Friday, April 21, 2006

Condi Rice musicista

CONDI RICE: GUERRA DA SOLA, MUSICA IN COMPAGNIA

Grazia, 21 aprile 2006

Sarà anche la dura teorica della guerra unilaterale, degli Stati Uniti che attaccano da soli, ma quando si dà alla musica Condoleezza Rice si trasforma, si addolcisce, e riesce a suonare soltanto se accompagnata. Da tre anni la segretaria di Stato americana si rilassa eseguendo musica da camera al pianoforte assieme a un quartetto d’archi composto da amici avvocati e professori di diritto: “Non mi diverto più a suonare da sola”, ha confidato al New York Times.

Si riuniscono nei week-end, ogni volta che possono, quando la donna più potente della Terra (terza nella gerarchia di Washington dopo il presidente George Bush e il vice Dick Cheney) non si trova in giro per il mondo. La prima domenica di aprile, per esempio, l’abituale appuntamento è saltato: lei era a Bagdad assieme al collega ministro degli Esteri britannico Jack Straw per sollecitare i governanti iracheni a mettersi d’accordo su un premier, quattro mesi dopo le elezioni. E anche il prossimo fine settimana Condi sarà in missione. Nel solo 2005 ha visitato 49 Paesi con 19 viaggi, percorrendo una distanza superiore a quella fra la Terra e la Luna.

Ma quando resta a casa, nel proprio spazioso appartamento del palazzo Watergate, la Rice non dimentica mai di convocare quelli che ormai “sono diventati i miei migliori amici, fanno quasi parte della famiglia”: due violinisti, un suonatore di viola e un violoncellista. Eseguono brani complicati anche per dilettanti di lusso come loro: Shostakovich, Schumann, Brahms. “Il mio sogno è di imparare un giorno il secondo concerto per piano di quest’ultimo, lo considero la miglior musica mai scritta, appassionata ma non sentimentale”, confida Condi, alla quale la nonna materna insegnò a leggere le note quando aveva quattro anni.

La Rice si ricorda il momento in cui le esplose dentro questa passione: “Fu quando mia madre portò a casa un disco con la Marcia trionfale dell’Aida di Verdi”. In febbraio è corsa al teatro dell’Opera della capitale per assistere alla Turandot di Puccini, messa in scena dal teatro Kirov di San Pietroburgo. Ma non disdegna di salire sul palco anche lei, in occasioni speciali. Lo fece la prima volta a Washington nel 2002, quando accompagnò al piano il celebre violoncellista Yo-Yo Ma durante una premiazione. Fino al college era questo che voleva fare: musicista professionista. “Poi però mi accorsi che per avere successo in questo campo l’impegno non basta: bisogna essere geniali”. E figurarsi se Condi, bambina-prodigio entrata all’università a soli 15 anni, avrebbe rinunciato a primeggiare. Così cambiò subito curriculum di studi, dalla musica alla sovietologia. Da lì l’impegno sulla politica estera che l’ha portata alla guida dell’unica superpotenza mondiale.

Ma l’amore per la musica, e per le armonie che si intersecano con perfezione matematica, le è rimasto. Anche perchè la Rice non ha famiglia, non le si conoscono avventure sentimentali, a 51 anni è rimasta un’elegante zitellona, quindi di tempo libero ogni tanto se ne trova fra le mani. Lo impiega con rigore, svegliandosi presto al mattino per far ginnastica, pesi, tapis roulant. La sua forma è perfetta, le gambe affusolate, il povero Ariel Sharon prima di entrare in coma ne andava pazzo: “Se le guardo perdo il filo del discorso”, confessò pubblicamente.

Quando non risponde accigliata alle domande difficili dei reporters e alle obiezioni di avversari e alleati, o non digrigna i denti minacciando l’Iran (pochi giorni fa ha ribadito di “non escludere l’opzione militare” contro Teheran), Condi coltiva la sua femminilità civettuola. Lo stesso giorno dell’uragano Katrina sfortuna volle che lei si trovasse sulla Quinta avenue di Manhattan a far incetta di borse nella maxiboutique di Ferragamo: “Cosa ci fa qui mentre a New Orleans annegano?”, le urlò una passante. Poveraccia, che c’entrava? Le sue responsabilità riguardano l’estero, non certo la protezione civile interna.

Mai un capello in disordine, mai una piega sul tailleur, la Rice vuole tenere tutto sempre sotto controllo. Nel suo ufficio privato ha fatto installare due specchi: uno per vedersi davanti, l'altro per controllarsi in ogni momento anche dal didietro. Perfetta e perfezionista, impiega ore a scegliere un vestito nello showroom privato newyorkese del suo stilista preferito, Oscar De La Renta. Adora lo shopping: “Alla domenica mattina, dopo aver guardato ‘Meet the Press’ (il talk show politico più importante d’America, ndr), mi piace girare in incognito dentro a qualche centro commerciale attorno a Washington”, ha rivelato.

Quale futuro politico ci sarà per Condi Rice? Qualcuno sogna un duello presidenziale tutto femminile tra due anni: lei per i repubblicani contro la democratica Hillary Clinton. Ma Condi continua a smentire ogni velleità di farsi eleggere, anche perchè non lo ha mai fatto: è sempre stata nominata a tutte le cariche che ha ricoperto. È perciò priva di una base politica. Difficile anche che continui a guidare la politica estera sotto un altro presidente, seppure del suo partito. Più probabile che Rudy Giuliani o John McCain se la scelgano come vice. Oppure che lei riesca a coronare un altro sogno: quello di diventare presidente della Nfl (National football league). Perchè Condi vanta grande dimestichezza anche con la palla ovale. Solo come tifosa, però: le sue domeniche pomeriggio appartengono a Brahms.

Thursday, April 20, 2006

Il presidente cinese visita gli Usa

PER TRATTARE CON LA CINA BUSH S’ISPIRA AL PING PONG DI NIXON

Il Foglio, 20 aprile 2006 pag III

Ping, pong. Sono passati 35 anni dall’inizio della diplomazia omonima, con cui Henry Kissinger e Richard Nixon aprirono alla Cina. Ma oggi il presidente George Bush si trova nello stesso dilemma in cui si trovavano loro allora, e nel quale si dibattè anche suo padre quando per un anno, nel 1975, Gerald Ford lo inviò ambasciatore a Pechino. Sfidare o contenere? Arrabbiarsi o ammonire? Il presidente cinese Hu Juntao arriva in queste ore a Washington: dopo aver incontrato a Seattle l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, parla con quello più potente. L’unico ‘sgarbo’ che questa volta gli Stati Uniti si permettono di fare a quello che resta un dittatore, è che non è prevista alcuna cena ufficiale. Quindi, non è una visita di Stato. Per il resto, Hu ha ottenuto tutto quello che dopo la strage di Tien an men dell’89 i suoi predecessori non erano riusciti a strappare. Comprese le 21 salve di cannone sul prato della Casa Bianca.

Ping, pong. Fra alti e bassi di rapporti politici, quelli economici diventano ogni giorno più stretti. Ormai l’oceano Pacifico settentrionale è diventato un corridoio dove transitano, in viavai continuo, le navi container che trasportano merci made in China nella West Coast. I porti californiani sono così sovraccarichi che i mercantili, per evitare ritardi nello scarico, trovano conveniente passare il canale di Panama approdando in scali meno affollati, fino a New York. E’ il più grosso switch industriale della storia: la Cina che cresce del dieci per cento annuo mentre gli Stati Uniti rinunciano all’attività manifatturiera.

In questo quadro, continuare a insistere di liberalizzazione risulta superfluo. Bush richiama a Washington il suo fidato rappresentante per il commercio estero Rob Portman, nominato appena un anno fa, e lo promuove direttore del budget (ministro del Bilancio). Portman è stato lo sparring partner di Dick Cheney per i dibattiti vicepresidenziali 2000 e 2004. Pazienza se i negoziati di Doha, senza di lui, languiranno senza prospettiva: “Portman dovrà assicurare che il governo spenda saggiamente il denaro dei contribuenti, e che il deficit si dimezzi entro il 2009”, dichiara Bush.

Concentriamoci sul deficit interno, ragiona l’amministrazione, visto che su quello commerciale c’è poco da fare: la bilancia import/export continuerà a premiare per centinaia di miliardi di dollari annui Cina ed estremo Oriente, almeno finchè i salari degli operai cinesi saranno un centesimo di quelli statunitensi. L’unico interrogativo è: quando si verificherà il sorpasso? In che anno la Cina diventerà la prima potenza economica mondiale? Per la verità qualcuno non ci crede. Desmond Lachman dell’Aei (American Enterprise Institute) sostiene: “Sono paure esagerate. La crescita cinese non deriva da innovazione e aumenti di produttività, ma dal solo export, in cui viene investito metà del suo pil. Il giochetto per ora funziona grazie al trasferimento della massa lavoro contadina sottopagata nella produzione industriale. Ma finchè la Cina non adotterà riforme di libero mercato, non raggiungerà mai la produttività americana”.

Il presidente Hu spera di calmare i nervosismi Usa sul potere crescente della Cina, sulla sua moneta sottovalutata, sull’enorme fetta di debito americano in mano a Pechino, e soprattutto sulla fame di petrolio che lo ha portato a stringere accordi di fornitura diretta con i peggiori nemici degli Stati Uniti: gli ayatollah di Teheran e Hugo Chavez del Venezuela. Prima della sua visita la Cina ha mollato il contentino di un accordo per l’import di 16 miliardi di dollari in beni Usa. Per ricompensare Gates della collaborazione fornita da Microsoft sulla censura governativa di Internet, Hu si è impegnato a combattere la pirateria sui brevetti elettronici.

Queste concessioni ovviamente non placano i critici della Cina, i quali spostano le proprie critiche su Bush se questi si dimostra troppo conciliante. Frederick Kempe avverte sul Wall Street Journal che “la Cina sta guadagnando influenza mondiale assai velocemente, senza che i suoi governanti abbiano il senso di responsabilità necessario per esercitarla”. Governanti non eletti democraticamente, e quindi secondo la stessa dottrina Bush inaffidabili e forieri di conflitti. Nelle strade di New York si intensificano le proteste di Falun Gong perseguitata dal regime, gli organismi per i diritti umani (Freedom House, Human Rights Watch, Amnesty) non registrano la minima apertura. Che la liberalizzazione economica porti a quella politica è un miraggio smentito dalla storia degli ultimi trent’anni, dopo la morte di Mao (1976).

Per gli Usa è però cruciale ottenere l’appoggio della Cina per premere sull’Iran. Pechino e Mosca porranno il veto a risoluzioni Onu troppo severe contro Teheran, e la diplomazia Usa è al lavoro per allentare questo fronte comune. Ma Pechino aumenta le spese militari con la scusa di Taiwan (la Boeing non vede l’ora di vendergliele), e Hu Juntao si è fatto campione in Brasile di un modello sociale che ridurrebbe la povertà meglio del capitalismo statunitense.

Bush pronuncerà un solo nome nei suoi colloqui con Hu: Kim Chun Hee. E’ una dissidente nordcoreana che aveva chiesto asilo in Cina, ma è stata rispedita indietro. Non si hanno più sue notizie. Gli Usa continuano nella loro politica di perorare casi umani singoli. Ma la base elettorale conservatrice di Bush gli ricorda che in Cina manca ogni libertà elementare: di parola, stampa, riunione, associazione. Dilemma: che fare? Ping, pong.

Tuesday, April 18, 2006

Darfur: parla Barbara Contini

Oggi, 12 aprile 2006

Centomila morti, due milioni di profughi: questo è il bilancio (provvisorio) della grave crisi umanitaria che si sta consumando in Darfur, nel Sudan. Una strage spaventosa, anche perché nascosta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale. L’Italia però è in prima linea nell’affrontare la situazione, grazie all’impegno di Barbara Contini. L’energica 44enne milanese, famosa per essere stata governatrice civile di Nassiriya (Iraq) nel 2003/4, ha infatti trascorso gli ultimi sedici mesi nel Darfur a coordinare gli aiuti italiani.

Spesso gli inviati nelle zone di crisi preferiscono non allontanarsi dalle capitali: un po’ per ragioni di sicurezza, ma anche perché nel Terzo Mondo le condizioni di vita lontano dalle città sono proibitive. La nostra Barbara, invece, con spirito garibaldino ha subito scelto di «andare sul campo», e invece di restare a Khartum si è trasferita a Nyala, capoluogo meridionale del Darfur.

«Era l’unico modo per avere il polso della situazione», ci racconta, «fuori dai preconcetti e dalle burocrazie. Stare in contatto diretto con chi si aiuta serve per capire quali sono le possibili soluzioni al problema. Nel caso del Darfur, si tratta di un conflitto etnico: gli arabi, che comandano in Sudan, non vogliono cedere neppure in parte alla popolazione locale il controllo di questa immensa regione, grande il doppio della Francia. Islamica anch’essa, ma di pelle nera. Darfur, infatti, significa “terra degli africani”.

«Lì le distanze sono immense, basti pensare che il Sudan è grande quanto tutta l’Europa occidentale. Nyala sta a quattro ore d’aereo da Khartum. E attualmente ospita mezzo milione di sfollati: donne, bambini, vecchi scappati dai loro poveri villaggi rasi al suolo e bruciati dalle bande dei “janjaweed”, tribù di nomadi che fanno piazza pulita di tutto. Molte donne vengono stuprate e poi magari rapite, i maschi sgozzati per non farli entrare nei ranghi della guerriglia.

«Ma sarebbe sbagliato dare tutta la colpa dei massacri a queste tribù. Loro, infatti, vengono mandati avanti, ma il vero interesse sta nelle mani dei governanti locali interessati alle ricchezze del Darfur: petrolio, oro, ferro, rame. Il dissidio fra i nomadi arabi allevatori e gli stanziali neri agricoltori è sempre esistito. Un po’ come nell’America del vecchio West, è quasi naturale che chi migra attraverso tutto il Nordafrica con mandrie di migliaia di cammelli non vada d’accordo con chi recinta i propri campi impedendo il libero passaggio. Ma dal 2004 il conflitto si è acuito, e ha causato vere e proprie stragi».

Il film The Constant Gardener, tratto da un libro di John Le Carré, illustra bene i massacri: bande di guerrieri a cavallo o in dromedario si avventano su villaggi inermi e li distruggono in un battibaleno.

«Il governo italiano ha finanziato trenta progetti di aiuto con quattro milioni di euro», ci spiega la Contini, «ma per farli funzionare abbiamo prima dovuto garantire la sicurezza dell’area. Così ho agito come a Nassiriya: sono andata dai capitribù locali, mi sono fatta conoscere personalmente, ho chiarito che siamo neutrali, e una volta ottenuto l’impegno a non attaccare quell’area abbiamo scavato pozzi, riparato acquedotti e aperto ambulatori e scuole. Con la colletta di mezzo milione raccolta al Festival di Sanremo di Paolo Bonolis l’anno scorso abbiamo costruito un ospedale.

«Ormai sono vent’anni che giro il mondo con gli aiuti umanitari, ho visto bimbi morire a Calcutta e in Bangladesh, purtroppo sono abituata a certi spettacoli drammatici. Ma quel che distingue il Sudan da altri disastri è la dimensione della devastazione: due milioni di persone costrette a vivere tuttora sotto un telo di plastica, anche d’inverno quando la temperatura di notte crolla di venti gradi. Questi profughi non hanno speranza di rientrare nelle loro capanne di paglia e fango, dove vivevano coltivando sorgo, finché non ci sarà un accordo politico.

«Ci sono due movimenti di guerriglieri del Darfur che combattono contro il governo del Sudan: lo Sla (Sudan Liberation Army) e, più a nord, il Jem. Sono in corso trattative ad Abuja, la capitale della Nigeria, ma finchè non si coinvolgeranno anche le bande di nomadi arabi non si arriverà a nulla. L’Italia potrebbe prendere l’iniziativa e convocare tutte le parti a Roma».

Ma Barbara Contini è pessimista: «Non c’è coordinamento umanitario e diplomatico dell’Europa, ora si parla di inviare truppe Nato anche se il problema è politico. Io sono andata in giro con una scorta di due sole persone proprio per non dare nell’occhio: specialisti del corpo speciale Col Moschin che sanno l’inglese e affrontano le questioni non solo con le armi, ma anche con un approccio psicologico. È così che occorre comportarsi in quei posti: pragmaticamente, senza inutili sceneggiate».

Mauro Suttora

Wednesday, March 22, 2006

Sharon Stone a Roma

AVE SHARON! SEI TU L’IMPERATRICE DI ROMA

Diciotto valigie, 40 vestiti e un baule di scarpe. Così la star è sbarcata nella Capitale per presentare “Basic Instinct 2”. Al suo fianco, uno staff tutto rosa e nessun fidanzato. Allora il nostro cronista ne ha approfittato: “Vieni a prender un drink da me?” E lei...

Oggi, 22 marzo 2006

«Sharon, sei proprio l’ultima diva...»
«Come sei gentile a dirmi così...»
Trinità dei Monti, venerdì, quattro del pomeriggio. L’attrice più bella del mondo scende lentamente la scalinata più bella del mondo. Anche il primo sole primaverile scende lentamente, verso la cupola di San Pietro. I turisti impazziscono. Avevo notato una limousine nera in attesa davanti all’uscita secondaria del Grand Hotel St.Regis. Sharon Stone aveva appena finito la conferenza stampa per presentare il film Basic Instinct 2, in sala dal 31 marzo. Mi ero messo ad aspettare, e improvvisamente un gruppetto di donne esce per infilarsi in fretta nell’auto. Non sono sicuro che in mezzo ci sia anche lei, ma le seguo in taxi. Via Bissolati, via Veneto, un dedalo di strade e svolte, infine su per via Sistina. Davanti all’hotel Hassler la macchina si ferma e il gruppetto esce. Sì, c’è anche Sharon, con la sorella muscolosa Kelly e due guardie del corpo italiane.

Si avviano verso gli scalini, i passanti non fanno in tempo a rendersi conto che è proprio l’attrice americana. Lei, con gli occhiali neri, è già avanti. Mi avvicino, faccio finta di appartenere al suo gruppo, la affianco. Abito da poco in un loft di via Margutta: la stessa stradina dove 53 anni fa il giornalista Gregory Peck nascose per una notte la principessa Audrey Hepburn nel film Vacanze Romane. Tento anch’io il colpaccio, chiedo a Sharon in inglese: «Come for a drink», vieni a bere un bicchiere. Lei mi risponde: «Sorry, we gotta go to Fendi», dobbiamo andare da Fendi.

In piazza di Spagna l’assembramento s’ingrossa, ma Sharon non s’infastidisce. Anzi, il bagno di folla sembra piacerle. Si fa immortalare assieme a un tizio vestito da centurione accanto alla Barcaccia del Bernini. Poi imbocca via Condotti, ma si rischia il soffocamento, tutti a fotografarla coi telefonini, e allora Sharon svolta in via Mario dei Fiori. Alla fine si rifugia per una pausa di tranquillità dentro alla gioielleria Martinelli, che spranga la porta. E anche i successivi 200 metri di shopping prima di arrivare a palazzo Fendi in largo Goldoni sono come l’assedio a una regina. «Ammazza quant’è bbella», commenta un fan che è rimasto ad aspettarla giù. Quando la folla viene premiata dopo mezz’ora con un’apparizione della biondissima divina sul balcone accanto all’amica Carla Fendi, l’entusiasmo è alle stelle.

È durata meno di 24 ore la puntata italiana di Sharon Stone. Anche il suo aereo privato, un Gulfstream IV proveniente da Londra, era rimasto impigliato nel blocco dei radar romani giovedì sera. L’atterraggio a Ciampino è avvenuto in ritardo, verso le dieci. Ad accoglierla solo il presidente della Warner Brothers italiana e l’addetta stampa. È stata una scena surreale, perchè dal jet sono scese soltanto donne: una decina di signore in nero, sembrava la scena di un film poliziesco. La sorella di Sharon, che per questo tour promozionale europeo incassa 40mila dollari in qualità di «assistente al guardaroba», e poi la sua migliore amica, la truccatrice, la segretaria personale, la pierre, una guardia del corpo, una parrucchiera che si occupa delle favolose extension. Dopo Israele, Londra e Roma, via verso Parigi, Madrid e Berlino. Infine la prima statunitense a New York, il 27 marzo.

La diva si porta dietro un bagaglio di 18 valigie griffate Vuitton con 25 abiti da giorno e 15 da sera. Un baule alto un metro contiene solo scarpe. Al St.Regis ha dormito nella suite Ambassador, con acqua distillata tiepida nella vasca jacuzzi. Non è difficile immaginare Sharon mentre fa il bagno, perchè è anche una scena clou del film, che arriva ben quattordici anni dopo il primo Basic Instinct con Michael Douglas. Questa volta il personaggio diabolico che interpreta, e che un po’ le assomiglia, fa uscire pazzo uno psicanalista inglese. Il quale ha come unica colpa quella di non essere andato subito a letto con lei. Non ci sono scene con accavallamento di gambe, quindi resta il mistero sulla presenza o no di mutandine. E nessuno dei ben duecento giornalisti alla conferenza stampa ha osato chiederle delucidazioni in merito.

Sharon Stone, a 48 anni, è ancora sexy come non mai. La sua bellezza matura intimidisce, la voce profonda seduce sia nel film (doppiata sensualmente da Cristiana Lionello, figlia di Oreste) sia nella realtà. La voce è un punto debole di molte attrici americane, che parlano con intonazione da Topolino. Lei invece scandisce maestosamente le parole, e dopo le domande aspetta parecchio prima di rispondere, ieratica come un papa, creando suspense e rispetto. Insomma, altro che Julia Roberts, Angelina Jolie o Charlize Theron, eterne ragazze: Sharon Stone è ormai più di una donna, è un’icona. «Da piccola sognavo star come Ava Gardner, Barbara Stanwick, Bette Davis», confessa. Ebbene, le ha raggiunte a quei livelli di mito, quando basta un gesto o un’occhiata per far ammutolire ogni uomo. Lo conferma lei stessa: «Ho problemi con quelli che mi fanno la corte, gli ci vuole del tempo prima di considerarmi normale».

Non che abbia fatto film memorabili, negli ultimi quattordici anni: alzi la mano chi se ne ricorda più di uno o due. Anche la vita privata è passabilmente disastrosa: liti furibonde col secondo marito Phil Bronstein, direttore del quotidiano di San Francisco, sposato nel ‘98 e divorziato nel 2004. Alla fine il giudice ha partorito un’incredibile sentenza di affido per il figlio adottato Roan, 5 anni: starà dodici mesi con un genitore, e poi dodici mesi con l’altro. Una seconda figlia l’ha adottata da sola pochi mesi fa, alla maniera della Jolie.

Sharon sembra fare di tutto anche per confermare la propria fama di mangiatrice di uomini affamata di sesso. Ne cambia uno ogni dozzina di settimane, la lista è ormai sterminata. Dopo l’avvocato Bernie Cahill, solo quest’inverno è stata avvistata con il produttore Gavin Polone, il comico Craig Ferguson e il giocatore di pallacanestro Rick Fox. Tutti più giovani di lei di una decina d’anni, ovviamente, come nei film che interpreta. Lei li domina, irresistibilmente capricciosa: un anno fa partì per i Caraibi portandosene appresso uno, ma lo licenziò dopo appena due tumultuosi giorni. I paparazzi immortalarono il tapino cacciato improvvisamente dalla villa con le valigie in mano. E il giorno dopo lei stava già con un altro.

L’aspetto più incredibile della vita di Sharon Stone è che fino a 34 anni non era nessuno: «C’è voluto il primo Basic Instinct per convincere anche me che sono una bella donna e una brava attrice», ci ha detto. Quasi vent’anni di gavetta, anche a Roma. È giusto, quindi, che ora si goda il successo, dopo l’aneurisma al cervello che l’ha risparmiata per miracolo. Così la sua magica giornata romana si è conclusa, dopo un’apparizione al Tg5 in cui ha rifiutato l’invito da parte di Cesara Buonamici ad accavallare le gambe, in un tripudio di folla alla prima serale in un cinema di piazza Esedra. Con lei sul tappeto hanno sfilato le sorelle Fendi al completo, e fra gli altri i gioiellieri Silvia e Giorgio Damiani, Renzo Rosso della Diesel e Michele Goldschmied della Ag Jeans. Poi, via di corsa all’aeroporto verso Parigi. Quanto al bicchierino in via Margutta col sottoscritto, sarà per la prossima volta. Tanto Sharon non invecchia mai.

Mauro Suttora

Wednesday, March 15, 2006

Berlusconi incriminato

Roma, 10 marzo 2006

Ci risiamo. A un mese dalle elezioni, Silvio Berlusconi è stato incriminato per l’ennesima volta. Ora a metterlo nei guai sono 500 mila euro che la procura di Milano lo accusa di aver girato nel 1999 all’avvocato inglese David Mills, in cambio di testimonianze favorevoli in due processi: quello sulla Guardia di Finanza nel '97 e l’All Iberian nel '98. In entrambi i procedimenti il presidente del Consiglio è stato assolto. L’ipotesi di reato, però, ora è di «corruzione in atti giudiziari»: Mills avrebbe reso testimonianze addomesticate, e per queste sarebbe stato ricompensato. Chi paga un testimone per condizionarlo di solito commette il reato di «subornazione». Ma in questo caso Mills testimoniava in aula, assumendo la veste di pubblico ufficiale. Di qui l’accusa più grave di «corruzione».

L’avvocato Mills è stato il creatore, negli anni Novanta, del sistema off-shore di conti esteri di Fininvest. Nulla di illegale: tutte le grandi società hanno disponibilità finanziarie in banche di varie parti del mondo. Soprattutto nei cosiddetti «paradisi fiscali», dove le tasse sono più basse o addirittura inesistenti. Il problema, però, è che Berlusconi è accusato di aver usato alcune sue società off-shore (Accent e Timor, poi diventate Century One e Universal One) per aggirare il fisco italiano e creare fondi neri, a disposizione per pagare eventuali tangenti come quella a Mills, o a politici italiani. Una vera e propria «tesoreria occulta» dei gruppi Fininvest e Mediaset, insomma. Almeno secondo la pubblica accusa.

Gli imputati hanno sempre respinto questa ricostruzione, sostenendo di non avere mai avuto fondi neri e di aver agito rispettando le regole di trasparenza a tutela degli investitori. Fininvest e Mediaset sono infatti società quotate in Borsa: eventuali distrazioni di fondi da parte degli azionisti di maggioranza (Berlusconi e i suoi figli) rappresenterebbero un danno per quelli di minoranza.

L’inchiesta che si è conclusa venerdì 10 marzo con la richiesta di rinvio a giudizio deriva da un altro procedimento, in mano agli stessi procuratori Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo: quello sull’acquisto di diritti tv e cinematografici di società Usa per 470 milioni di euro, effettuato da Fininvest attraverso le sue due società off-shore nel 1994-1999. La procura ipotizza che le major americane abbiano ceduto i diritti alle società berlusconiane, le quali li avrebbero poi rivenduti con una forte maggiorazione di prezzo a Mediaset. Si sarebbe quindi creato lo spazio per fondi neri ed evasione di tasse. Per questo filone principale nel febbraio 2005 sono state incriminate quattordici persone, fra le quali il premier, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’avvocato Mills. Tra le ipotesi di reato ci sono falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, riciclaggio e ricettazione. Questo processo si trova ora nello stadio dell’udienza preliminare.

Dall'inchiesta principale sono nati due «stralci». Nel primo sono indagati i due figli maggiori di Berlusconi, Pier Silvio e Marina (vice presidente Mediaset e presidente di Mondadori), indicati da Mills come beneficiari economici delle società off-shore. Il secondo è quello dei 500 mila euro (600 mila dollari) a Mills, per i quali il gup (giudice delle udienze preliminari) Fabio Paparella dovrà ora fissare l’udienza (probabilmente a maggio) in cui deciderà se accogliere le richieste dei pubblici ministeri o prosciogliere gli imputati.

La difesa di Berlusconi sostiene che il versamento dei 500 mila euro è stato effettuato dal conto alle Bahamas di Diego Attanasio, armatore salernitano. Il quale però nel giorno del bonifico risulta essere stato in carcere, e quindi impossibilitato a effettuarlo. Mills non nega di aver ricevuto la somma, ma sostiene che era per conto di Carlo Bernasconi, manager Fininvest nel frattempo deceduto, come ringraziamento per «gli spettacolari guadagni di oltre il 70 per cento» da lui realizzati grazie ai consigli finanziari di Mills. In una lettera precedente, tuttavia, Mills aveva collegato la somma direttamente a Berlusconi. In ogni caso, il difensore del premier Niccolò Ghedini protesta soprattutto per l’incriminazione avvenuta in periodo di campagna elettorale.

L’inchiesta sta provocando un terremoto politico anche in Gran Bretagna. L’avvocato Mills, infatti, è marito del ministro della Cultura e degli spettacoli Tessa Jowell. Il 26 febbraio il Sunday Times ha svelato che i 500 mila euro sarebbero serviti per estinguere il mutuo per una casa di Londra comprata dalla coppia. Impossibile che la signora non conoscesse l’origine sospetta di quei soldi. Il 4 marzo, colpo di scena: la Jowell annuncia la separazione dal marito. Ma l’opposizione continua a chiederne le dimissioni. Il 6 marzo il premier Tony Blair in persona è stato costretto a sostenerla: «Deve andare avanti nel suo lavoro». Diranno lo stesso gli elettori italiani a Berlusconi il 9 aprile?

Mauro Suttora

Monday, March 13, 2006

Candidati vip e raccomandati

Oggi, 14 marzo 2006

Mogli, ex cognate, fratelli, figlie: il voto del 9 aprile 2006 rischia di passare alla storia come quello «dei parenti». Quasi tutti i partiti hanno presentato una valanga di candidati «di famiglia», con elezione garantita perché hanno abolito anche le preferenze, con l’annesso rischio-trombatura. Se n’è accorta perfino la Cnn: «La famiglia resta l’istituzione italiana più solida», ironizzano i giornalisti americani.

Il caso più clamoroso: la moglie del segretario Ds Piero Fassino, Anna Serafini, ripresentata per la quinta volta nonostante il massimo di due legislature imposto dal partito a (quasi) tutti i propri parlamentari. Oppure Anna Maria Carloni, aspirante senatrice in Campania, regione della quale il marito Antonio Bassolino è presidente. Napoli vanta peraltro una tradizione consolidata di coniugi in politica: la presidente del Consiglio regionale Sandra Lonardo è infatti moglie di Clemente Mastella (Udeur). In Piemonte la diessina Magda Negri sta con il senatore Enrico Morando. E in Lombardia per la Margherita si presenta Linda Lanzillotta, coniugata con Franco Bassanini.

«Lo scrittore Leo Longanesi sessant’anni fa propose di adottare come slogan ufficiale della Repubblica italiana il motto “Tengo famiglia”», scherza Goffredo Locatelli, autore con Daniele Martini del libro omonimo, pubblicato nel ’97. È lui il massimo esperto italiano di nepotismo, anche perchè sei anni prima aveva esordito con un altro volume, "Mi manda papà", che esaminava i legami familiari della Prima repubblica e vendette 25 mila copie. Non hanno scherzato però tutti quelli che lo hanno querelato, in primis la famiglia Necci, chiedendo un totale di dieci miliardi di lire in danni. Risultato: l’editore Longanesi ha tolto Tengo famiglia dalla circolazione, intimorito nonostante le diecimila copie già vendute.

È un argomento scottante, quindi, quello del familismo in politica. Anche perché riguarda tutti gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per esempio, candida alla Camera nella circoscrizione Lombardia 1 l’ex cognata Mariella Bocciardo, già coniugata col fratello Paolo. Si trova al tredicesimo posto in lista, davanti a vari parlamentari uscenti, e con buone probabilità di farcela. In Sicilia il parlamentare di An Enzo Trantino fa correre la figlia Maria Novella, così come il collega di partito Orazio Santagati, che mette in pista la figlia Carmencita. I figli di Bettino Craxi si dividono equamente: Stefania a destra, Bobo a sinistra.

Infine ci sono i fratelli, come Marco Pecoraro Scanio, ex calciatore e poi assessore ad Ancona e Salerno, il quale condivide con Alfonso la fede verde. L’unico sfortunato sembra essere Umberto Bossi: sua sorella Angela è sì candidata, ma contro di lui, in una lista lombarda concorrente della Lega. Sembrano lontani, insomma, i tempi del povero Paolo Pillitteri, crocifisso come «sindaco cognato» quando governava Milano per conto di Craxi.

«Non è cambiato nulla dai tempi della famigerata Prima repubblica», commenta sconsolato Locatelli, «anche perché ormai la politica si è degradata a mestiere, non è più un fatto onorifico». Fra l’altro, abolito il voto di preferenza, quest’anno noi elettori non possiamo neppure vendicarci bocciando il parente eccellente. Insomma, assistiamo impotenti al trionfo della nomenklatura burocratica, che si appropria in ogni modo di compensi molto alti (un parlamentare guadagna 120 mila euro annui). Occorre precisare però che, almeno nel caso delle mogli di Fassino, Bassolino e Bassanini, si tratta di signore in politica da molto tempo, le quali probabilmente avrebbero fatto carriera indipendentemente dai mariti. In altri casi, invece, la «vocazione» sembra essere maturata all’improvviso...
E pensare che fino a pochi anni fa i consiglieri comunali e provinciali percepivano soltanto qualche gettone di presenza. Oggi invece tutti, perfino gli eletti in quartieri e circoscrizioni, incassano uno stipendio fisso. L’unica consolazione viene guardando gli Stati Uniti: anche lì le dinastie familiari sembrano eterne, con cariche che passano di padre in figlio (George Bush senior e junior), tra fratelli (John, Robert e Ted Kennedy) e fra marito e moglie (Bill e Hillary Clinton)

L’altro fenomeno usuale della politica italiana riguarda le star dello spettacolo. Anche quest’anno la lista è lunga: Franca Rame si candida con Antonio Di Pietro, Rita Pavone al Senato col ministro Mirko Tremaglia (An) nella lista Per l’Italia nel Mondo, il regista anticlericale Marco Bellocchio e il fotografo Oliviero Toscani con i radicalsocialisti della Rosa nel Pugno. Pippo Franco è capolista al Senato per il partitino Dc-Psi schierato con la Casa delle Libertà da Gianfranco Rotondi e Gianni De Michelis. Vittorio Cecchi Gori è stato arruolato come capolista della Lega Nord a Roma: «Mi sa che mi toccherà giocare un po’ meno a tennis», è stata una delle sue dichiarazioni più significative degli ultimi giorni.

Il giornalista del Tg1 Francesco Pionati corre con l’Udc, l’ex direttore del Messaggero Paolo Gambescia con i Ds, e la presentatrice Mara Carfagna, 30 anni, con Forza Italia nella sua Salerno: «Non chiamatemi soubrette, sono laureata in Legge con 110 e lode», dice. A gennaio sedeva alla destra del premier alla cena dei Telegatti, ora è quarta in lista per la Camera. Anche la campionessa olimpionica di sci di fondo Manuela Di Centa sceglie Berlusconi, mentre gli astri sembrano portare verso i Comunisti italiani: con Oliviero Diliberto si candidano infatti la scienziata triestina Margherita Hack e l’ex astronauta Roberto Guidoni. Il trans Vladimir Luxuria va con Rifondazione di Fausto Bertinotti. Infine Fiorella Ceccacci, in arte Rubino, 31 anni, attrice che esordì con Tinto Brass nel ’99, ma nota soprattutto come fidanzata di Michele Cucuzza fino a un anno fa. Lei riunisce in sé le due qualità di questo articolo: è sia (ex) parente, sia artista. E viene candidata da Forza Italia in tutto il Lazio.

Mauro Suttora

Saturday, March 04, 2006

Molestie sessuali

Oggi, 1 marzo 2006

Un superiore fa capire a un’impiegata che per conservare il posto deve andare a letto con lui. Un venditore fa commenti osceni su alcune clienti con i propri colleghi. La segretaria di uno studio legale viene messa in imbarazzo da avvocati i quali raccontano abitualmente barzellette spinte in sua presenza. Il cassiere di negozio tocca il sedere e il seno di una collega contro la sua volontà. I colleghi di un’operaia la prendono in giro chiamandola con nomi offensivi e allusivi al sesso. I dipendenti di una filiale inseriscono barzellette pornografiche sul bollettino intranet dell’ufficio. Un impiegato invia ai colleghi e-mail contenenti linguaggio erotico.

Sono sette esempi di condanne recenti per «sexual harassment» in California. Ormai negli Stati Uniti le cause per molestie sessuali sul luogo di lavoro intentate ogni anno sono migliaia. E centinaia di aziende vengono condannate anch’esse, assieme al reo, per «omesso controllo». I risarcimenti per danni morali ammontano a milioni di dollari. Così, dall’inizio dell’anno una legge impone che anche in California, come negli stati di Massachusetts, Connecticut e Maine, ogni società con più di cinquanta dipendenti organizzi un corso «antimolestie» di due ore ogni due anni, con frequenza obbligatoria.

Le situazioni citate all’inizio potrebbero essere punite anche in Italia? Oppure negli Stati Uniti va prendendo piede un nuovo puritanesimo che condanna qualsiasi riferimento al sesso? Per capire dove si situa il confine fra comportamenti leciti e approcci vietati, abbiamo interpellato la maggiore esperta americana del campo: Deborah Rhode, docente di diritto all’università di Stanford.

«Salve ragazze!».

«In questo campo non si può mai generalizzare», spiega la professoressa Rhode, «perchè tutto dipende dal contesto. Perfino un saluto apparentemente innocuo come “Hello girls!”, lanciato da un collega al mattino, può essere sanzionabile se l’ambiente di lavoro è carico di tensione, e se viene intenzionalmente rivolto a una dipendente che ha già subito approcci pesanti, se ne è lamentata in privato e poi con una denuncia formale scritta, ma nonostante questo continua a essere presa in giro e trattata come una ragazzina. Immaginiamo per esempio una distinta dirigente di mezza età la quale venga volutamente e ripetutamente equiparata a una “ragazza” che svolge mansioni inferiori da parte di superiori o colleghi: se risulta chiaro l’intento umiliante, può scattare la denuncia».

Molestare in silenzio.

«La maggior parte dei comportamenti punibili si situa in una zona grigia e ambigua. Per esempio, un dirigente può mettere in serio imbarazzo una dipendente anche solo fermandosi con eccessiva insistenza sulla porta della stanza di lei, continuando a osservarla senza un particolare motivo apparente. Il silenzio a volte è peggio delle parole. I tribunali sanzionano questo tipo di invasione della privacy. In alcuni casi ci sono stati richiami a impiegati che alzavano troppo la testa per spiare colleghe avvenenti sedute ignare alla loro scrivania».

Corteggiamento impossibile?

«Il capitolo dei complimenti e degli atti di cavalleria è immenso. Qui la regola generale è: nessun problema se sono graditi, ma semaforo rosso appena viene segnalato fastidio. Il “Come sei bella con questo vestito” può essere allo stesso tempo una semplice cordialità se detto en passant e sorridendo, oppure una simpatica forma di corteggiamento, oppure ancora un’intollerabile cafonata se pronunciata in modo viscido da un collega cui si è rifiutato un appuntamento la sera prima, e che ti blocca in corridoio guardandoti fisso negli occhi con aria viscida... Stesso discorso per le porte che vengono aperte, i regali, gli inviti, le occhiate, i commenti ad alta voce con altri colleghi. Se sono “unwelcome”, non apprezzati, meglio lasciar perdere subito».

Le avances di San Valentino

«Negli Stati Uniti la festa di San Valentino, 14 febbraio, viene festeggiata molto più che in Europa. Questo è l’unico giorno dell’anno in cui la locuzione “ti amo” cambia significato: ne assume uno molto più ampio, fuori da ogni riferimento romantico. In America anche semplici amici si scambiano cartoline di auguri di Valentine, per dirsi semplicemente “ti voglio bene”. Ma se il collega infatuato appicicaticcio, o peggio il dirigente affamato di sesso, approfitta del San Valentino per lanciare avances impensabili negli altri giorni, il comportamento finisce direttamente nel dossier a suo carico. E’ successo in diverse cause». Forse questo è il destino che attende qualche nostro focoso Romeo italiano che si spinge un po’ troppo oltre il mazzetto di mimose con la scusa della festa della Donna l’8 marzo...

Molestie «ambientali».

Susan Bisom-Rapp, docente all’università di San Diego (California) è anch’essa una veterana del diritto anti-molestie: «I tribunali statunitensi distinguono due forme di sexual harassment», spiega: «C’è quello diretto, sessuale, con inviti sia espliciti che impliciti. Ma c’è anche la molestia ambientale sul luogo di lavoro, ovvero una condotta continuata nel tempo che crea una situazione intimidente, ostile e offensiva. Per vincere questo secondo tipo di cause, occorre provare che il comportamento - da parte di una o più persone - è stato grave e pervasivo».

Calendari erotici.

«Per esempio», continua la Bisom-Rapp, «se un collega appende un calendario sconcio sopra la sua scrivania, la sua vicina può chiederne la rimozione. E’ un caso isolato, la responsabilità ricade soltanto sul singolo o sui superiori se non intervengono. Ma se tutti gli uomini di quella stanza o zona dell’open space coltivano pubblicamente le proprie piccole perversioni voyeuristiche, mettendosi ad appendere donne nude dappertutto in evidenza, e l’azienda resta inerte nonostante le sollecitazioni, allora la condanna in giudizio è pressochè sicura. Attenti anche a certi salvaschermo troppo spinti dei computer».

Niente sesso? Non ti promuovo.

«Il campo più delicato è quello delle discriminazioni: come provare di non essere stati promosse o di non avere ottenuto un aumento solo perchè non siamo state abbastanza ‘disponibili’? Come accusare qualche collega di essere la favorita del capo, per poi magari scoprire che non di divano si è trattato, ma di semplice amicizia, o sintonia, oppure anche di patente nepotismo - una parente, o figlia di amici - , cosa censurabile ma che non rientra nelle molestie sessuali indirette? In teoria una collega - anche lei stagista non pagata - di Monica Lewinski avrebbe potuto far causa per danni a Bill Clinton... Ma la giurisprudenza in questo campo è scivolosa. Anche se le vittime indirette di avances sessuali rifiutate (ma accettate da altre) a volte hanno ottenuto somme notevoli».

Presidente licenziato.

Per evitare problemi alcune società americane hanno adottato regole draconiane. L’anno scorso, per esempio, il presidente della Boeing ha dovuto dimettersi perchè aveva osato mettersi con una dipendente, sinceramente innamorata di lui: vietato dalle regole aziendali.

Bimbo di sei anni sospeso.

Il 30 gennaio, a Brockton (Massachusetts), un bambino di prima elementare è stato sospeso da scuola per tre giorni: aveva toccato una compagna di classe fra le cosce. «Stava solo giocando, anche la bimba lo ha toccato», ha protestato la madre, Berthena Dorinvil. Niente da fare: forse ora il ragazzino finirà sul Guinness dei primati come il molestatore sessuale più giovane della storia.

Perfino all’Onu...

Anche le Nazioni Unite hanno avuto problemi negli ultimi mesi: Carina Perelli, la dirigente uruguaiana che ha controllato le elezioni in Iraq, è stata denunciata non per avances dirette, ma per le «molestie ambientali» descritte prima. Solo che a lamentarsene non sono state donne, bensì uomini: perchè la Perelli è gay. Lei ha ribattuto fieramente: «Mi attaccano per invidia e per ragioni politiche: sono solo dei frustrati un po’ incapaci».

Mauro Suttora

Friday, February 17, 2006

Intervista a Turki

A NEW YORK LA PRIMA DEL PRINCIPE AMBASCIATORE, MAESTRO D’AMBIGUITA’ SAUDITA

Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3

New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”

Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.

Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”

L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.

Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.

L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”

Mauro Suttora

Condi: 75 milioni per l'Iran

PER IL REGIME CHANGE NONVIOLENTO DEI MULLAH

Il Foglio, venerdi 17 febbraio 2006

New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare di più l’opposizione democratica in Iran ha viste infine accolte le sue proposte da Condi Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano”, ha detto il segretario di Stato al Senato, “e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per i riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”.

Si tratta di una svolta storica. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di Stato sembra puntare tutto su questo tipo di opzione, ed ha aumentato geometricamente i fondi. La maggior parte, 50 milioni, verranno spesi per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Condi Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda.

Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle Ong (Organizzazioni non governative) per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan Usa che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti.

I dirigenti del dipartimento di Stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un reale seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno quindi ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel ‘79 da Ruhollah Khomeini. E proprio all’intervento statunitense del ‘53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington di indebita interferenza negli affari interni di uno stato sovrano.

Cinque milioni di dollari vengono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Verranno ripristinati massicciamente anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà per ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre 2001. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet.

“E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’amministrazione Bush per la mancanza di aiuti, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”.

Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chafee del Rhode Island, ha invece criticato gli sforzi pro-democrazia dell’amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005, e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Sull’Iran, in particolare, il democratico Martin Indyk della Brookings Institution avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti in Iran: “Rischiano la prigione se non la vita, perchè verranno additati come agenti degli americani”.

E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata dalla Rice. La quale però ha escluso qualsiasi opzione militare sull’Iran. Contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta perfino il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy, vuole dotarsi della bomba atomica.

Mauro Suttora

Thursday, February 16, 2006

Athina Onassis compie 21 anni

QUANTO VALE OGGI LA META’ DELL’EREDITA’ ONASSIS RIVENDICATA DA ATHINA

Oggi, febbraio 2006

Il patrimonio della Fondazione Alessandro Onassis (il figlio di Aristotele premorto al padre nel ‘73 in un incidente aereo) è valutato oggi in circa un miliardo di dollari. Consiste di 19 navi: tredici superpetroliere a tecnologia avanzata e sei portacontainer, per un totale di due milioni e 700mila tonnellate di stazza. Si tratta della quinta flotta petrolifera mondiale. Alla morte di Aristotele Onassis, 31 anni fa, le navi erano 25, ma il tonnellaggio complessivo attuale equivale a quello del 1975, perche’ oggi i vascelli sono piu’ grandi.

La Fondazione possedeva soltanto un edificio a Londra, mentre oggi il patrimonio immobiliare comprende proprietà anche ad Atene, in Francia e a New York (il grattacielo Olympic Tower sulla Quinta Avenue, valutato da solo 300 milioni di dollari, diviso inizialmente a meta’ fra Cristina e la Fondazione, ma del quale il vedovo di Christina Thierry Roussel vendette per 50 milioni la sua parte dopo la morte di lei nell’88). Vi sono poi partecipazioni in varie attivita’ imprenditoriali e investimenti in titoli.

La sede della Fondazione e’ sempre in Liechtenstein per motivi fiscali. Nel 2001 è nata la Fondazione Onassis Usa, che si occupa in particolare degli scambi culturali con gli Stati Uniti. La Fondazione ha mantenuto il proposito voluto dal fondatore: distribuisce ogni anno la meta’ dei suoi utili commerciali in attivita’ benefiche. In tutto, 500 milioni di dollari in questi 30 anni in tre campi: educazione, cultura e sanità. Dal ‘78 sono state finanziate tremila borse di studio per giovani greci che vanno all’estero, e centinaia per studenti stranieri che si specializzano in Grecia.Nel ‘92 è stato aperto il Centro Onassis di Chirurgia cardiologica ad Atene, e nel 2007 aprirà l’adiacente Casa Onassis delle Lettere e Arti (costata 60 milioni di euro).

Il presidente della Fondazione, Stelio Papadimitriou, principale collaboratore di Aristotele Onassis, è morto ottantenne tre mesi fa. Gli è succeduto il figlio Antonio, 50 anni, che guida un presidenza di tre persone, di cui fanno parte gli altri due figli dei due ex vicepresidenti: Giovanni Ioannidis, 51, figlio di Paolo (capo delle attivita’ marittime), e Giorgio Zabelas, 49, figlio di Apostolos (i padri rimangono nel consiglio d’amministrazione composto da 15 persone). Una gestione familiare ereditaria nepotistica, insomma, finita anche per questo nel mirino degli agguerriti avvocati londinesi di Athina Onassis.

Per escludere la ragazza, l’anno scorso la Fondazione ha cambiato il proprio statuto, stabilendo che i membri del consiglio d’amministrazione debbano avere almeno 30 anni e saper parlare in greco. Per questo Athina Roussel, che conosce solo inglese, francese (lingua paterna) e svedese (lingua della matrigna), si e’ iscritta a gennaio a una full immersion di greco.

Wednesday, January 25, 2006

Giulietta e Romeo in Iraq

Il sergente Usa che ha sposato l'irakena

Oggi, 26 gennaio 2006

Gli occhi. Quelli bellissimi di lei, Ehda, dottoressa irachena 25enne: neri, profondi, misteriosi e affascinanti come nelle Mille e una notte. Quelli di lui, Sean, valoroso sergente 27enne dell'esercito statunitense: azzurri come il mare della sua Florida. Si sono incontrati un giorno di maggio del 2003, un mese dopo la liberazione dell'Iraq, mentre lui faceva da sentinella al ministero della salute di Bagdad. Si sono folgorati a vicenda, e da allora non si sono più lasciati.

«Ci siamo sposati tre mesi dopo con una cerimonia segreta di venti minuti per strada, durante la pausa di una mia missione di pattugliamento», racconta Sean Blackwell a Oggi da Pensacola (Florida), dove è ritornato assieme a sua moglie dopo molte peripezie. Che Ehda racconta nel libro Giulietta e Romeo a Bagdad (ed.Mondadori), appena pubblicato in Italia. Il loro infatti è stato un amore contrastatissimo, che ha dovuto superare innumerevoli ostacoli prima di realizzarsi.

Dicono che a Saddam Hussein piacesse Shakespeare, e in particolare il dramma dei due giovani innamorati di Verona. Fu proprio la visita a uno dei palazzi dell'ex dittatore la meta del primo appuntamento che Sean riuscì a strappare a Ehda: «La conobbi quando si presentò all'entrata del ministero che avevamo occupato», ricorda Sean, «si metteva a disposizione per lavorare come medico laureato in uno degli ospedali che, dopo i saccheggi dell'immediato dopoguerra, sembravano sul punto di crollare. Voleva anche andarsene da Qut, la città satellite di Bagdad dove lavorava, perchè dopo la caduta di Saddam erano apparsi i fondamentalisti islamici, i quali già minacciavano le donne che come lei vestivano all'occidentale.

«Purtroppo i burocrati americani del ministero la rifiutarono. Ma io fui subito colpito da Ehda, dalla sua bellezza, eleganza, cultura, e anche dal fatto che parlava inglese. Mi trovavo in Iraq quasi per caso, perchè avevo lasciato l'esercito nel 2002. Volevo laurearmi in scienza dell'alimentazione, e poichè l'università è gratis per i membri della Guardia nazionale della Florida, mi ri-arruolai. Ma fino ad allora la Guardia nazionale era una specie di Protezione civile, che interviene per le emergenze come gli uragani o le sommosse interne, formata da volontari che hanno un altro lavoro e che dedicano all'addestramento solo un paio di weekend al mese. Invece il caso volle che un mese dopo aver firmato proprio il mio reparto venisse comandato in Iraq, e così mi ritrovai in una garitta a Bagdad...

«Quando mi trovai di fronte quella bella ragazza così desiderosa di collaborare con noi americani feci di tutto per sormontare il muro di indifferenza che le veniva opposto. Non volevo che se ne andasse, e così proposi che la prendessero in una delle cliniche gestite da medici delle forze armate assieme a dottori locali. Sapevo che mancavano dottoresse donne per visitare le pazienti femmine, ma alla fine neanche questa strada si rivelò quella giusta. La verità era che il chirurgo dell'esercito non voleva avere attorno dottori iracheni... Ma almeno tutto questo darmi da fare impressionò Ehda, che rimase lì a chiacchierare.

«Lei si lamentava, diceva che a Qut i fondamentalisti volevano rapirla. Io le risposi sorridendo: "Beh, hanno ragione". E lei, confusa: "Cosa?" E io: "Anch'io ti rapirei". Stavo solo facendo il galante, ma quelle mie parole la mandarono in tilt, tanto che smise di parlare inglese e si rivolse al nostro interprete in arabo. Volevo solo flirtare, ma l'avevo messa in imbarazzo. Non sapevo che da quelle parti è impensabile che un uomo si rivolga a una donna in quel modo. E' uno dei tanti errori che noi americani abbiamo commesso in Iraq. Per fortuna Ehda non se la prese, anzi: dopo essere stata ingaggiata come traduttrice, prese l'abitudine di passare a salutarmi ogni due-tre giorni, portandomi ogni volta qualcosa di buono da mangiare.

«Io mi ero innamorato di lei, e quando cominciamo a frequentarci scoprimmo di avere parecchio in comune: per esempio, entrambi eravamo stati abbandonati dai rispettivi padri da piccoli, e per questo sentivamo il bisogno di creare una famiglia unita. Io per la verità avevo già un matrimonio alle spalle, e due figlie da due donne diverse, ma appena vidi Ehda capii che volevo ricominciare con lei. Dopo tre mesi di appuntamenti le chiesi di sposarmi. Anche lei mi confessò di amarmi.

«Lì però cominciarono i problemi. Il mio comandante, colonnello Thad Hill, era contro il matrimonio. Non voleva neppure discuterne. Un tenente con cui riuscii a parlare mi fece un discorso che mi sembrò abbastanza razzista: "Ma hai pensato a come sarebbe la vostra vita assieme, non vedi cosa mangiano i musulmani, come si vestono, come pregano?" E quando gli risposi che mi ero già convertito all'islam per chiedere la mano di Ehda ai suoi genitori, gli venne un colpo. Così ignorai l'opinione dei miei superiori, e organizzai un matrimonio ultrarapido in un giardinetto dietro a un ristorante, nel quartiere Wasiriyah di Bagdad. I soldati del mio plotone fecero la guardia con fucili e una mitragliatrice pesante. Io ero in tuta mimetica, lei in un vestito a fiori...

«Quando il colonnello Hill scoprì che ci eravamo sposati si imbestialì, e minacciò di trascinarmi davanti alla corte marziale per aver effettuato la cerimonia durante il servizio armato. Ci ha salvato la pubblicità di giornali e tv, sollecitata da un avvocato che contattai in Florida. Nel frattempo, anche Ehda stava passando i suoi guai. Un giorno, mentre tornava a casa in taxi dalla base, fu bloccata da un'auto con dei brutti ceffi che la minacciarono di morte se avesse continuato a frequentare americani vestita così. Molti suoi amici si opposero al matrimonio e poi la abbandonarono, insultandola. Io le chiesi di non uscire più di casa, ma lei insistette per continuare a lavorare come traduttrice. Insomma, io venivo trattato come un traditore, e lei come una puttana.

«Alla fine, un anno dopo, l'esercito mi ha lasciato andare, e sono tornato qui in Florida con Edha. Ma quest'esperienza mi ha scosso, non mi faccio più illusioni sulla guerra e sui motivi per cui i politici ci hanno spedito a morire in Iraq. Poi ho avuto anche paura che il sud degli Stati Uniti si rivelasse troppo conservatore per una donna moderna come mia moglie. Invece lei si è ambientata. Purtroppo non le hanno riconosciuto la laurea, e così per ora deve lavorare come infermiera. Ma sta preparando gli esami per esercitare la sua vera professione. E prima o poi organizzeremo una grande festa per ricelebrare il nostro matrimonio, questa volta a piedi nudi al tramonto sulla spiaggia della Florida...»

Mauro Suttora

RIQUADRO

Tre importanti ottantenni statunitensi nell'ultima settimana hanno chiesto il ritiro dei soldati Usa dall'Iraq:

Walter Cronkite, l'Enzo Biagi d'America. Il decano dei giornalisti, che nel 1968 fu fra i primi ad avere il coraggio e l'onestà di riconoscere che la guerra del Vietnam non poteva essere vinta, oggi pensa lo stesso sull'Iraq: «Prima ce ne andiamo, meglio è».

Tony Bennett, l'erede di Frank Sinatra. Il grande cantante, veterano della Seconda guerra mondiale, ha dichiarato: «La guerra in Iraq mi ha fatto diventare pacifista. La guerra è la forma più bassa del comportamento umano».

John Eisenhower, generale e repubblicano come suo padre, l'ex presidente degli anni '50: «Ho votato per Bush, ma l'Iraq è un'avventura sbagliata».

Saturday, January 21, 2006

La truffa J.T.Leroy

INGANNEVOLE E' LO SCRITTORE LEROY SOPRA OGNI COSA

Oggi, 25 gennaio 2006

“Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa”, ma ancor più ingannevole del cuore si è rivelato l’autore di questo libro del 2002, J.T. Leroy. Che non esiste, perchè quello che finora si era spacciato per lo scrittore 25enne e “maledetto” del romanzo autobiografico è in realtà una ragazza della stessa età, Savannah Knoop, che però non ne ha scritto una riga. La vera autrice del libro (e di altri due: il precedente Sarah e il successivo Harold’s End) è la 40enne Laura Albert, moglie di Geoffrey Knoop, fratellastro della ciarlatana.

Lo pseudo-Leroy aveva raggiunto una certa notorietà anche in Italia, soprattutto dopo che Asia Argento era diventata sua grande amica, diceva di volere un figlio da lui (dopo quella avuto col marito Marco Castoldi, alias Morgan, ex cantante dei Bluvertigo), e nel 2004 diresse un film omonimo tratto dal libro.

Adesso Asia non risponde al telefono, e anche il produttore del film Brian Young è imbarazzato, parlando da Los Angeles con Oggi: «No comment, difendiamo il nostro film in quanto opera d’arte». Opera d’arte può darsi, ma sicuramente tutta l’operazione Leroy si è rivelata una cialtronata. Confezionata a regola d’arte, questo sì, tant’è vero che ancora pochi mesi fa perfino il New York Times continuava ad accreditare Leroy come grande scrittore, fino ad affidargli un reportage turistico-letterario su Eurodisney, pubblicato il 25 settembre dal supplemento viaggi curato da un altro italiano, Stefano Tonchi
.
Proprio la spedizione a Parigi per l’inchiesta ha però insostettito il quotidiano newyorkese, dopo che il settimanale New York aveva rivelato la truffa: nell’articolo si descriveva un viaggio con quattro partecipanti, ma le ricevute rimborsate in nota-spese, comprese quelle dei biglietti aerei, si riferivano a sole tre persone. Il personale di Eurodisney e dei due alberghi dove il trio ha soggiornato si erano stupiti che quella che si faceva passare per Leroy fosse una donna, e anche messa male per essere una ventenne. Ma la Albert aveva cercato di tacitarli, inventandosi che si era fatta operare cambiando sesso tre anni prima. I suoi accompagnatori erano il marito Geoffrey Knoop e il figlio (vero) della coppia.

Questo del transessuale era il grande fascino esibito da Leroy fin dall’inizio. Nei suoi libri, nelle interviste e durante le rare apparizioni pubbliche, infatti, Savannah sosteneva di essere la figlia di una prostituta che viveva in una roulotte e soddisfaceva camionisti che si fermavano per la benzina. Il tourbillon di uomini del letto materno avrebbe provocato i primi traumi nel ragazzino, il quale poi raccontava di averle passate tutte: picchiato da mamma e da un patrigno, iniziato al sesso a pagamento e alle orge, drogato, violentato, affidato ai nonni, divenuto omosessuale...

Ciliegina sulla torta: pure malato di Aids, ed è questo il particolare che oggi irrita di più l’agente letterario dello pseudo-Leroy, Ira Silverberg, che ne ha venduto i diritti dei libri in ben venti Paesi: «Ho incontrato poche volte questa Savannah che si spacciava per Leroy, e ogni volta si nascondeva con parrucche e occhiali da sole. Ma presentarsi come una persona che sta morendo di Aids in un mondo culturale che ha perso così tanti scrittori e voci di grande valore per la tremenda malattia, e trarre vantaggio da una situazione di simpatia collettiva, è veramente brutto. Molta gente comprando i suoi libri era convinta non solo di contribuire all’affermazione di un artista nuovo e innovativo, ma anche di aiutare una persona...»

Migliaia di lettori creduloni e truffati, insomma, ma anche molti personaggi famosi si sono lasciati impietosire dalla storia tremendissima del «ragazzo». Il quale si presentava spesso alle letture pubbliche dei suoi libri (effettuate da altri: lui sosteneva di essere timido) accompagnato dai coniugi Knoop e Albert, che si spacciavano per la coppia che lo aveva «salvato», adottandolo e trirandolo fuori dall’inferno in cui apparentemente si dibatteva. Courtney Love (vedova di Kurt Cobain dei Nirvana), Tatum O’Neil, la cantante Suzanne Vega, l’attrice di Star Wars e scrittrice Carrie Fisher: tutte celebrità abbindolate dal «caso pietoso» con un’operazione di autopromozione degna del miglior esperto di pubbliche relazioni.

Che tutto questo circo di sottocultura «alternativa» alla moda puzzasse di falso se n’era per la verità accorto il settimanale (gratuito) di New York Village Voice già nel 2001. Egualmente, però, la «rivelazione» del New York Times del 9 gennaio ha fatto rumore, se non altro perchè è stata affidata (crudelmente?) alla penna di un giornalista che un anno fa aveva tessuto le lodi dello «scrittore». Il quale, in realtà, esiste: la signora Albert, musicista fallita come il marito, ha sempre regolarmente incassato i pingui diritti d’autore di questa mega-sòla, su un conto intestato a sua madre. E che, a questo punto, può legittimamente reclamare anche la gloria presso tutti coloro che in questi anni hanno avventatamente esaltato Leroy, quasi fosse un novello Rimbaud.

Mauro Suttora

Monday, January 16, 2006

Corruzione negli Usa

PAROLE E PORTAFOGLI

Abramoff fa tremare Washington ma non il sistema: la politica in America è caccia ai finanziamenti

giovedì 5 gennaio 2006

New York. Il suo tempo valeva oro: 750 dollari all'ora. Per fare più in fretta, e guadagnare perfino sui propri regali, aveva aperto a Washington un elegante ristorante, il 'Signatures' su Pennsylvania Avenue, nel quale invitava a pranzo e a cena i suoi clienti. Offerta anche cucina kosher. E tutti potevano essere clienti di Jack Abramoff, il 46enne principe dei lobbisti statunitensi: dagli indiani che volevano aprire casino' (gli unici col permesso di farlo, fuori da Las Vegas e Atlantic City, e che gli hanno versato 82 milioni) ai politici in cerca di soldi per la rielezione. Ora, allo scopo di ridurre da venti a dieci gli anni che passerà in carcere per truffa, associazione a delinquere ed evasione fiscale, collabora con la giustizia. E 240 parlamentari statunitensi tremano.

Abramoff è repubblicano, negli anni Ottanta fece fortuna come giovane reaganiano, e nel '94 è montato in groppa al trionfo del suo partito che per la prima volta dopo quarant'anni aveva riconquistato la maggioranza al Congresso, proprio con lo slogan "ripuliamo Washington". Ora assieme a lui finisce nella polvere Tom DeLay, l'ex presidente della Camera texano, il terzo repubblicano più potente degli Stati Uniti dopo il presidente e il capogruppo al Senato. Ma i quattro milioni e mezzo di tangenti che Abramoff ha distribuito negli ultimi sei anni sono andati anche a 80 democratici, oltre che a 120 repubblicani.

"L'aspetto più choccante dello scandalo Abramoff non è la ricchezza che distribuiva, ma il numero dei congressmen che eseguivano i suoi ordini", commenta desolato l'editorialista di Usa Today. Tutti disposti a votare si' o no solo in base al posto in palco di lusso alla partita di baseball, al viaggio in Scozia per giocare a golf nel campo di St. Andrews, ai 50mila per la mogliettina del portaborse e agli altri status symbol della capitale americana.

Ma se Abramoff ha potuto avere successo, ammonisce il senatore John McCain, è perchè il lobbismo è l'industria più sviluppata di Washington. Sono ben 700, infatti, i membri della American League of Lobbyists, i quali hanno già cominciato a innaffiare abbondantemente i candidati alle elezioni midterm del prossimo novembre. Tutto - quasi tutto - alla luce del sole, con tanto di rendiconti pubblici: i repubblicani hanno finora raccolto quasi tredici milioni di dollari, i democratici undici, i sindacati ne hanno distribuiti nove, quelli dei dipendenti pubblici quattro, quelli delle costruzioni due.

Ci sono i lobbisti verdi corti di manica: finora hanno raccolto da propri simpatizzanti un milione e 700mila dollari, ma ne hanno distribuiti soltanto mezzo milione. Gli advocacy groups per i diritti umani, invece, sono avventati: hanno già promesso ai futuri parlamentari 900mila dollari, avendone in cassa soltanto 500mila. E poi avanti con la pioggia di bigliettoni: assicuratori, donne, medici, cinematografari, antiabortisti e prochoice, cacciatori e anti...

Il recordman, in questo festival del fundraising, è Michael Bloomberg. Il sindaco di New York appena rieletto fino al 2010 è infatti quello che ha speso di più nella storia per una singola campagna elettorale: 75 milioni. Con un record ulteriore: tutto di tasca propria. Ma sbaglia chi scambiasse la democrazia americana per una plutocrazia: il magnate della birra Pete Coors, per esempio, nel 2004 non è riuscito a farsi eleggere senatore del suo Colorado, nonostante investimenti altrettanto sontuosi. Ne' i lobbisti riescono a comprare tutto: proprio Bloomberg, per esempio, l'altro giorno si è scagliato contro il commercio troppo libero delle armi da fuoco, nonostante la pressione costante della potentissima Nra (National Rifle Association, quella che coniò lo slogan "Happiness is a warm gun" apprezzato perfino da John Lennon).

La battaglia anticorruzione di McCain

Lo scandalo Abramoff, con le sue probabili decine di vittime imminenti, raddrizzerà Washington? Non scherziamo. L'ultimo sondaggio Gallup conferma i film di Frank Capra: il 49% degli americani adulti sono convinti che la maggioranza dei membri del congresso siano corrotti. Disprezzo bipartisan: il 47% punta il dito contro i repubblicani, l'altro 44 contro i democratici. Lo schifo nei confronti della politica professionista è talmente spontaneo, nello statunitense medio, che il presidente George Bush lo sfrutta abilmente nei propri discorsi: "Ho proposto questo e quello, ma i politici di Washington mi hanno bloccato", neanche fosse un qualsiasi Mr. Smith.

Che fare, allora? Tutta la campagna presidenziale di McCain, nel 2000, si era sviluppata sul tema della lotta contro le lobbies. Ma McCain ha perso, perchè fra le abitudini connaturate degli americani c'e' quella di "far combaciare le parole col portafogli", e quindi di tirar fuori i soldi quando si crede in una causa o in una persona. Proibire i contributi alle campagne elettorali e abolire i lobbisti è quindi impossibile. Negli Stati Uniti non esistono sezioni di partito e segretari: ci sono soltanto "fundraiser", raccoglitori di fondi per pagare le campagne elettorali. La politica consiste in questo. Si possono soltanto stabilire patetici paletti, come il limite di poche migliaia di dollari ai contributi personali verso un singolo candidato, nell'illusione di calmierare l'influenza dei Paperoni.

Ora si parla di punire gli eletti che votano su un tema per il quale hanno ricevuto contributi nelle settimane o mesi precedenti. Ma al povero dittatore Omar Bongo del Gabon, che per essere ricevuto da Bush nel 2004 dovette versare milioni di dollari ad Abramoff, i soldi chi li restituirà?

Mauro Suttora

Wednesday, January 04, 2006

Intercettazioni Usa fuorilegge

L'IMBARAZZANTE SCOOP A SCOPPIO RITARDATO DEL NEW YORK TIMES

4 gennaio 2006

New York. Per la terza volta in tre anni, il New York Times scivola su un proprio scoop e riesce a trasformare un successo in una disgrazia. Nel 2003 ci fu lo scandalo di Jayson Blair, il cronista di colore considerato un genio, e che invece s'inventava gli articoli. La scorsa estate è stata la volta di Judith Miller: un mese in carcere per essersi rifiutata di rivelare le sue "fonti". Poi però si scopre che questa supposta eroina della libertà di stampa voleva soltanto proteggere l'amico Scooter Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Infine, il grande scoop del 15 dicembre: il presidente George Bush fa intercettare senza mandato le comunicazioni di cittadini americani in territorio americano, mentre una legge del 1979 lo proibisce.

Un 'colpo' giornalistico di gran peso politico, rimbalzato in tutto il mondo e arricchito dalla rivelazione (da parte del settimanale Newsweek) che il 6 dicembre Bush aveva convocato alla Casa Bianca editore e direttore del quotidiano newyorkese, scongiurandoli di non pubblicare l'articolo. Niente da fare. Trionfo del quarto potere. Peccato però che solo poche ore dopo il sito web Drudgereport abbia rivelato che quel commendevole scoop era stato tenuto nel cassetto per più di un anno, e che non era stato pubblicato prima del voto presidenziale del novembre 2004 per non interferire nella campagna elettorale.

Due giorni fa James Risen, l'autore dell'articolo, grande esperto di servizi segreti, ha pubblicato il libro 'State of War: The Secret History of the Cia and the Bush Administration'. Dentro c'è per intera la lunga inchiesta del 15 dicembre, più altre storie. Il libro è stato chiuso in tipografia mesi fa. Cos'è successo, allora? Il Times ha voluto fare un favore al proprio reporter, ritardando la pubblicazione dello scoop affinchè facesse da traino alle vendite del libro? Inconcepibile, per un giornale serio. Più credibile una seconda ipotesi: Risen, contrariato per la non pubblicazione dello scoop, si è preso un'aspettativa, ha scritto il libro, e solo in prossimità dell'uscita il Times si è deciso a pubblicare l'inchiesta, per non fare la figura del censore e fornire a Risen l'aureola del giornalista silenziato.

E qui entra in scena Byron Calame, una vera calamità per i vertici del New York Times. Il quale, prendendo sul serio il proprio ruolo di "public editor" del quotidiano, cioè di difensore dei diritti del lettore, ha mandato ben 28 domande al direttore Bill Keller: "Perchè il ritardo di un anno nella pubblicazione dello scoop? E' vero, come ha scritto lo stesso Risen il 15 dicembre, che il giornale ci ha messo così tanto perchè ha voluto sottoporre l'inchiesta a tutte le verifiche possibili? Quali sono state queste verifiche? Come mai c'è voluto un anno per effettuarle? Quand'era pronta la prima versione dell'articolo? Prima o dopo il voto presidenziale del 2004? Quali pressioni avete avuto da Bush per la non pubblicazione?" E così via.

Keller si è rifiutato di rispondere a tutte le domande: "Non è possibile avere una discussione completa sui retroscena di questa storia senza rivelare quando e come abbiamo saputo quel che abbiamo saputo. E questo, non possiamo farlo", si è limitato a replicare seccamente. L'indomito Calame si è rivolto allora al giovane editore Arthur Sulzberger. Ma anche lui non ha volto rispondere. E allora il public editor si è vendicato pubblicando parola per parola sul New York Times, nello spazio a lui dedicato domenica scorsa, tutta la vicenda del suo inutile tentativo di chiarimento: "Un pesante silenzio sulle intercettazioni", è stato il titolo masochista inflitto agli increduli lettori.

Intanto, mentre da sinistra il Times è accusato di censura, a destra l'addebito è di aver danneggiato la lotta contro i terroristi. Per questo il ministero della Giustizia ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, con l'obiettivo di scoprire chi siano i confidenti di Risen dentro ai servizi segreti. Si apparecchia quindi un altro caso Miller, sulla protezione delle gole profonde in nome della libertà di stampa.

L'unica stampa che finora ha beneficiato della vicenda è stata quella del libro di Risen, nel quale sono contenute ulteriori rivelazioni sull'intelligence poco intelligente del dopo 11 settembre 2001. Nel settembre 2002, per esempio, la Cia reclutò un'anestesista irachena ormai cittadina americana, Sawsan Alhaddad di Cleveland, spedendola a Bagdad da suo fratello, scienziato coinvolto nel programma nucleare di Saddam Hussein. Il quale, stupito dalla sue insistenti domande, le rivelò che il programma non esisteva più da dieci anni. Altri trenta parenti di scienziati iracheni furono inviati in Iraq con missioni pericolose di questo tipo, tutte senza esito. Ciononostante, nell'ottobre 2002 i servizi Usa conclusero ufficialmente che Saddam aveva ricominciato il programma atomico.

Un altro inquietante capitolo del libro rivela che un dirigente Cia inviò per sbaglio a un proprio agente iraniano un documento dal quale si potevano individuare tutte le spie che l'agenzia aveva in Iran. Quell'agente purtroppo faceva il doppio gioco: nel giro di poche settimane la rete spionistica americana in Iran fu quasi completamente smantellata, con arresti e incarcerazioni. Chi ha visto l'ultimo film di George Clooney, "Syriana", non fatica a credere a questi incidenti.

Mauro Suttora

Thursday, December 22, 2005

Corrispondenti esteri a New York

URAGANI MEDIATICI

Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no

Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005

New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.

La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.

Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».

Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»

Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».

Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».

«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».

Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.

Mauro Suttora

Wednesday, December 21, 2005

Tibet, basta nonviolenza?

"SIAMO TROPPO PASSIVI", PRIMI DUBBI TIBETANI SULLA NONVIOLENZA

Il Foglio

21 dicembre 2005

New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.

La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".

Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.

Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"

Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.

La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.

"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.

I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.

Tuesday, December 13, 2005

Tookie condannato a morte

PREMIO NOBEL O SEDIA ELETTRICA PER TOOKIE?

Oggi, 8 dicembre 2005

Alla fine sarà Arnold Schwarzenegger a graziarlo? Il governatore della California decide l'8 dicembre, la sedia elettrica è pronta per il 13. Stan(ley) «Tookie» Williams, 51 anni, di colore, è uno delle centinaia di condannati alla pena capitale che aspettano nei bracci della morte americani per decenni. A 17 anni, nel 1971, aveva fondato una banda di giovani criminali: i Crits. Le gang di Los Angeles sono famigerate, fanno quasi parte del paesaggio assieme alla collina di Bel Air e alla spiaggia di Santa Monica. I telefilm ci hanno abituati alla loro imprese: scontri con le bande rivali, rapine, stupri, traffici di droga.

Nel '79 Albert Lewis Owens aveva due figlie ed era il cassiere di un 7/11, un supermercatino aperto 24 ore su 24. Stan lo trascinò in una stanza sul retro e gli ordinò di inginocchiarsi. Poi lo colpì con due pistolettate sul collo, stile esecuzione, dopo che lui e i complici si erano impadroniti del contante. In seguito Stan si vantò di aver «fatto fuori un bianco, gli ho sparato alla schiena per 63 dollari».

Undici giorni dopo. Nella reception del motel Brookhaven c'erano i proprietari, i coniugi cinesi sessantenni Yen-I Yang e Tsai-Shai Chen Yang, con la figlia Yu-Chin Yang Lin, 42 anni. La banda di Stan irruppe dalla porta per rapinare l'incasso. La famigliola venne tenuta a bada in un angolo con una pistola spianata. Poi dodici colpi in tutto, a bruciapelo. Le due donne agonizzarono un paio d'ore prima di morire. Stan in tutta calma si chinò per recuperare i bossoli, non voleva che la sua pistola firmasse la strage. Purtroppo per lui, ne dimenticò uno. E quando venne arrestato, qualche giorno dopo, nella sua auto c'era la pistola. Omicidi inutili, gratuiti. Le vittime non rappresentavano più alcun pericolo per i rapinatori, vennero assassinate a sangue freddo. Due anni dopo arriva la condanna a morte per Stan, il capobanda.

Da allora, però, la versione ufficiale è stata messa in discussione. Attorno a Stan, incarcerato a San Quintino, si raccoglie un comitato che esamina ogni particolare del processo. Stan si pente per gli anni passati a seminare il terrore a Los Angeles, ma non ammette quegli omicidi. «La condanna si basa su indizi, non su prove», sostengono i suoi avvocati. I testimoni che lo hanno inchiodato avevano interesse a farlo: erano tutti alla ricerca di attenuanti per reati gravissimi come stupri, mutilazioni e omicidi. Di fronte all'ennesimo appello, nel 2002 una corte ammise che gli accusatori di Stan avevano la fedina penale sporca, e un incentivo a mentire per ottenere clemenza.

«Sulle scene dei delitti sono state rilevate impronte digitali», incalzano gli avvocati di Stan, «ma non le sue. La traccia di uno stivale insanguinato non apparteneva a lui. Il bossolo trovato? Sì, proveniva da una pistola comprata da Stan cinque anni prima. Ma non è vero che l'arma è stata rinvenuta nella sua auto: era sotto il letto di una coppia incriminata per truffa a un'assicurazione e indagata per aver ucciso un loro complice. Marito e moglie l'hanno fatta franca dopo aver testimoniato contro Stan».
Quanto al testimone principale dell'accusa, un pregiudicato bianco che si trovava nella cella accanto a quella di Stan durante il processo, anni dopo si è scoperto che era stato un informatore pagato della polizia. Davanti alla corte aveva detto che Stan si era confidato con lui, confessando tutto. Dopodichè le sue accuse, omicidio e stupro, vennero derubricate e grazie a qualche attenuante ha ottenuto la possibilità della libertà condizionale.

La giuria, poi: gli unici tre giurati di colore sono stati ricusati dal pubblico ministero, per cui la corte di dodici persone era quasi interamente bianca, tranne un sudamericano e un filippino. Lo stesso rappresentante dell'accusa è stato tacciato di razzismo, per aver detto durante le sue arringhe che Stan assomigliava a una «tigre del Bengala rinchiusa nello zoo di San Diego», il cui «ambiente naturale è la giungla, come quella di certi quartieri di Los Angeles».

Fin qui, quello di Stan Williams sarebbe un giallo giudiziario come tanti. Il problema è che Stan, ormai 51enne, dopo un quarto di secolo è diventato un'altra persona rispetto al bullo da gang che era prima. Ha scritto nove libri di successo per bambini, e in tutti incita i ragazzini a evitare la cultura di morte e sopraffazione di cui negli anni Settanta era uno dei simboli, almeno nei ghetti. Ha fatto il volontario per molti programmi che cercano di tenere i ragazzi lontani dalle strade, ricevendo perfino un premio dal presidente degli Stati Uniti la scorsa estate. Ha scritto un'autobiografia: Blue Rage, Black Redemption (Rabbia blu, Redenzione nera), e l'attore Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film Ray sulla vita del cantante Ray Charles, l'anno scorso ha interpretato un film tv proprio sulla figura diventata ormai famosa di Stan Williams.

La conversione di Stan lo ha fatto perfino candidare al premio Nobel, già nel 2000: per la letteratura, e anche per la pace. Chiedono la grazia, fra gli altri, gli attori Tim Robbins (protagonista nel '94 di un film simile alla vicenda di Stan, Le ali della libertà), sua moglie Susan Sarandon, Anjelica Huston, la cantante Bonnie Raitt, tutti i musicisti rap, il politico di colore Jesse Jackson. I giovani delinquenti di colore rinchiusi nelle prigioni americane hanno fatto di Stan un idolo: rappresenta la loro speranza di redenzione. E ce ne sono tanti, perchè negli Usa i carcerati sono ben due milioni: otto volte più che in Italia, in proporzione agli abitanti.

L'11 ottobre, però, la Corte suprema degli Stati Uniti si è espressa definitivamente sull'ultimo appello presentato dagli avvocati di Stan: niente da fare, gli appigli sono finiti, preparate la sedia elettrica. Ora l'ultima speranza è nelle mani di Schwarzenegger. Qualcuno la butta in politica, e sostiene che il governatore grazierà Stan per ingraziarsi gli elettori di colore alle prossime elezioni. Dalla sua cella di un metro e 30 per tre, Stan Williams aspetta.

Mauro Suttora

Wednesday, December 07, 2005

Economia Usa a tutta birra

Bush vuole sempre meno tasse, qualche amico e' perplesso. Se Snow lascia non e' crisi, e' prassi

Il Foglio

mercoledi 7 dicembre 2005

New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.

Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.

Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.

Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.

La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.

Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.

E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.

Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).

“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.

Mauro Suttora