stragi più sanguinose, sterminando decine di turisti in visita nei templi egizi.
Mauro Suttora

com'è andata a finire

Wednesday, November 10, 2004

Tristi per la vittoria di Bush

DISPERAZIONE A HOLLYWOOD

di Mauro Suttora

10 novembre 2004

MICHAEL MOORE
Il regista 50enne premiato con l’Oscar nel 2003 per il documentario Bowling for Columbine, e con la Palma d’oro a Cannes quest’anno per il film anti-Bush Fahrenheit 9/11, mastica amaro. La sua propaganda cinematografica e i 63 comizi che ha tenuto in un mese non hanno avuto effetto sull’elettorato.
A Moore resta la consolazione pecuniaria: Fahrenheit 9/11 è distribuito da un mese in cassette e dvd negli Stati Uniti, e vende benissimo. Sul suo sito internet Moore ha pubblicato una nuova cartina dell’America con le zone pro-Kerry annesse al Canada e quelle pro-Bush, soprannominate «Jesusland».

BARBRA STREISAND
La cantante e attrice 62enne è stata la più impegnata contro Bush. Già dal 2001 ha incitato i democratici a «cacciare l’impostore» dalla Casa Bianca, e fino all’ultimo si è impegnata allo spasimo, anche mettendo mano al portafogli: ha finanziato i democratici con vari milioni di dollari.
Ma tutto questo attivismo, che ricorda quello del personaggio da lei interpretato in Com’eravamo con Robert Redford, è risultato inutile. Anche per lei, però, una consolazione: a dicembre esce il film Meet the Fockers (Ti presento gli stronzi), in cui fa la madre di Ben Stiller, la moglie di Dustin Hoffman e la consuocera di Robert de Niro e di Blythe Danner (mamma di Gwyneth Paltrow) nel seguito di Ti presento i miei.

REM
Il concerto del 4 novembre al Madison Square Garden di New York avrebbe dovuto essere una festa per la vittoria del democratico John Kerry. Invece ha vinto George Bush, e per i Rem è stata una serata tristissima. «Oggi è un giorno molto strano», ha ammesso il cantante e leader 45enne del complesso, Michael Stipe.
I Rem si erano impegnati molto nella campagna presidenziale: tutta la loro tournée di ottobre è stata dedicata a convincere i fans al voto contro Bush. Resta la musica, bella come sempre per questa band in attività da ben 23 anni, e ancora considerata fra le migliori del mondo assieme a U2 e Coldplay.

CAMERON DIAZ
La bella attrice 32enne era addirittura scoppiata a piangere durante un’apparizione tv nel talk show pomeridiano di Oprah Winfrey (il più seguito d’America), quando ha supplicato i giovani ad andare a votare: «Se volete che lo stupro diventi legale, non andateci», ha detto, dando così a intendere che Bush sia favorevole a legalizzare lo stupro.
La fidanzata del cantante Justin Timberlake (di nove anni più giovane) è riuscita a convincere i 18-24enni statunitensi a votare, e secondo le speranze i giovani si sono espressi per Kerry 54 a 46. Ma tutto ciò non è bastato per battere Bush.

BRUCE SPRINGSTEEN
Ha organizzato una mobilitazione di cantanti senza precedenti per un candidato presidenziale: 37 concerti in 30 città a favore di Kerry. «L’America non ha sempre ragione», aveva detto il «Boss» 55enne, «questa è una favola per bambini, però l’America è sempre vera, ed è cercando questa verità che troviamo un patriottismo più profondo».
Ha convinto molti a suonare con lui, dai Pearl Jam a Jackson Browne, da James Taylor alle Dixie Chicks. Ma non è riuscito a convincere il 51 per cento degli elettori che ha confermato Bush.

WHOOPI GOLDBERG
La simpatica attrice 49enne ha pagato di persona (e caro) il suo gioco di parole lo scorso luglio al Radio City Music Hall di New York, dove aveva fatto raccogliere sette milioni di dollari per i democratici durante un gala con Paul Newman, Meryl Streep, Jessica Lange e Jon Bon Jovi. Aveva preso in giro il cognome del presidente, associando «Bush» («cespuglio») a una zona intima del corpo. Subito la società Slim-Fast, con sede in Florida (stato governato da Jeb Bush, fratello di George), le ha tolto un contratto pubblicitario miliardario.

Barbara Bacci e Dominique Green

Un'italiana in Texas nel braccio della morte per dire addio a Dominique Green

Lei gli aveva scritto una cartolina. Lui aveva risposto chiedendole aiuto. Da allora Barbara Bacci è diventata la sua migliore amica. E ha voluto stargli vicino. Fino all'ultimo istante

dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 10 novembre 2004

"Hanno sdraiato e legato Dominique con le mani e i piedi a un letto a forma di croce. Le braccia erano aperte, il corpo tutto coperto. Perfino le mani gli hanno nascosto con un panno, per non far vedere gli spasimi della morte. Solo la parte di un braccio era libera, con le vene dove gli avrebbero iniettato il veleno.

All'interno della stanza c'era un microfono, per far sentire a noi testimoni le sue ultime parole e i rantoli della morte. Lo Stato del Texas prevede che venga resa pubblica perfino la registrazione con la trascrizione di queste frasi. Dominique però parlava con grande difficoltà, per lui era terribile perché non voleva morire.

Era confuso, si sforzava di non piangere, aveva poco fiato. Per noi era molto difficile capire le sue parole. Nessuno riusciva a comprenderne il significato. Gli hanno praticato una prima iniezione, che lo ha reso insensibile. Poi quella con il veleno, che gli ha paralizzato poco a poco il cuore e i polmoni.

Per fortuna la sua agonia è durata soltanto pochi minuti, è morto in fretta. Abbiamo assistito a tre rantoli, poi nella stanzetta è entrato un dottore che ha constatato la morte. Un cappellano gli ha toccato un piede. È stata una scena di una bassezza umana incredibile".

Barbara Bacci, 42 anni, una signora di Cuneo che da anni vive e lavora a Roma come traduttrice, racconta la morte del suo amico Dominique Green. Un ragazzo trentenne di colore giustiziato alle otto di sera di martedì 26 ottobre alla periferia di Houston.

Houston, la città del Texas diventata famosa negli anni Sessanta perché ospita la Nasa, e nei collegamenti da lì i giornalisti di tutto il mondo raccontavano emozionati lo sbarco sulla Luna. Il Texas è lo Stato americano che uccide di più: 18 condannati a morte quest'anno e 331 dal 1977, quando gli Stati Uniti ripristinarono la pena capitale. Più di un terzo del totale, quindi, che è 938. Quest'anno l'America ha giustiziato 53 persone. L'unica notizia positiva è che il numero si è ridotto della metà rispetto a tre anni fa.

Barbara Bacci, sposata con Luis Moriones, spagnolo e traduttore a Roma anche lui, ha conosciuto Dominique per caso dieci anni fa, quando lesse una sua lettera disperata sul quotidiano italiano La Stampa.

Nel 1991 Green era stato arrestato con l'accusa di aver ucciso un uomo nel drugstore di una stazione di servizio, alle cinque del mattino: "Era l'appello di un ragazzo imprigionato nel braccio della morte che cercava qualcuno con cui corrispondere", ricorda Barbara, "e noi rispondemmo con una semplice cartolina, senza pensarci troppo, spinti dalla pietà.

Lui replicò subito con una lettera lunghissima in cui ci raccontava la storia della sua vita. Era nato a Houston, il padre era sempre stato assente dalla sua vita e probabilmente faceva uso di droga. Lo ha visto per l'ultima volta al momento della condanna a morte nel '92. Cinque anni fa abbiamo assoldato un investigatore per trovarlo, promise che sarebbe andato a trovarlo in carcere, ma non lo ha mai fatto. Gli ha solo scritto".

E la madre? "Alcolizzata, drogata, con problemi mentali gravissimi, una personalità multipla al limite della schizofrenia. Dominique non voleva vederla, l'ultima volta che lei andò a trovarlo in carcere fu un anno e mezzo fa. Ma ogni volta che s'incontravano c'erano problemi, cosicché lui la tolse dalla lista delle persone che potevano visitarlo. Al processo aveva pronunciato parole terribili contro di lui, al momento dell'arresto disse addirittura ai poliziotti: "Fate bene a toglierlo dalla circolazione".

In effetti la vita del ragazzo aveva preso una brutta piega. Completamente sbandato, a 18 anni era stato già arrestato per droga e aveva scontato due anni in riformatorio. Naturalmente frequentava cattive compagnie. Come quella di due ragazzi di colore e un bianco che scorrazzavano in auto facendo rapine. Cose di poco conto, bottini da venti dollari, ma alla fine c'è scappato il morto.

Il ragazzo bianco non s'è fatto neppure un giorno di galera, gli altri due hanno accusato lui all'unisono. Green nega di aver sparato, ma non sa chi può essere stato e quindi non fa nomi. Una perizia balistica sul pistolone che sparò, ritrovato nella macchina, non trova impronte di Dominique.

"Nel dicembre '94 dovevo andare negli Stati Uniti", racconta Barbara Bacci, "e quindi ne approfittai per raggiungere anche Houston e vedere in faccia il mio nuovo "amico di lettera". Trovai una persona intelligente, interessante, sensibile. Allora era ottimista, pensava che con un altro avvocato avrebbe potuto risolvere le cose. Ma per me fu una visita scioccante, perché fino ad allora non mi ero resa bene conto di cosa vuol dire essere condannati alla pena di morte: vivere per anni e anni dentro a un carcere in completo isolamento, aspettando di essere uccisi".

Fra la donna italiana e il ragazzo americano nasce l'amicizia. Lui negli Stati Uniti aveva pochi appoggi: soprattutto David Atwood, direttore del Comitato per l'abolizione della pena di morte nel Texas.

"Ma la triste verità è che anche in una città abbastanza grande come Houston", spiega la signora Bacci, "quando c'è un'esecuzione si trovano soltanto pochissime persone disposte a protestare di fronte al carcere: sette, otto, al massimo dieci. Tanto che ad assistere alla fine di Dominique eravamo solo in cinque: due avvocati, Atwood, io e una signora newyorkese, Lorna Kelly, che Dominique aveva conosciuto di recente".

Insomma, anche se del caso Green si sono interessati in Spagna, Francia, Svezia e Germania, l'unica grossa solidarietà è arrivata dall'Italia, con una cinquantina di milioni raccolti per pagare gli avvocati.

E l'animatrice a volte solitaria del comitato per la liberazione di Dominique è stata Barbara Bacci, che è andata in Texas due, tre, anche quattro volte all'anno per dieci anni: "Gli unici appoggi", rivela, "li ho avuti dalla comunità di Sant'Egidio e dalla organizzazione radicale contro la pena di morte Nessuno tocchi Caino, il cui segretario, Sergio D'Elia, è venuto una volta a trovare Dominique".

Ma Green era colpevole o innocente? "Noi siamo contro la pena capitale in ogni caso", risponde la signora Bacci, "ma in questa vicenda particolare sono convinta che Dominique non sia stato quello che ha sparato".

E proprio poche ore prima dell'esecuzione della sentenza, un giudice, con il classico colpo di scena dei film americani, aveva chiesto la riapertura del caso per controllare 280 scatole di documenti riguardanti la vicenda, rinvenute al commissariato.

Niente da fare. Anche questa volta il governatore del Texas si è dimostrato irremovibile. Così come peraltro lo era il suo predecessore George Bush junior, poi diventato presidente. E pensare che nel caso di Green perfino i parenti della vittima, la moglie Bernadette Luckett Lastrapes e i due figli, hanno firmato un appello per la grazia.

"Per me è stato naturale fare quello che ho fatto in questi dieci anni", conclude la signora Bacci, "e purtroppo non è finita qui. Perché io a Houston vengo ospitata nella casa di un altro condannato a morte, Anthony Fuentes, che dovrebbe essere giustiziato fra tre settimane. Era il migliore amico di Dominique, dormiva nella cella attigua e assieme a lui giocava a pallacanestro in cortile: ma solo in due, numero massimo consentito. C'era un terzo loro amico. È stato ammazzato tre settimane fa. Queste sono cose inumane, e spero che il nostro impegno per salvare Dominique sia servito a qualcosa".
Mauro Suttora

Saturday, October 09, 2004

Zalmay Khalilzad

Se per la prima volta in 5 mila anni Kabul elegge il presidente, molto del merito va all'afghano d'America

di Mauro Suttora

Il Foglio, sabato 9 ottobre 2004

New York. Nel 1968 un afghano diciassettenne
sbarcò negli Stati Uniti con una
borsa di studio Afs (American Field Service).
Frequentò l’ultimo anno di high
school, giocò a pallacanestro, s’innamorò
dell’America, ma poi dovette tornare a Kabul
a finire il liceo. Zalmay Khalilzad però
era così fissato con gli Usa e il basket che
riuscì a convincere i genitori a iscriverlo a
un’università a stelle e strisce. Unico compromesso:
quella più vicina a casa. L’American
University di Beirut, quindi.

Intanto gli era cresciuta la barba, Nixon gli
era antipatico, contestava. Ma studiava,
era bravo, e quindi eccolo sbarcare all’università
di Chicago: dottorato in scienze
politiche. Basta basket, e amicizia con
Paul Wolfowitz fresco di Ph.D. Ma quando
nel ’79 ci arriva lui, al Ph.D., i sovietici invadono
l’Afghanistan. Così Zalmay agguanta
un posto di assistant professor alla
Columbia e rimane negli Usa. Diventa un
esperto prezioso per l’Amministrazione
Reagan, che negli anni 80 arma la resistenza
anticomunista dei mujaheddin.

Consulente del dipartimento di Stato, fonda
il Centro per gli studi mediorientali alla
Rand Corporation e diventa vicesegretario
alla Difesa nel ’91, quando Dick Cheney
è capo del Pentagono. Durante una cena
ufficiale del dicembre ’97, a Houston,
Khalilzad litiga con il ministro della Cultura
talebano. Spinto da sua moglie, la
scrittrice femminista austriaca Cheryl Benard,
gli contesta il carcere per le donne
senza burqa. Quello si mette a citare il Corano,
Zalmad alza la voce e cambia idea:
coi talebani non si può trattare, bisogna
combatterli. Peccato che Michael Moore,
che ha inserito nel suo “Fahrenheit 9/11”
immagini di quella delegazione afghana
invitata in Texas dalla Unocal per il progetto
di un oleodotto, non abbia filmato
anche lo storico alterco.

Intanto Khalilzad, insieme a Cheney, Rumsfeld, Fukuyama,
Forbes, Kagan, Podhoretz, Armitage, Bolton,
Kristol, Perle, Woolsey e tanti altri, firma
gli appelli del Pnac (Project for the
New American Century) per la promozione
delle libertà politiche nel mondo e il ripristino
della leadership militare degli
Stati Uniti. Con la vittoria di Bush torna al
Pentagono da consulente, e dopo l’11 settembre
2001 passa all’azione. Coordina la
parte politica della campagna d’Afghanistan,
poi si occupa anche un po’ d’Iraq, ma
alla fine si concentra su Kabul come plenipotenziario
presidenziale. Un anno fa
viene nominato ambasciatore. E oggi può
festeggiare: per la prima volta in cinquemila
anni, come scrive lui stesso in un editoriale
sul Wall Street Journal, i suoi compatrioti
eleggono direttamente il loro capo dello Stato.

“Su dieci miglia ne abbiamo percorse tre”

Raggiungiamo Khalilzad in videoconferenza
da New York. E’ ottimista, ma guardingo:
“Ci vorranno come minimo altri
cinque anni di nostra presenza qui per ricostruire
la nazione e lo stato di diritto.
Forse anche di più: direi che su un cammino
di dieci miglia ne abbiamo percorse
tre”. Il che vuol dire sette anni.

Non vuole fare propaganda, ammette: “I signori
della guerra, i potentati locali, l’oppio, il
controllo del territorio non completo: tutto
vero. Ma questa è una battaglia che
dobbiamo vincere, e resteremo qui tutto il
tempo che occorre per vincerla. I nostri
nemici non s’illudano. Tre milioni di profughi
sono tornati, altre centinaia di migliaia
parteciperanno alle elezioni, se ne
sono registrati 700 mila solo in Pakistan.
La stragrande maggioranza della gente è
felice della nostra presenza qui, sperano
in un futuro di tranquillità e prosperità
dopo un quarto di secolo di disastri. Questa
volta non li abbandoneremo. Non ripeteremo
l’errore della metà degli anni
90, quando ce ne andammo e lasciammo
che nel vuoto di potere s’installassero gli estremisti”.

Gli oppositori di Bush lo definiscono
vicerè e proconsole, dicono che
il presidente Hamid Karzai non conta, è
una sua marionetta, e che è lui il vero capo
dell’Afghanistan. “Saranno i dieci milioni
di afghani che si sono registrati e
che voteranno liberamente a scegliere il
loro presidente. Certo, in Afghanistan c’è
ancora bisogno dei soldati della Nato e
degli Stati Uniti per mantenere la pace.
Ma le cose migliorano. Capisco anche i nostri
nemici, capisco che ci vogliano attaccare
sanguinosamente in questo periodo,
perché se riusciamo a far funzionare le
cose qui sarà un fatto rivoluzionario per
tutta l’area dal Marocco al Pakistan. Avremo
ancora giorni difficilissimi davanti a
noi. Ma ce la faremo”.

Mauro Suttora

Friday, September 17, 2004

parla Martin Scorsese

intervista al regista nella sede dell'Actors' Guild

di Mauro Suttora

New York, 17 settembre 2004

“Devo tutto al cinema italiano, da De Sica a Rossellini a Fellini, da Bertolucci al Pasolini di Accattone. I miei nonni arrivarono negli Usa nel 1910, ma a casa mia tutti continuavano a vedere i film italiani negli anni Quaranta e Cinquanta [i film negli Usa non sono doppiati, hanno i sottotitoli, ndr], e il vostro cinema ha continuato a essere fortissimo fino agli anni Settanta, anche Ottanta. Gli italiani, assieme ai francesi, hanno reinventato il cinema in quel periodo”.

Le organizzazioni degli italiani d’America protestano spesso contro la nom ea di mafiosi che continua a rimanere appiccicata loro addosso, dai Soprano a De Niro a Steven Spielberg, produttore del nuovo cartone animato Shark Tale in cui tutti i pesci cattivi parlano con l’accento italiano. Che ne pensa?

“Ai miei familiari italiani piaceva la satira anche contro se stessi, che è sempre stata una caratteristica dei film italiani. La capivano e la apprezzavano. I film di Pietro Germi e certi personaggi interpretati da Marcello Mastroianni erano veramente tremendi nei confronti dell’Italia contemporanea. 
Quanto a me, a volte è la realtà a imitare la fantasia: sono rimasto stupefatto quando ho saputo che Brusca, il mafioso pentito che fece arrestare l’allora capo dei capi, Totò Riina, dichiarò che il loro mondo, il loro tremendo livello di violenza era proprio come nei Goodfellas, il mio film del 1990”.

Cosa manca al cinema italiano di oggi per ripetere i fasti di quello del passato?

“I film non nascono dal nulla: sono il prodotto della situazione sociale, politica ed economica di una nazione. Ogni società crea il proprio cinema. Il neorealismo nacque dalla devastazione provocata dalla Seconda guerra mondiale. L’Italia si era unita da meno di cent’anni, l’industrializzazione è avvenuta soltanto negli anni Cinquanta... 
Da allora molte microculture sono sparite: ho visto un bellissimo documentario di Vittorio De Seta, Banditi ad Orgosolo, ho seguito le polemiche di Pasolini contro il consumismo, conosco abbastanza bene l’Italia. In una scena della versione originale di Mean Streets, quella lunga due ore e mezzo inserita nei nuovi dvd, Robert De Niro improvvisa una scena con Harvey Keitel e sembra proprio di essere a Elizabeth Street, nel cuore di Little Italy a New York. 
Ma oggi non vivo in Italia, quindi non so rispondere a questa domanda. Bertolucci una volta mi ha detto che i giovani registi hanno sempre paura di misurarsi con la grandezza dei vecchi. 
Ma io e i miei amici, John Cassavetes, Brian De Palma, bruciavamo dalla voglia di raccontare le storie che avevamo in mente quando eravamo giovani, negli anni Sessanta. 
Certo è che non auguro all’Italia un’altra catastrofe come la Seconda guerra mondiale affinchè ne possa scaturire di nuovo del grande cinema.
Un altro mini-documentario di De Seta descrive la Pasqua dei contadini di Lipari, le loro tradizioni. Se tutto ciò sparisce, perdiamo qualcosa di noi, della nostra cultura”.

Come sarà The Aviator, il suo prossimo film che uscirà a Natale, due anni dopo The Gangs of New York?

The Aviator è un film su Hollywood: Leonardo DiCaprio recita la parte di Howard Hughes, il leggendario miliardario eccentrico appassionato di aerei. A me non piace volare, quindi è proprio per questo che gli aerei mi affascinano. In quell’epoca gli aerei su cui volava Hughes erano impressionantemente fragili, come una sedia con due ali. Hughes era il fuorilegge di Hollywood. Nel film ci sono anche Kate Blanchett nel ruolo di Katharine Hepburn e Jude Law”.

Sta preparando anche un documentario su Bob Dylan?

“Sì, lo sto scrivendo, lo finiremo verso la metà del 2005. Descrive la carriera di Dylan, ma soltanto fino al 1966. Sarà un film sul cambiamento: la musica di Dylan si evolveva a una velocità tale che quando un suo disco veniva pubblicato lui era già da un’altra parte. Sarà un’opera molto interessante, spero, anche perchè abbiamo avuto accesso agli archivi personali di Dylan”.

Lei ha un rapporto molto stretto con la musica: nel 1969 è stato aiuto regista in Woodstock, nel 1978 ha filmato L’Ultimo Valzer sull’addio ai concerti della Band, il gruppo che accompagnava Dylan, e recentemente è stato coinvolto in una serie di documentari sulla storia del blues. Cosa pensa delle colonne sonore?

“Ovviamente la musica in un film è importantissima. Ma troppo spesso negli ultimi tempi noto che Hollywood usa le colonne sonore per spiegare, letteralmente, agli spettatori quali sentimenti devono provare mentre guardano una scena: ora è il momento di piangere, ora di commuoversi, ora di ridere... Un tempo la musica si limitava a suggerire”.
Mauro Suttora

Thursday, September 16, 2004

Berlusconi Goes on Holiday

Letter From Sardinia: Il Cavaliere Goes on Holiday

September 20, 2004

By Mauro Suttora
Newsweek International

Yes, under his leadership Italy's public debt has soared to 1.5 trillion euros, the third largest in the world. Yes, he controls six TV channels, monopolizing 90 percent of Italian television. And no, he hasn't solved his various conflicts of interest: he doesn't want to give up his media empire and sees no reason why as prime minister he shouldn't meddle on its behalf. But whatever you think about his politics, Silvio Berlusconi is fun.

Just last month I was enjoying a cocktail in a cafe in Porto Cervo, the tony resort in Sardinia where he also holidays. Suddenly the whole town square erupted in shouts. "Berlusconi! Blair! Here they come!" Everybody rushed to a corner of the piazzetta, where the Italian and British prime ministers were walking, loosely protected by a very few bodyguards in spite of all the terrorism alerts. Berlusconi had this incredible white bandanna wrapped around his balding pate, looking like a weird cross between Janis Joplin and Steven Van Zandt. The guy is 68, and though reportedly multilifted, his face definitely shows his age. Yet he was so happy and smiling that the crowd broke into spontaneous applause.

Spontaneity: exactly what his so-serious political adversaries lack. As it happened, another guy in a bandanna was visiting Porto Cervo that day: Johnny Depp, star of "Pirates of the Caribbean." He didn't meet Berlusconi and Blair, even though he was hanging out just steps away at the fashionable Nikki Beach club. (Bad sign, when Italians borrow names from St-Tropez.) Half of Italy regards Berlusconi as a modern pirate, doing his dirty business. But to me he's got the swashbuckling appeal of Depp. Or maybe James Bond. Cruising off the Costa Smeralda one day, I noticed an immense scaffolding rising from the water. A friend explained that it was a "secret" port, being cut into the cliff below Berlusconi's immense villa. The better for clandestine arrivals, I imagine. Or getaways.

Berlusconi's "bandanna mystery" was headline news, of course. Turns out that Il Cavaliere was shielding a new hair transplant from the sun, not to mention prying eyes. Italy under Silvio lifts your spirit. You think you're living a perpetual joke. And he loves to joke. I didn't overhear his conversation with Tony and Cherie, but I'm sure he was full of corny stories. No doubt after dinner he treated them to one of his Neapolitan love songs, which he writes for his beautiful wife, Veronica.

The ex-actress was the talk of the town some months ago, as all Italy gossiped about her alleged (and again "secret") love affair with a handsome leftist philosopher. My God, the enemy (a communist) in bed! How did jovial Berlusconi respond? During a press conference with the Danish prime minister, he chirped: "I'll introduce you to my wife, poor woman." So he defused the rumors.

Veronica has just published her autobiography, second only to the pope's on Italy's best-seller list. She denies everything, except that her man (Silvio) talks in his sleep. But Berlusconi, like Ben Stiller in "Meet the Parents," has a mother-in-law too. The lady spent a miserable summer, confined in a little apartment in Porto Rotondo, far from Berlusconi's numerous Sardinian villas. (One for himself, one for his brother, one for his mother, others for his children.) Generous and grandiose with his guests, the doting Mr. B "forgot" to include her in his swishy Sardinian summering. He really is one of us.

If any problem clouded his horizon apart from dodging his community-property taxes it was the way locals retaliated by not cleaning the water-treatment facility near his villa. It stank. The Blairs noticed. What a show!

© 2004 Newsweek, Inc.

Tuesday, August 31, 2004

Convention repubblicana

CONVENTION REPUBBLICANA

Oggi, agosto 2004

New York (Stati Uniti). «Combatteremo i terroristi su tutta la Terra. Non per orgoglio, non per potere, ma perchè è in gioco la vita dei nostri cittadini. Attacchiamo i terroristi all'estero per non doverli affrontare qui a casa nostra. Vogliamo far avanzare la libertà in Medio oriente perchè solo la libertà porterà un futuro di speranza, la pace che tutti vogliamo. E vinceremo. Niente ci fermerà».
Il presidente degli Stati Uniti George Bush junior non indietreggia di un millimetro. Afghanistan e Iraq restano in fiamme, i soldati americani uccisi sono ormai mille (neanche uno morì invece nella guerra in Kosovo), metà dei cittadini statunitensi non pensano che andare a Bagdad sia stata una buona idea, l’odio contro l’America è aumentato nel mondo. Ma lui, nel discorso di chiusura della Convention repubblicana in cui ha accettato la nomination, tiene duro: «I regimi assassini di Saddam Hussein e dei Talebani sono finiti, cinquanta milioni di persone sono state liberate, la democrazia sta arrivando in Medio oriente. Abbiamo guidato la coalizione, molti si sono uniti a noi, e oggi tutti siamo più sicuri».

Silvio Berlusconi è stato ringraziato solennemente da Bush, assieme all’inglese Tony Blair e agli altri leader dei Paesi con truppe in Iraq: «Non dimenticheremo che italiani, britannici, australiani, polacchi, olandesi e tanti altri alleati sono al nostro fianco».
Si è concluso così, in una pioggia di palloncini, coriandoli e stelle filanti, il congresso repubblicano. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Neanche Osama Bin Laden era riuscito a far scappare così tanta gente da New York. La settimana scorsa la città si è svuotata come mai a memoria d'uomo. I ricchi si sono rifugiati nelle loro villone agli Hamptons (quelle immortalate nel film Il Grande Gatsby con Robert Redford), i poveri hanno smesso di arrivare a Manhattan in metro per lavorare e sono rimasti nei loro ghetti di Harlem, Brooklyn, Bronx.

La «città che non dorme mai» è piena tutto l'anno, anche nell'insopportabile caldo-umido di agosto. Ma la paura suscitata dal congresso del partito del presidente l'ha lasciata in mano ai repubblicani e ai loro oppositori. Paura per attacchi di Al Qaeda, ma anche fastidio per il clima da occupazione militare che ha bloccato tante strade. Me ne sono accorto già la sera di venerdì 27 agosto, tre giorni prima che la Convention iniziasse. Camminavo nella Seconda Avenue, quando improvvisamente il traffico si è fermato. Migliaia di giovani ciclisti anti-Bush avevano invaso Manhattan. Poi in centinaia si sono fatti docilmente arrestare (per manifestazione non autorizzata) sotto un minaccioso elicottero che incombeva
con un faro tipo Apocalypse Now. Soltanto dopo due ore le auto hanno potuto
ripartire. Moltissimi ragazzi hanno dormito all'aria aperta nel parco della
chiesa Saint Mark. Ma è stata solo la prima di centinaia di manifestazioni,
grandi e piccole, che hanno punteggiato tutta la settimana. Alla fine gli
arresti (tutti senza violenza, con rilascio dopo poche ore) sono ammontati a
duemila.

Dall'altra parte della città invece le strade sono rimaste spettralmente
libere. Transenne ovunque, poliziotti in assetto di guerra, mitra in
evidenza. Il palasport Madison Square Garden, che noi italiani abbiamo
cominciato ad amare appena lo aprirono nel '68 perchè il pugile Nino
Benvenuti ci venne per battere Emile Griffith, era come una fortezza
assediata. Il rapporto fra personale di sicurezza e partecipanti (cinquemila
delegati da tutti gli Stati Uniti, diecimila giornalisti da tutto il mondo)
era di uno a uno. «Qualche volta penso che questo vecchio mondo/ sia come il
cortile di una grande prigione/ alcuni di noi sono prigionieri/ il resto
guardie», cantava Bob Dylan. Sono passati trent'anni, e ormai ci siamo.
Grazie Osama. Ma i delegati repubblicani, in maggioranza gente simpatica di
mezza età vestita chiassosamente, hanno sopportato stoicamente sia gli
sberleffi dei newyorkesi (che in otto su dieci sono democratici, anche se
poi eleggono sindaci repubblicani come Rudy Giuliani o l'attuale, il
miliardario Michael Bloomberg), sia le code per farsi perquisire prima di
entrare, più estenuanti di quelle degli aeroporti.

Sabato sera mi hanno invitato a un pre-Gala nelle nuove Torri gemelle della
Time Warner: un centro commerciale dove i ristoranti piu' famosi di New York
(Le Cirque di Sirio Maccioni, Patsy's - il preferito di Frank Sinatra - e il
nippobrasiliano Sushisamba) sfamavano ai loro banchetti migliaia di
giornalisti e delegati, presto ubriacati dall'alcol offerto gratis senza
limiti.

Domenica ho assistito per strada a un altro corteo contro Bush, poi in un
teatro di Broadway a una commedia satirica contro il suo rivale John Kerry e
la moglie Teresa Heinz (proprietaria dell'omonima multinazionale del
ketchup), infine sono andato a ritirare l'accredito per entrare al Madison
Square Garden. Lì, oltre alla tessera plasticata, mi hanno consegnato una
borsa-regalo per giornalisti che conteneva una scatola di Cheese Macaroni,
ovvero «pasta al formaggio» confezionata apposta dalla Kraft per il partito
repubblicano, un «podometro» per misurare i passi (dimagrire col footing è
l'attività più importante oggi negli Usa), schede telefoniche, caramelle
m&m, «Listerine» (strisce da succhiare per rinfrescare l'alito), una
macchina fotografica usa-e-getta e una guida turistica di New York.

I congressi politici negli Stati Uniti sono molto più divertenti di quelli
italiani. Perchè in realtà qui i partiti non esistono: ogni quattro anni,
prima delle elezioni presidenziali, si formano dei comitati elettorali in
ogni stato, i candidati vengono scelti con le primarie, e alla fine si
riuniscono le Convention, che sono più che altro fiere (o «extravaganzas»
come le chiamano in inglese) con un sacco di feste, riunioni, cene e regali.
Domenica sera sono andato alla festa delle figlie gemelle di Bush, le 22enni
neolaureate Jenna e Barbara, dove però non hanno fatto entrare i giornalisti
dopo averli invitati. Potevamo soltanto stazionare fuori dalla sala da ballo
Roseland sulla 52esima Strada, aspettando che le ragazze arrivassero sul
tappeto rosso e sperando che dicessero qualcosa. Dopo un po' me ne sono
andato, e non ho perso niente: le «first daughters» hanno solo sorriso ai
fotografi, mute.

Di giorno i delegati sono liberi di scorrazzare per la città da turisti (i
democratici lo hanno fatto a Boston un mese fa), perchè le sedute plenarie
hanno luogo soltanto dalle 19 alle 23, in coincidenza con la prima serata
Tv. E i discorsi importanti - non più di due ogni sera - vengono pronunciati
verso le dieci, per coprire tutti i fusi orari degli Stati Uniti (a
quell'ora sono le sette in California). La prima sera ha parlato Giuliani,
il sindaco italoamericano che ha ripulito New York dal crimine e che
vienedato come candidato presidenziale nel 2008, quando Bush anche se
vincerà non potrà più ricandidarsi. Ha fra l'altro accusato l'Italia di
essere stata debole con i terroristi nel 1985, quando lasciammo scappare il
capo dei dirottatori della nave Achille Lauro.

Martedì ho assistito al duetto semicomico delle gemelle Bush: «Nostra nonna
Barbara [moglie di George Bush senior, vice di Ronald Reagan e presidente
dall'88 al '92, ndr] pensa che Sex and the City [il serial Tv più famoso
d'America] sia qualcosa che fanno solo gli adulti, e di cui non si parla
mai...». Poi è salita sul palco la loro mamma Laura con i suoi bellissimi
occhi azzurri da gatta, e ha spiegato cosa significa essere «conservatori
compassionevoli», lo slogan del congresso. Ma quello che ha fatto esplodere
la platea è stato Arnold Schwarzenegger, l'attore eletto l'anno scorso
governatore della California: «L'America è un grande Paese, perchè permette
a uno come me che a vent'anni non sapeva ancora parlare inglese di arrivare
dove sono arrivato... Gli Stati Uniti sono sempre il sogno di tutti gli
immigranti del mondo... Non siamo imperialisti, perchè vogliamo esportare
solo democrazia, libertà e diritti umani».

Nel pomeriggio di martedì ho scoperto che la sempre bella Bo Derek, 47 anni
(l'attrice per cui Dudley Moore perse la testa nel film 10, ormai un quarto
di secolo fa), una dei pochi personaggi di Hollywood che appoggia Bush,
partecipava a una riunione in un club esclusivo all'ultimo piano di uno dei
più famosi grattacieli di Manhattan, il MetLife (l'ex Pan Am che taglia in
due Park Avenue). Un incontro molto particolare: di repubblicani pro-libertà
di aborto. Hanno partecipato anche Bloomberg, il governatore dello stato di
New York George Pataki, ed è abortista perfino l'ex presidente Gerald Ford.
Esistono pure loro nel grande partito presidenziale, che riesce a tenere
assieme proibizionisti e libertari sulla droga, fautori del pareggio di
bilancio e «spendaccioni», e che su una questione scottante come i matrimoni
gay vede in disaccordo addirittura il presidente Bush (il quale vuole
vietarli con legge costituzionale) e il suo vice Dick Cheney, disposto a
delegare a ciascuno dei 50 stati la decisione perchè ha una figlia lesbica.

L'unico tema su cui i repubblicani sono veramente uniti è la guerra in Iraq:
non esiste alcun pacifista al loro interno. Dopo la strage dell'11 settembre 2001 Bush ha aumentato gli stanziamenti militari da 300 a 500 miliardi di dollari annui: gli Stati Uniti spendono in armi più di tutti gli altri stati del mondo messi assieme.
Insomma, finchè si scherza si scherza. Questa Convention è stata una grande
fiera, ma alla fine si sceglie l'uomo più potente del mondo, che può
deciderne le sorti. Appuntamento fra sette settimane e mezzo, quando martedì
2 novembre gli statunitensi eleggeranno o il repubblicano Bush, o il
democratico Kerry.

Mauro Suttora

Sunday, May 09, 2004

Newsweek: My Big Date With Nicole

May 31, 2004

LETTER FROM NEW YORK; Pg. 11

By Mauro Suttora

article on Newsweek

"I had dinner with Nicole Kidman." Hmm... I hadn't known my friend Christian, an Italian journalist, was a celebrity hound. Like most New Yorkers, we make a point of ignoring such people. "Where?" I asked. "At the Mercer Kitchen." What did you talk about, I wanted to know. And how did a poor schmuck like Christian meet Nicole? Well, he explained, "we weren't at the same table. Just next to each other. But I was as close as possible."

Christian's boast came to mind when I received this e-mail from another friend, a casting agent: "Looking for protesters on Sunday. Movie: The Interpreter with Nicole Kidman and Sean Penn. Location: the United Nations. All ethnicities welcome. Pay: $75. Bring photo I.D."

Why not? It was my day off. I was curious. And for the rest of my life I'd be able to say I acted with Nicole Kidman. Besides, "The Interpreter" would be an international blockbuster. My mother in Italy would love it, and Christian would die of envy.

That Saturday night I could hardly sleep. Nicole! I rose before dawn, showered, shaved and headed out into the rainy darkness of my new career. Outside a rundown building on 44th Street, not far from the United Nations, a van was unloading doughnuts, and a queue of several hundred would-be extras wound out the front door. We were ushered into a huge room on the third floor, overlighted and full of grubby plastic chairs. Sadly, this was not going to be an intimate thing between Nicole and me. I spent the morning filling out forms.

Around midday, a chorus of less-than-courteous young men and women began shouting that it was time for "the talent" (meaning us) to get out on the set. It had stopped raining, so they herded us into Dag Hammarskjold Plaza. We were issued signs to wave around and told to demonstrate. Nearby, a little group of real demonstrators huddled in a tent, campaigning for a free Tibet. Tourists glared, furious that because of us they couldn't visit the United Nations. "You are the only ones who get TV coverage, huh?" one muttered, eyeing the microphones and the cameras focused on us instead of the soggy Tibetans. "Be professional," a fierce little assistant director barked. The problem was that Sean Penn had shown up, along with legendary director Sydney Pollack. In the movie Penn plays a secret agent, incognito in our midst. Right. Who wouldn't crane their necks to look at him?

After a couple of hours, we were ordered back to our holding pen, where we were again scolded--this time for jumping too enthusiastically on the buffet of turkey sandwiches. Extras may be artists, I learned, but it takes sharp elbows to get your share of free food. During the afternoon shoots, I was selected as a passerby who refuses the leaflets handed out by the protesters. I hope Pollack didn't notice; otherwise, my face will be edited out of close-ups of the demo itself. Either I protest, or I don't give a damn, but I shouldn't be permitted to switch sides so swiftly. I mean, this is not Italian politics--nor Italian B-movies of the '50s, in which Roman slaves could be seen wearing wristwatches.

At 7 p.m. we queued to get our pay. But instead of money we got another form to fill out: "No signature, no pay!" Two weeks later I received a check for $62, after federal, state and city taxes. I calculated that Nicole and Sean every day make 20 times more than all 600 extras combined. My pay amounted to $4 an hour. My maid makes $15. And I got only a glimpse of Nicole. Don't tell Christian.

© 2004 Newsweek

Wednesday, May 05, 2004

Niall Ferguson al Cfr

IMPERO AMERICANO

Il Foglio, mercoledi 5 maggio 2004

"Anglobalizzazione". Dr. Ferguson invita gli Stati Uniti a essere imperialisti (per il bene dell'"Anglobalizzazione", come la chiama il prof scozzese)

New York. "Anglobalizzazione", la chiama lo scozzese Niall Ferguson, 40 anni ma gia' professore a Oxford e alla New York University, nonche' senior fellow della Hoover Institution a Stanford (Palo Alto, California). Lui ne va entusiasta: "Al mondo farebbe bene un lungo periodo di semina delle istituzioni anglosassoni: gli Stati Uniti hanno la responsabilità di continuare l'opera civilizzatrice dell'impero britannico".
Ma i suoi interlocutori al Cfr (Council on Foreign Relations) di New York, dove presenta il suo ultimo libro ("Colossus: the Price of the American Empire") non ne sono convinti: "L'America non e' un impero coloniale, anche se ringraziamo Ferguson per le sue stimolanti provocazioni polticamente scorrette", lo liquida educatamente Alan Brinkley, rettore della Columbia University.

Eppure Ferguson, senza essere un neocon, possiede argomenti che lasciano il segno, e sfidano quel misto di ipocrisia, dissimulazione e falsita' che gli americani chiamano "denial": "Non potete negarlo, ormai anche commentatori di sinistra come Michael Ignatieff ammettono che il vostro e' un impero. La parola ha perso il suo connotato negativo. Ma certo, non e' detto che gli Stati Uniti vogliano essere all'altezza della sfida che viene loro lanciata: quella di raccogliere l'eredita dell'impero liberale britannico, durato tre secoli."

L'autore di libri scorrevoli come "La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia mondiale" (pubblicato in Italia da Corbaccio) e "Soldi e potere nel mondo moderno. 1700-2000" (Ponte alle Grazie) constata l'ovvio: "Mai prima d'ora, nella storia umana, una nazione si era trovata cosi' davanti alle altre in tutti i campi: politico, economico, culturale, militare. In politica estera gli Stati Uniti mirano esplicitamente a cambiare i regimi e a ricostruire nazioni. In economia il modello del libero mercato non ha alternative. La cultura pop americana, dal cinema alla musica, e' amata universalmente. E le vostre forze armate hanno una capacita' di dominio globale. Perche' non chiamarlo impero?"

Il pudore nel pronunciare questa parola, sostiene Ferguson, viene da lontano: da quando le tredici colonie ribelli dell'impero che oggi hanno sostituito s'imbarcarono nell'annessione di mezzo continente: "Gli americani si sono sempre considerati messaggeri di liberta'. E se oggi se ne vergognano, e' un brutto segno. Perche' se non esiste la consapevolezza di essere un potere imperiale, con tutti i suoi diritti e i suoi doveri, si resta vittima della cronica disattenzione per le cose del mondo che e' il maggior difetto della classe dirigente statunitense oggi".

Ferguson accusa gli americani di non impegnarsi abbastanza, in sostanza di non essere abbastanza imperialisti, di non possedere la mentalita' coloniale: "Contrariamente agli inglesi di uno e due secoli fa, pochissimi fra i vostri migliori laureati vogliono partire verso i Paesi in via di sviluppo per aiutarli a crescere. Oggi a Bagdad quasi nessun americano conosce l'arabo. Ne' fra i giovani universitari e' aumentato l'interesse verso l'Islam dopo l'11 settembre. Gli americani, quando invadono un Pese, dicono: 'Ce ne andremo il piu' presto possibile'. Invece sarebbe necessario l'esatto contrario: l'Inghilterra pianificava secoli di permanenza, e tutte le sue ex colonie oggi ne godono i frutti. Anche gli Stati Uniti, hanno ottenuto risultati solo nei luoghi dove sono rimasti a lungo: in Giappone sette anni, in Germania dieci, in Corea addirittura per combatterci un'altra guerra. E le truppe americane stazionano ancora in questi tre fortunati Paesi, dopo piu' di mezzo secolo. Viceversa, dov'e' stata adottata la tecnica del mordi e fuggi i risultati sono stati negativi: Libano, Liberia, Cambogia, Somalia. Haiti e' stata occupata dal 1915 al '34, poi di nuovo nel '94: un disastro. E cosi' nella Repubblica Dominicana, amministrata dal 1916 al '24. Per far attecchire concetti come stato di diritto, legalita', sistemi fiscali equi, dipendenti pubblici onesti, separazione dei poteri, liberta' di stampa e istituzioni forti che li proteggano, occorrono decenni, se non secoli. Democrazia non e' improvvisare un'elezione".

Un interlocutore nella platea del Cfr obietta che il mondo islamico non ha mai accettato colonizzazioni, e porta l'esempio delle rivolte algerina contro la Francia, libica contro l'Italia e irachena contro il governo filoinglese nel '58: "Ma l'Indonesia islamica e' stata amministrata per secoli dall'Olanda", risponde Ferguson, "e negli altri Paesi la trasformazione e' stata troppo superficiale per produrre benefici. Londra ha comunque influito sull'Iraq dal 1918 al '58: magari gli Stati Uniti durassero quarant'anni! Invece voi ragionate in termini di cicli elettorali: al massimo quattro anni. E questa e' la miglior ricetta per il disastro. Certo, anche gli imperi liberali commettono errori. La strage britannica di Amritsar in India contro i gandhiani, per esempio: 300 morti. Ma domandiamoci anche qual era la misura degli altri massacri in quegli stessi anni: i centomila morti della strage di Nanchino commessa dai giapponesi nel '37?".

Mauro Suttora

Saturday, April 24, 2004

Il neocon Kagan fa marcia indietro

Foglio, sabato 24 aprile 2004 - prima pagina

SAPER FARE LE ALLEANZE

Il Foglio, 24 aprile 2004

di Mauro Suttora

Ora il neocon Kagan dice che Rumsfeld se ne deve andare, e che Bush sa affrontare i nemici ma non gli amici

New York. Robert Kagan, 46 anni, autore del manifesto neocon "Paradiso e potere", ribadisce la sua richiesta: "Donald Rumsfeld se ne deve andare". Ma accanto al segretario della Difesa mette pure il segretario di Stato: "Dopo l'uscita del libro di Bob Woodward anche la posizione di Colin Powell è diventata insostenibile".

Gran folla l'altra sera alla Japan Society per un dibattito fra le due K più prestigiose nella politica estera americana: Kagan e il clintoniano Charles Kupchan, autore nel 2002 di "The End o f the American Era".

"È vero", ammette subito Kagan, "Bush non sta facendo un buon lavoro in Iraq. È stato bravo nell'affermare il diritto alla difesa preventiva, nel sollecitare la riforma del mondo arabo e nell'affrontare con realismo la questione palestinese. Ma non riesce a gestire bene il nuovo mondo unipolare, una situazione confusa e senza precedenti dai tempi dell'impero romano. Occorre coltivare le alleanze, anche con accordi e compromessi, perchè la questione della legittimità conta molto in politica estera: è importante ciò che il mondo pensa di noi, non possiamo ignorarlo.  Dobbiamo riconciliare il nostro potere con l'ordine internazionale, per riassicurare coloro che normalmente starebbero dalla nostra parte".

Parole di moderazione sorprendenti in bocca a un neocon, ma anche Kagan deve fare i conti con gli scricchiolii della Coalizione dei volenterosi: dopo la Spagna, anche la Polonia si è messa a borbottare. "Gli europei comunque non si illudano", avverte, "anche con un eventuale presidente Kerry non sarà automatico trovare un accordo. Ormai fra Europa e America c'è una grande divisione. E prima o poi ci ritroveremo davanti i problemi di Iran e Corea del Nord: rimandarli non significa risolverli. Chi oggi tanto invoca Onu e Consiglio di sicurezza sa bene che questi organismi non hanno mai funzionato. Insomma, si accusa l'amministrazione Bush di aver distrutto una trama di relazioni internazionali che in realtà non era stata mai tessuta, a cominciare dall'intervento in Kosovo non autorizzato dall'Onu".

"Il più grosso equivoco nel quale si cullano gli europei", dice Kagan, "è che la politica estera americana sia improvvisamente caduta in mano a un gruppetto di estremisti. In realtà il desiderio di cacciare Saddam è enormemente condiviso, è sempre esistito un consenso bipartisan su questo. E non c'è voluto l'11 settembre per convincerci. Andate a rileggervi i discorsi di Clinton dal '97 al '99: avrebbe potuto pronunciarli chiunque, nell'attuale amministrazione. E' inutile domandarsi chi scatena le guerre, perchè la risposta non è mai univoca. Chi provocò la guerra contro la Spagna del 1898, per esempio? Teddy Roosevelt, William Randolph Hearst? No, tutti gli Stati Uniti la volevano, non era solo l'isteria di qualcuno, e il presidente William McKinley era popolarissimo. Stesso discorso su Pearl Harbor o il Vietnam, che non fu certo un'avventura solitaria di Robert McNamara".

"Quella del Kosovo fu una guerra illegale ma legittima, questa in Iraq è legale ma illegittima", ribatte Kupchan, "e mi spiego: avrei voluto che l'asticella del livello di pericolo necessario per attaccare preventivamente l'Iraq fosse messa più in alto. La minaccia non era così imminente. Insomma, il concetto di guerra preventiva è giusto, ma è stato sbagliato inaugurarlo con l'Iraq, discreditandolo. Ci siamo bruciati le dita, e ora sarebbe molto più difficile attaccare, che so, la Corea del Nord. Gli Stati Uniti non sono più visti come la soluzione ma come il problema, perchè l'unipolarismo funziona solo se il polo unico è considerato legittimo. La nostra arma principale non sono le  portaerei o gli aerei F16, ma il prestigio. Non è vero che è meglio essere temuti che amati".

Anche Kupchan converge al centro e ammette: "Bush ha fatto cose buone, per esempio l'antiterrorismo non militare: è notevole che da due anni e mezzo non ci siano attentati negli Stati Uniti, anche se prima o poi mi sembra inevitabile che qualcosa accada. Un altro punto su cui Bush ha ragione è che l'Onu limita il nostro potere. È vero, ma è esattamente questo il motivo per cui al resto del mondo l'Onu piace. Cosa ci costava, per esempio, avvertire preventivamente Xavier Solana del nostro sì all'ultimo piano di pace di Ariel Sharon? Dimostriamo una straordinaria assenza di tatto... Ma dò ragione a Kagan: con Kerry non cambierà molto. L'internazionalismo liberal del nordest è ormai tramontato, negli Stati Uniti. E dall'Iraq non possiamo andarcene".
Mauro Suttora

Monday, April 12, 2004

Mauro of Manhattan

NO SEX IN THE CITY

New York Observer, April 12, 2004

by Mauro Suttora


We are done with Sex and the City here in Manhattan, but in Italy they’re still airing last year’s episodes and dubbing the final series. Many Italians are crazy about it, and ask me how the real thing is in New York. 
After one year of living in the city (and witnessing one episode being shot right where I work, at the Rizzoli bookstore on 57th Street), I can reply: Liza, Manhattan, in her mid-30′s. Tall, beautiful, sexy: an irresistible smash. Let’s be scientific: My friend Andrea Califano, professor of genomics at Columbia University, explains that Liza is the perfect phenotype, meaning a genotype (the universal “fashion victim”) who can be detected only in a specific environment (Upper East Side).
The night we met, I walked her home. She was heavily drunk, but found the lucidity to enter a deli and buy Altoids (giant American mints for your breath). In the phenotype language, that means “Kiss me.” Downstairs from her apartment, she muttered something about Eros Ramazzotti and Laura Pausini. I jumped right in: “Let me translate them for you.”
“You come and you go”, she ordered imperiously, pretending to get back in control. I was soon to learn that “pretending” and “control” are two main features of the Upper East Sider. Other key words are “stress” and “relax.”
“Let’s put on some relaxation music …. ” She stopped me when our lips touched. She kissed like a princess. She wore luscious leopard pants. But in bed, she turned out as warm as a Mont Blanc glacier. Nevertheless, I fell for her.
Frigidity is considered a minor problem by New Yorkers: They rely on 12-steps programs or yoga to overcome it. Once I went to bed with an exquisite divorcée. I tried hard to please her. “Don’t worry, I never come the first time,” she finally told me.
I couldn’t wait for the second time. Same scene, until she smiled: “I seldom come.”
This phenotype utilizes her vagina mainly to have monologues with. The 10021 zip code (richest on earth) is the empire of finger and clitoris: “The quickest way to a woman’s heart is through her clit,” wrote comedian Wanda Sykes on Esquire a few months ago. “When we say ‘Harder! Harder!’ that means ‘Take it out and touch my clit.’”
No wonder “vibrant” has become the most used positive adjective here.
Liza and me have been together for a few weeks. She was very affectionate: Every two to three hours, she called me or sent me e-mails and cell messages. She showered me with attentions and gifts: heart-shaped chocolates, little funny letters, candies against cough. We shared lunch breaks, she would come to pick me up at work, we slept together. She drank a lot. “I’ll dry you up,” I joked her. She didn’t appreciate. And I didn’t enjoy paying the fantastic wine bills in restaurants.
She wore Prada shoes, Bulgari watches, Helen Yarmak furs. She used to carry her $2,000 Dolce and Gabbana bag hanging on her arm protruded in front of her, strutting majestically as if she held some imaginary cup in her hand. 
She would rarely venture west of Sixth Avenue and south of 50th Street: “I don’t like downtown; it’s dirty.” She couldn’t walk with her impressive high heels on, so plenty of taxis were essential. She was constantly in debt: rescheduling, consolidating, refinancing it.
She didn’t mention children, although her child-bearing time was running out. It’s incredible how New York women believe they can easily be mothers at 40. Little by little, she took more time for herself: girlies’ nights, gym, jogging, shopping, hairdresser, errands, bikini wax, facials, sunbathing on the rooftop …. Nails, most of all.
“I am stressed, I have to relax, I need my space,” she would tell me while canceling dates.
“Have you ever thought of incorporating me in your relaxation time, or making love is just one more tiresome activity for you?” I mildly protested.
She dumped me by e-mail. Suddenly, she didn’t want to see me nor even say a word on the phone. The day before, she was talking about us meeting her parents and making plans for a trip to Italy: schedules, planes to book, places to visit. The day after, she couldn’t stand me. 
“It is best to go our separate ways,” she wrote, “I feel suffocated. I tried to make things work but it was not there for me, I got caught up in the moment …. Who would not want to go to Italy? You are too much, I am overwhelmed.”
The cheapest Italian beach playboy would flush his used women down the toilet with more grace. Or perhaps we Eurotrash are too sentimental. I don’t mind being ditched, it was just the speed from sweet to sour which surprised me. I blamed this oligophrenia on the booze. I asked her the real reason for the turnaround.
“To be quite honest with you, I am in love with another man,” she replied. Ah, the usual Upper East Side sport: double dating, overbooking …. Poor him:Where was he during that month? There are many Lizas on those blocks. Not all necessarily gold diggers, nor man-eaters. Just “fear of commitment,” I am told. Or “decline of desire.” No sex in the city.
-Mauro Suttora