Wednesday, February 20, 2002

Radicali e informazione

Conferenza tenuta il 18 febbraio 2002 a Milano, nella sede del partito radicale (corso di Porta Vigentina)

Mauro Suttora 

I radicali non hanno un rapporto con l’informazione. I radicali SONO informazione, informazione pura, sempre e da sempre. Nascono nel ‘55 non con un congresso, ma con un articolo sul settimanale Il Mondo di Pannunzio che annuncia la nascita di un Comitato provvisorio composto da Pannunzio stesso, Carandini, Piccardi, dall’ex segretario del Pli Villabruna e Leo Valiani.

Scalfari dà una versione differente, nel suo libro «La sera andavamo in via Veneto: «Il Pr lo fondammo io, Pannunzio, Paggi e Libonati nella casa di Arrigo Benedetti a Marina di Pietrasanta nel maggio ‘55». Benedetti fondò l’Europeo nel ‘45, e l’Espresso con Scalfari nel ‘55. Un buon terzo dei dirigenti radicali erano giornalisti, da Ernesto Rossi ed Ennio Flaiano in giù.

Pannella è di professione giornalista, e così molti radicali degli anni 60: Gianfranco Spadaccia, Aloisio Rendi, Giuseppe Loteta, che diventerà editorialista del Messaggero. Il principale strumento della politica radicale è un’agenzia distribuita in ciclostile ai giornali, dal ‘63 al ‘67. Denunciarono le bustarelle dell’Eni alla stampa, anche di sinistra: ben 20 miliardi di allora in pochi anni.

Dal ‘65 al ‘70 è un settimanale molto popolare, quasi pornografico, Abc, a condurre la battaglia per il divorzio. Con grande successo, fra l’altro, perché passò da 100 a 500mila copie. Un altro volano lo avrà la campagna per l’aborto nel ‘75: l’Espresso si impegna nella raccolta di firme per il referendum, Pannella tiene una rubrica fissa, che però interrompe bruscamente quando Scalfari caccia Lino Jannuzzi dal settimanale.

Nel ‘68 e ‘72 i radicali non si presentano alle politiche con l’esplicita motivazione della mancanza di par condicio da parte della Rai nei confronti dei partiti non rappresentati in Parlamento. Nel ‘76 si presentano soltanto dopo uno sciopero della fame di Pannella per ottenere una Tribuna stampa di un’ora in prima serata, come tutti gli altri partiti. Nell’83 si presentano ma invitano a votare scheda bianca.

Il primo sciopero della fame di Pannella contro la Rai è del ‘74 - il più lungo fra i 17 della sua vita, 92 giorni. Il 22 giugno Lietta Tornabuoni rompe un silenzio di 50 giorni con un articolo sulla Stampa. E scrive: «Bernabei (il direttore generale dc, ndr) sa che, la notte del referendum, ben centomila persone sono andate a festeggiare con Pannella in piazza Navona, e teme che il suo successo s'allarghi. Ma i radicali sono una vecchia conoscenza della tv di Stato: nel 1966 Pannella era alla testa delle trenta persone che si ammanettarono davanti alla Rai, portando cartelli al collo con su scritto "Così è ridotta l'informazione". E nel '70 guidava i 19 divorzisti che occuparono per la prima volta la sede tv in via del Babuino».

Il 16 luglio '74 scende in campo Pasolini con un bellissimo articolo sul Corsera. E così il 19 luglio ‘74 Pannella, a 44 anni, debutta in Tv.

In uno studio di via Teulada, si registra il debutto televisivo del leader ancora in digiuno. Modera Gino Pallotta. Pannella è un uragano: «L'Italia non è diventata vittima di lesbiche e omosessuali dopo il referendum sul divorzio, come diceva Fanfani... Siamo contro una legge criminogena che provoca aborti clandestini di massa mentre le signore benestanti abortiscono con 500mila lire in cliniche private, con l'assistenza psicanalitica e magari anche quella religiosa...».

Pallotta è impietrito, inerte, non osa interromperlo. Aborto, lesbiche, omosessuali: è la prima volta che alla tv italiana si sentono queste parole. Alla fine della registrazione nello studio non vola una mosca. I tecnici di sala scoppiano in un applauso spontaneo: «Mejo de Kennedy, dotto'!». Ma Pannella non è contento: «Ho dimenticato di parlare degli otto referendum e del finanziamento ai partiti...»

La mattina dopo alla Rai scoppia un putiferio. Il direttore generale Willy De Luca visiona la registrazione e urla: «Dobbiamo bloccare questo pazzo a ogni costo!». Ma c'è poco tempo: il programma deve andare in onda la sera stessa. Bernabei manda immediatamente, con due motociclisti, la trascrizione completa — parola per parola — dell'intervento di Pannella al segretario dc Fanfani e al presidente del Consiglio Rumor. Ma il segretario psi Francesco De Martino e anche il presidente Leone si oppongono alla censura. Allora i vertici dc della Rai ordinano al capufficio stampa Giampaolo Cresci (che nel ‘98 diventerà direttore del Tempo, con il radicale Giovanni Negri come vicedirettore) di non comunicare l'orario del dibattito ai giornali. La trasmissione viene spostata dal primo al secondo canale, e dalle nove alle dieci di sera. Contemporaneamente a Pannella, sul primo canale viene trasmesso un programma di grande richiamo.

Tutto inutile. Come previsto, quando il capo radicale pronuncia quelle parole dallo schermo, i centralini Rai di tutt'ltalia vengono intasati di telefonate pro e contro. Intanto, sul Corriere della Sera il dibattito su Pannella va avanti. Per controbilanciare l'articolo di Pasolini ne viene pubblicato uno del comunista Maurizio Ferrara (padre di Giuliano),contrario a Pannella

Nel ‘74, nonostante questo exploit, i radicali non riescono a raccogliere le 500mila firme per 8 referendum. Di questi, la metà riguardano l’informazione. Uno è per la libertà d’antenna contro il monopolio Rai, e poi contro i reati d’opinione, l’Ordine dei giornalisti, la legge sulla stampa del ‘48.

Il 20 settembre '74 i radicali sfilano in marcia contro la Rai: chiedono la testa di Bernabei. Francesco De Gregori e un centinaio di altri artisti rifiutano di collaborare con la Rai finché durerà il monopolio Dc. Bernabei si dimette.

Qui, nella sede radicale di Milano, fra le foto appese ce n’è una col giovane Litta Modignani durante un sit-in del '76 davanti alla Rai in corso Sempione.

Nel ‘77 durante una Tribuna flash di un quarto d’ora Pannella non si ferma, continua a parlare e costringe i tecnici Rai a sfumarlo

Il 18 maggio '78, a una tribuna del referendum di Jader Jacobelli in tv, i radicali inscenano uno spettacolo che rimarrà nella storia mondiale della televisione: Pannella, la Bonino, Mellini e Spadaccia si fanno riprendere imbavagliati con cartelli di protesta. È il più lungo silenzio mai messo in onda da una tv: 24 interminabili minuti, dalle 20.53 alle 2l.17. La Rai riceve centinaia di telefonate di spettatori allibiti. «I radicali hanno violato le regole fondamentali della comunicazione, perché hanno mescolato politica e spettacolo», commenta il massmediologo Gianfranco Bettetini. «Non è vero che politica e arte sono mondi separati e incomunicabili: in America non è così», corregge Eco. E Sabino Acquaviva: «Pannella ha sovvertito i rituali della classe politica». «Trovata geniale», ammette Scalfari.

Nell’autunno '81 ci vogliono 53 giorni di digiuno a Pannella per conquistare 40 minuti di Ping pong in Rai, un dibattito con Biagi moderato da Vespa sullo sterminio per fame nel mondo.

All’inizio dell’83 l’Europeo pubblica una bella intervista a pannella di Galli della Loggia e Fiamma Nirenstein:

Perché ti lamenti sempre della censura? «I giornalisti hanno subito una vera e propria mutazione antropologica in questi anni. Non parliamo della Rai, che il Psi ha riempito con una schiera di killer dell'informazione ai suoi ordini… Una volta almeno c'erano editori borghesi come Crespi o Perrone che ogni tanto potevano fare i non conformisti».

Intanto, però, dal 1976 è nata Radio radicale, cui va il finanziamento pubblico che il partito rifiuta di incassare. Piano piano i ripetitori coprono tutta Italia. Valter Vecellio inventa le rassegne stampa mattutine che poi passeranno a Taradash e a Melega, grande giornalista, già direttore dell’Europeo fatto licenziare dalla P2 e caporedattore di Repubblica ed Espresso. Radio radicale inventa anche i fili diretti e le rassegne stampa di mezzanotte, che poi copieranno tutti. Ed è una fucina di eccellenti giornalisti:

Paolo Liguori, direttore di Studio Aperto, Stefano Andreani, finito all’Asca e a fare il segretario di Andreotti nell’era del Caf, Bruno Luverà, oggi inviato politico di punta al Tg1, Guido Votano, capo della redazione italiana di Euronews (la Cnn europea) a Lione, Giancarlo Loquenzi (Indipendente, vicedirettore di Liberal, poi alla radio del Sole 24 Ore e oggi capo delle relazioni esterne di Telepiù), Laura Cesaretti (Foglio e poi Giornale), Roberto Giachetti, oggi deputato della Margherita e braccio destro di Rutelli, Ivan Novelli, Gabriele Paci (Europeo, Indipendente, Voce di Montanelli), Stefano Anderson poi capufficio stampa del Csm, o Carlo Romeo, colonna della tv radicale Teleroma 56 e poi direttore delle sedi Rai di Aosta e Bologna.

Dal 1979 e fino alla metà degli anni ‘90 i radicali hanno avuto due canali tv a Roma, Teleroma 56 e 66, guardate anche da papa Wojtyla che così conosce Pannella. Per un certo periodo Stanzani era diventato anche azionista di rilievo del network nazionale Odeon, ma poi come sempre il sogno di un terzo polo tv si è infranto di fronte al duopolio Rai-Mediaset.

La polemica contro la Rai prosegue incessante.

Il 30 maggio '83 Pannella contesta Pippo Baudo a Montecatini (Pistoia) mentre trasmette Serata d'onore dell'Unicef in diretta tv. «Baudo è un buffone!», grida in sala, perché il presentatore ha propagandato in tv contributi contro la fame nel mondo annunciati per telefono da politici dc. Pochi giorni dopo se lo ritrova di fronte, assieme a Enzo Tortora, in una tribuna elettorale Fininvest registrata al teatro Eliseo di Roma. Il clima è gelido. La mattina seguente, all'alba, Tortora viene arrestato per camorra.

Nell’84 si attua una campagna di disobbedienza civile contro il canone Rai, coordinata da Gaetano Benedetto (oggi dirigente Wwf): aderiscono varie centinaia di persone, ma la proptesta non riesce ad avere uno sbocco politico.

Il 15 settembre '86, un anno dopo la condanna a dieci anni e 1185 giorni dopo l'arresto, per Tortora è il giorno della rivincita: assolto con formula piena in appello. Adesso il presentatore desidera tornare in tv. Silvio Berlusconi gli fa la corte, vuole strapparlo alla Rai. Così Canale 5 si apre ai radicali, che vengono invitati in ogni programma. Perfino Drive in, la trasmissione dedicata ai paninari, ospita un Pannella in doppiopetto stile Chicago anni '30, con al fianco Lory Del Santo. «Era il comico che ci mancava», commenta perfido l'autore Antonio Ricci. Ma Fedele Confalonieri, numero due della Fininvest, nega che gli inviti a Pannella servano per spianare la strada a Tortora: «Il Pr stava chiudendo, aveva bisogno di un megafono, e noi glielo abbiamo dato».

C'è un problema: se Tortora sceglie la Rai, non potrà candidarsi con i radicali. Accusa Luciano Violante, pci: «Il Pr è totalizzante. Per Pannella, Tortora è l'uomo che vale 200mila voti». Aggiunge Martelli: «Marco ha un rapporto nevrotico con i mezzi d'informazione, e sbaglia». Ma perfino la socialista Raidue apre improvvisamente le porte a Pannella, grazie a Tortora: Antonio Ghirelli, direttore del Tg2, gli fa un'intervista di ben sei minuti, e viene subito strigliato dal direttore generale dc Biagio Agnes. I radicali premono con Tortora perché scelga la Fininvest, tanto che la figlia del presentatore Silvia (giornalista di Epoca, sposerà l’attore Philippe Leroy) litiga con Pannella e straccia la tessera del Pr. Ma alla fine Tortora decide di tornare con Portobello su Raidue, e inizia la prima puntata del nuovo ciclo con la frase: «Dov'eravamo rimasti?». Fra Pannella e Tortora, comunque, i rapporti restano ottimi,

Nell’ottobre ‘89 Pannella si dimette da deputato, di nuovo in polemica esplicita contro Rai e giornalisti.

Nell’ ottobre ‘92 il capo radicale guida una marcia contro la Rai, ancora in mano al Psi e alla Dc del direttore generale Gianni Pasquarelli nonostante la bufera di Tangentopoli. «Marcio contro il marcio», proclama, 18 anni dopo il primo corteo anti Rai col quale fece fuori Bernabei.

Il 20 novembre ‘93 inizia la raccolta di firme con la Lega Nord per dieci referendum liberisti, fra i quali due sulla Rai: uno per abolire la pubblicità, l’altro per la privatizzazione. Il primo verrà fatto fuori dalla Corte Costituzionale, il secondo vince il 12 giugno 1995 con il 55% di sì. Ma non verrà mai attuato.

Con la Rai, comunque, è rottura totale. Pannella protesta: «Fanno comparire soltanto Occhetto e D'Alema, e contrapponendo loro solo la Lega. Ma D'Alema e Occhetto hanno il loro microfono, Bossi invece ha il gelato che Bianca Berlinguer gli tende e gli toglie con sofisticatissimo modo, per far fuori tutto quel che fa paura al Pds... Guardate le dichiarazioni riportate dal Tg1: 32 di Occhetto o D'Alema e nessuna mia. Questo significa eliminare gli avversari. È ora di indicare anche le "coperture nobili" del Pds. Il non plus ultra della faccia tosta è quell'abatino Gianni Riotta, minutante di segreteria, che con la sua faccia da prete fa scherzi da prete».

Nel ‘94 l’alleanza con Berlusconi viene spiegata anche con la maggiore apertura delle reti Fininvest rispetto a quelle Rai: i radicali non sono stati sempre a sinistra? «Io so che l’Italia», risponde Pannella, «ha potuto vedere le labbra secche di un digiuno della fame e della sete per i referendum grazie alle tv della Fininvest, e non della Rai». Candida Spadaccia per il cda Rai e Umberto Eco per la direzione generale, senza successo.

Taradash diventa presidente della Commissione di vigilanza, e come primo atto fa portare i bilanci Rai in Tribunale.

Il 26 maggio 95 un altro episodio che passerà alla storia: i fantasmi radicali, coperti da un lenzuolo, in tribuna politica. La direttrice dc Angela Buttiglione abolisce le dirette.

Nel dicembre ‘95 arrivano ai vertici Rai avvisi di garanzia per attentato ai diritti politici dei cittadini, su denuncia radicale. Ma non si arriverà mai ai processi.

Nel 95 e 97 scioperi della fame contro la censura tv.

Nel 98 battaglia contro la Rai che offre 25 miliardi per la Radio, cui si vogliono togliere i dieci miliardi annui di convenzione col Parlamento per la trasmissione delle sedute.

1998: appena risvegliatosi dall’anestesia dopo una serie di delicatissime operazioni al cuore, Pannella detta alle agenzie questa dichiarazione: «Spero possa iniziare e rapidamente avviarsi a conclusione, finalmente, il processo di convalescenza. I direttori dei telegiornali, l'associazione per delinquere Rai - che compiono volgari azioni in un unico disegno criminoso: lasciare al potere in Italia il sistema criminogeno della partitocrazia - non possono dunque stare tranquilli»

Oggi molti editorialisti dei quotidiani italiani sono ex radicali o simpatizzanti: Panebianco e Merlo (Corsera), Teodori (Giornale), Ignazi (Sole 24 Ore), Quagliariello (Messaggero), Prado e Farina (Libero)

Penso che l'unica soluzione per trasformare la Rai da quella fogna clientelare che è in qualcosa di decente sia la privatizzazione. Una, due, tre reti, in blocco, a spizzichi, qualsiasi cosa va bene.

Il «servizio pubblico» non esiste. L'informazione è una merce, come tutte le merci il suo valore è determinato dal mercato, e vale la legge della domanda e dell'offerta. Per esempio, se il comune di Milano o la regione Lombardia devono comunicare che il giorno dopo il traffico è vietato, possono diramare questa informazione di pubblica utilità attraverso tutti gli organi d'informazione privati, che saranno ben lieti di veicolarla perche' si tratta d'informazione utile (quindi con un alto valore di mercato), o perfino con gli sms sui telefonini.

Il «servizio pubblico» è solo un pretesto usato dal potere politico per controllare l'informazione e mantenere carrozzoni costosi e inutili. Negli Usa non esiste tv pubblica, solo un piccolo canale (Pbs) noioso che pochi guardano perche' trasmette trasmissioni cosiddette culturali o di pupazzi (Muppet show). Esistono però canali (C-Span) che trasmettono le sedute parlamentari via etere e internet, come Radio radicale

Tuesday, January 29, 2002

intervista ad Andrea De Carlo

Incredibile: un anarchico di successo

di Mauro Suttora

dal trimestrale Libertaria, 1/2002

"L'Afghanistan dei talebani bastardi o qualche altro cavolo di paese fanatico e integralista (...), dove le donne sono schiavizzate e tenute nascoste e per le strade e nei luoghi pubblici e dappertutto vedi solo maschi. (...) Sarebbe bene che anche lì lo sapessero, con tutte le loro barbe e le loro voci gutturali e le loro manifestazioni grottesche di mascolinità, che gli uomini non sono più così indispensabili per la continuazione della specie: basterebbe una buona scorta di seme congelato, si potrebbe fare a meno degli uomini per sempre. E forse non serve nemmeno più quello."

Andrea De Carlo aveva scritto queste righe (a pagina 123 del suo ultimo romanzo Pura vita, pubblicato lo scorso ottobre) prima dell'attacco alle Torri di Manhattan. Ma, nonostante l'estrema attualità di queste sue frasi, lo scrittore milanese non ha partecipato al chiacchiericcio massmediatico sulla guerra. Quasi unico fra i suoi colleghi, visto che praticamente tutti (da Oriana Fallaci a Dacia Maraini, da Tiziano Terzani ad Antonio Tabucchi, da Alessandro Baricco ad Andrea Camilleri) hanno voluto dire la loro sui terroristi islamici.

Il giorno delle Twin Towers

È da anni che De Carlo fugge i giornalisti, l'attualità, la notorietà. Da tempo niente televisione, e rare interviste distillate soltanto in occasione dell'uscita dei suoi libri. Non per supponenza o misantropia, ma semplicemente perché "gli scrittori che prendono posizioni politiche rischiano di apparire patetici", ci dice. "Comunichiamo già attraverso i nostri libri, per il resto il nostro margine di influenza è assai ridotto. L'11 settembre stavo andando alla Mondadori per discutere i dettagli dell'uscita del mio libro, e ho acceso la radio della macchina. Uno speaker stava parlando di due aerei schiantati sulle Twin Towers di New York. Ho pensato che fosse uno scherzo, come quello di Orson Welles sui marziani. Però questa volta la concitazione sembrava troppo autentica: avrebbero dovuto essere più bravi di Orson Welles".

Ma sulla guerra, cosa pensi?

"Mi è piaciuto quello che ha detto Richard Gere al concerto del Madison Square Garden: "Convertiamo la nostra rabbia in energia positiva". Ma l'hanno fischiato. D'istinto, come prima reazione anch'io sarei salito su un piccolo aereo per andare a bombardare Osama bin Laden. Poi però si riflette, anche sulle colpe precedenti degli Stati Uniti e dell'Occidente in generale. Ho vissuto a lungo in America, sono affezionatissimo agli Usa, ma ho trovato l'intervento della Fallaci molto fuori dalle righe. La sua visione dell'Islam straccione rimasto a mille anni fa è riduttiva, sghangherata, miope".

Nel suo libro De Carlo attacca il governo Berlusconi per la repressione a Genova: "Siamo un Paese finto libero dove alla prima manifestazione di strada la polizia può assumere comportamenti sudamericani e massacrare di botte e torturare per giorni la gente che ha arrestato".

Nel 1984 scrisse Macno, la storia profetica di un dittatore sudamericano arrivato al potere grazie al controllo delle tv. Pensava già a Silvio Berlusconi?

"No. E nel 1994, quando si buttò in politica, pensai che lo faceva per salvarsi la pelle nella bufera di Tangentopoli, ma anche perché era animato da uno spirito autenticamente liberista: il classico imprenditore un po' naïf che vuole ridurre il peso dello Stato, rinnovarne la macchina. Incontravo persone impensabili che gli davano credito, in quei primi giorni. Oggi invece ha perso smalto e ingenuità, mi sembra ossessionato da manie di persecuzione, fisicamente sofferente, affondato in modo irrimediabile in un conflitto di interessi da cui avrebbe anche potuto scegliere di tirarsi fuori. Si è alleato con forze terribilmente reazionarie legate a una concezione vecchia dello Stato, provinciali e chiuse, ostili all'Europa. Alleanza nazionale, per esempio, o la Lega Nord".

Favolosi quegli anni... con Fellini

Negli anni Ottanta hai lavorato con Federico Fellini. Il grande regista detestava Berlusconi.

"Sì, ma soprattutto perché le televisioni commerciali della Fininvest interrompevano con gli spot i suoi film, distruggendo così il cinema. Quella di Fellini era una condanna estetica, più che politica. Girò Ginger & Fred, il film che attaccava Berlusconi, nel famoso studio 5 di Cinecittà, cercando di riprodurre la volgarità bestiale e il clima di idiozia che emanano le sue televisioni. Ebbene, qualche anno dopo per ironia della sorte capitò proprio a me di essere invitato in quegli studi, a una trasmissione tv di quelle becere con la mortadella, tipo Gianfranco Funari. Pensavo fosse una visione: era esattamente quello che aveva prefigurato Fellini".

Perché rifiuti la televisione?

"Per fortuna non ne ho bisogno, i miei libri si vendono anche senza questo tipo avvilente di autopromozione. Negli ultimi anni sono stato solo da Mtv, e un paio di volte da Bernard Pivot, quello di Apostrophes e Bouillon de culture in Francia. Invece in Italia c'è la strana idea che gli scrittori siano degli ammazza-audience, e allora per sfuggire alla loro presunta noiosità li si riduce a macchiette o a piazzisti di se stessi. Anche di recente mi hanno invitato a Quelli che il calcio, per esempio, ma non avevo proprio voglia di ridurmi a fare il comico nella curva di uno stadio..."

Sonore stroncature

Non è un mistero che De Carlo non sia amato da tutta la critica italiana. Anche il suo ultimo libro ha rimediato due sonore stroncature sul Corriere della Sera e su Sette. I soloni della sinistra marxista non gli perdonano la sua presunta "leggerezza", che in realtà è soltanto libertà allo stato assoluto: i personaggi dei suoi dodici libri sono tutti degli anticonformisti libertari che mettono in questione l'ordine costituito. Così lo accusano di "ribellismo adolescenziale", rilievo grottesco per uno scrittore che ormai è arrivato ai cinquant'anni. Risultato di tanto livore da parte della nomenklatura culturale: i suoi romanzi si vendono come il pane, soprattutto fra i giovani.

"Ma quando sono andato al festival di Mantova mi sono accorto che i miei lettori coprono uno spettro amplissimo, dai 14 agli 80 anni, uomini e donne".

Si rinnova un po' con De Carlo l'astio che ha circondato un altro scrittore di grande successo commerciale: Carlo Cassola, bollato addirittura come "Liala". La verità è che entrambi sono rimasti estranei alle camarille e alle mafiette del piccolo (e misero) mondo letterario italiano, zeppo di scrittori frustrati ridotti a fare i giornalisti, i critici letterari o i professori perché i loro libri non vendono.

Cassola, accusato di non essere abbastanza "impegnato", negli anni Settanta divenne invece il più politico di tutti gli scrittori italiani, fondando con molti anarchici la Ldu (Lega per il disarmo unilaterale) e assumendo posizioni antimilitariste.

De Carlo ha scritto la sua tesi di laurea sulle comunità anarchiche in Spagna: "Mi interessava la storia dell'anarchia e quella degli esperimenti comunitari in varie parti del mondo. In più mi sembrava che la guerra civile spagnola fosse quasi sempre rappresentata dal punto di vista dei comunisti, che nei confronti degli anarchici avevano avuto colpe terribili".

L'inquietudine contro il potere

Hai mai fatto attività politica, allora? E oggi, pensi che un cittadino normale, non politico di professione, abbia spazi per un impegno politico in Italia?

"Nel 1968, anche se ero molto giovane, avevo capito subito che le mie simpatie erano per gli anarchici, e che invece detestavo i gruppi neostalinisti o neoleninisti che si erano impadroniti del movimento con la pretesa di "guidarlo". Ho raccontato le mie sensazioni a proposito in Due di due. Oggi non vedo molti spazi di impegno. Ma un cittadino normale può sempre esprimere le sue convinzioni attraverso il suo lavoro e la sua vita privata, naturalmente".

Insomma, De Carlo non ama l'impegno diretto. Ma nei suoi libri riesce a distruggere con metodicità tutti i pilastri del potere: dalla famiglia alla scuola, dalla coppia al lavoro fisso, dalle istituzioni (politiche e culturali) al denaro. I suoi personaggi comunicano un'inquietudine esistenziale che alla fine risulta più devastante di un pamphlet politico. Se è lecito un paragone, in lui c'è molto Albert Camus e poco Jean-Paul Sartre. L'unica volta che De Carlo ha preso una posizione politica diretta è stato per denunciare le ruberie del Psi a Milano dieci anni fa, nel libro Due di due.

Ti pesa il non far parte di una "parrocchia precisa"?

"No, anche se è molto comodo trovarsi una collocazione giusta: si viene ripagati in termini di consenso e di protezione. Però sono favori da ripagare: facendo parte del gruppo, mobilitandoti ogni volta che il partito chiama. I miei primi due libri, Treno di panna e Uccelli da gabbia e da voliera, ebbero un grande successo di critica, perfino preoccupante nella sua uniformità. Macno invece fu bistrattato, però vendette molto. Da allora, il successo di pubblico mi ha messo al riparo dalla vulnerabilità che invece può danneggiare molti scrittori".

In totale, De Carlo sta raggiungendo i due milioni di copie vendute. Il penultimo libro uscito nel 1999, Nel momento, è arrivato a 350 mila copie. E anche Pura vita si è installato immediatamente al secondo posto in classifica, superato solo da Andrea Camilleri. Oltre che best seller, inoltre, i suoi sono anche long seller: i lettori che lo scoprono tramite i suoi ultimi libri vanno poi a comprarsi anche i primi, che quindi continuano a vendere. E gli permettono di essere uno dei pochi romanzieri italiani che riescono a vivere del proprio lavoro, senza dover pietire collaborazioni ai giornali, sceneggiature ai produttori di film o marchette televisive.

Molti dei suoi aficionados di oggi non erano ancora nati ai tempi del suo debutto, vent'anni fa. E oggi intrecciano con De Carlo un dialogo diretto attraverso il suo sito internet (www.andreadecarlo.net). Per l'intellighenzia di sinistra De Carlo ha l'imperdonabile colpa di essere riuscito a tratteggiare magistralmente, tramite l'odioso Polidori, protagonista di Tecniche di seduzione, la figura dell'intellettuale fintamente engagé, ma in realtà colluso con il potere e dalla vita privata schifosetta: sfruttatore di giovani "negri" sottopagati che gli scrivono libri poi firmati da lui, e ricattatore sessuale di belle studentesse universitarie. In quello stesso libro per pagine e pagine De Carlo ha messo alla berlina i redattori del settimanale Panorama.

Un altro violento attacco al sistema di potere buroculturale italiano il romanziere lo ha sferrato qualche anno fa in un convegno al Salone del libro di Parigi: "Non è vero che l'Italia di Tangentopoli sia rimasta vittima di un piccolo gruppo di criminali", ha sostenuto, "perché in realtà milioni di persone ne furono direttamente complici. Il nostro paese è stato stuprato e distrutto per quarant'anni senza che si manifestasse una vera opposizione politica. Il trasformismo italiano ha delle capacità incredibili, e i nostri connazionali si distinguono per una viltà ignobile. L'opposizione è stata sedicentemente rappresentata dal Pci, ma gli intellettuali italiani sono omertosi. Anche se non sono direttamente responsabili dello sfacelo, sono conniventi".

È chiaro che con discorsi simili non si ricevono critiche favorevoli sui giornali del gruppo Espresso-Repubblica, non si viene invitati ai festival dell'Unità, non si vincono premi letterari, né si diventa cocchi del regime.

Mauro Suttora

Tuesday, January 15, 2002

Mappa degli euroscettici

MAPPA DEGLI EUROSCETTICI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 15 gennaio 2002

Londra. Altiero Spinelli? «Soltanto un pericoloso stalinista». La prova? «Nel suo Manifesto di Ventotene del 1941 scrisse: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”». 

Il padre dell’Europa unita scomparso nel 1986 è detestato a tal punto dagli euroscettici inglesi che uno di loro, Lindsay Jenkins, autore quattro anni fa del libro «Gran Bretagna tenuta in ostaggio: l’Eurodittatura in arrivo», gli ha dedicato un lungo saggio offensivo, in cui l’antifascista italiano viene definito sprezzantemente «padrino» dell’Unione europea, nonché «lifelong communist» (comunista per tutta la vita). 

Ma Spinelli non aveva abiurato la sua fede in Stalin nel ‘37? Sì, ammette Jenkins, «perché avendo tempo per pensare, in prigione ruppe col comunismo. Ma non si è mai allontanato troppo dalle sue radici, e infatti dopo 40 anni durante i quali la sua stella fu eclissata da altri europeisti come Jean Monnet, nel 1976 tornò sulla scena come deputato e poi eurodeputato del Pci. E, con il suo Club del Coccodrillo, è stato lui negli anni Ottanta il vero artefice del trattato di Maastricht e dell’unione monetaria».
 
Siamo nel principale covo degli euroscettici: gli uffici londinesi in Regent Street del Gruppo di Bruges. Più accaniti di loro contro Bruxelles, in tutto il mondo non ce n’è. Altro che Bossi, Martino, Tremonti. È qui che si distillano le analisi più velenose contro i tecnocrati dell’Unione Europea. È qui che i nemici dell’euro gioiscono ogni volta che il dollaro guadagna un decimo di punto sulla moneta continentale. Ed è qui che aspettano con fiducia il referendum sull’adesione all’euro ipotizzato da Tony Blair: «Se mai avrà il coraggio di farlo, quello sarà il giorno della sua rovinosa caduta», prevedono sicuri.

Perché Bruges? Perché tutto cominciò in quella città belga, dove nel settembre 1988 Margaret Thatcher pronunciò uno dei suoi tanti discorsi contro l’Europa «sociale». Che risultò talmente brillante e ben argomentato da passare alla storia. Al rettore del Collegio d’Europa che l’aveva invitata disse ironica: «Farmi parlare qui è come aspettarsi da Gengis Khan un discorso sulla coesistenza pacifica». 

Per niente intimorita dal trovarsi nella tana del lupo, la Lady di ferro scolpì nel marmo la memorabile frase: «Non abbiamo fatto arretrare le frontiere dello Stato in Gran Bretagna per vedercele reimporre da un Superstato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles». 

Il duello allora era contro Jacques Delors, presidente francese della Commissione, il quale da buon socialista vagheggiava un’Europa «sociale».

«Noi europei», gli ribatteva la Thatcher, «non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in dispute interne e arcani dibattiti istituzionali: niente può sostituire l’azione concreta. L’Europa deve competere in un mondo dove il successo va ai Paesi che incoraggiano l’iniziativa individuale, e non a quelli che cercano di ostacolarla. Per lavorare meglio di loro non c’è bisogno di centralizzare il potere a Bruxelles, né di far prendere le decisioni a una burocrazia non eletta. E’ paradossale che proprio mentre Paesi come l’Urss, i quali hanno cercato di governare tutto centralmente, stanno imparando che il successo dipende invece dal saper distribuire il potere e le decisioni lontano dal centro, qualcuno in Europa voglia muoversi nella direzione opposta».
 
Liberali contro socialisti, quindi. Proprio come nel giugno ‘85, quando al vertice di Milano la Thatcher uscì sconfitta da Bettino Craxi. «Vogliamo indietro i nostri soldi!», aveva esordito Maggie cinque anni prima sulla scena continentale. Craxi gliene concesse un po’, e ci mise sopra pure la scappatoia dell’opt-out (la clausola grazie alla quale oggi Gran Bretagna, Danimarca e Svezia rimangono fuori dall’euro). Ma in cambio i britannici dovettero permettere l’avvio del processo che portò a Maastricht nel ‘92, e poi alla Banca centrale europea.

Contro la quale, peraltro, lord Norman Lamont, già cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) thatcheriano e oggi vicepresidente del Gruppo di Bruges, non rinuncia a lanciare i suoi strali: «Evviva, siamo rimasti fuori dall’euro. Moneta che non ha mantenuto le promesse e aumenta il rischio di recessione in Eurolandia. La ricchezza pro capite in Gran Bretagna ha superato Francia e Germania. L’economia britannica registra risultati superiori. Abbiamo uno dei regimi monetari migliori del mondo. Sarebbe folle buttar via tutto ciò».

Se il cuore orgoglioso dell’euroscetticismo festeggia a Londra il «mancato disastro dell’euro, al quale sono bastati pochi mesi per perdere un quarto del proprio valore rispetto al dollaro», a Strasburgo sono 70 (su 626) gli eurodeputati che agiscono da quinta colonna del tempio del «nemico». 

Ai 36 conservatori inglesi (nel gruppo del Ppe) si aggiungono infatti i 18 del gruppo Edd (Europa delle democrazie e diversità) e dodici «non iscritti» francesi: metà lepenisti e metà del Mouvement pour la France fondato dall’ex giscardiano vandeano Philippe de Villiers (autore del libro «Vi sono piaciute le farine animali? Adorerete l’euro») dopo il referendum su Maastricht che vide i no al 49 per cento. Nel gruppo Uen (Unione Europa delle nazioni), assieme agli italiani di An che vorrebbero passare nel Ppe, ci sono i tre gollisti di Charles Pasqua.

Nel gruppo Edd i nove francesi anti-Ue sono a loro volta divisi fra i gollisti e quelli del partito «Caccia, pesca, natura e tradizioni» guidato da Jean Saint-Josse. Nigel Farage, ex broker 37enne, è il capo del piccolo Independence party inglese, che grazie al proporzionale ha eletto due eurodeputati nel ‘99, e che lo scorso giugno ha presentato 450 candidati anche alle politiche, ottenendo quasi 400mila voti. 

Ci sono poi i tre danesi del «Folkebevælgelsen mod Eu», il Movimento del popolo contro l’Europa fondato da Jens-Peter Bonde, che fin dagli anni ‘70 prende regolarmente il 20 per cento dei suffragi a ogni elezione europea.

Sarà dura anche per Copenhagen entrare nell’euro: dopo il referendum perduto un anno fa dagli europeisti, l’opinione pubblica non dà segni di resipiscenza. Un’altra eurodeputata anti-Ue danese è la teologa Ulla Sandbaek, del «Movimento Giugno», e contro l’euro è nata appositamente l’associazione «Euronej, keep the krone». Hanno  radice religiosa anche i tre europarlamentari euroscettici olandesi del Gpv, un partito collegato alla chiesa riformata.
 
Stessa musica in Svezia, dov’è il Centerpartiet a tenere alta la bandiera antieuropea. L’unico eurodeputato, Karl Eric Olssche, ha aderito al gruppo liberale. Il referendum sull’adesione alla Ue nel ‘94 passò a Stoccolma per il rotto della cuffia: 52 a 48%. Sulla home-page del sito internet del Partito di Centro troneggia un contatore che misura in diretta «le corone che diamo all’Europa», e che aumentano all’impressionante ritmo di cento al secondo: dall’inizio dell’anno son 120 milioni.

L’antieuropeismo trova adepti anche a sinistra. Fanno infatti parte del Team (The European Alliance of eurocritical Moments) i comunisti austriaci e tedeschi, i greci dell’Ean, i verdi polacchi e, fra i Paesi ancora in lista d’attesa per l’Ue, la Nova Stranka e il gruppo Neutro sloveno, che lo scorso settembre ha organizzato a Lubiana un campeggio giovanile antieuropeo. 

Anche a Tallinn, capitale dell’Estonia, si è svolto in ottobre un congresso euroscettico. E nella vicina Finlandia, unico Stato nordico entrato in Eurolandia, c’è il movimento «Vaihtoetho Eu» (Alternativa all’Eu) della signora Ulla Klotzer. In Irlanda il principale antieuropeista è Anthony Coughlan, professore del prestigioso Trinity College a Dublino.

Certo, agli euroscettici manca un vero leader continentale. Ma sarebbe una contraddizione in termini, un antieuropeo conosciuto in tutta Europa. Avrebbe potuto esserlo sir Jimmy Goldsmith, il brillante miliardario inglese noto in Italia soprattutto come padre dell’ex attrice Clio («La cicala»), nonché della splendida Jemina amica della principessa Diana e moglie del campione pakistano di cricket Imran Khan. Ma Goldsmith, amico di Gianni Agnelli (teneva anche lui la barca a Calvi, in Corsica), è morto di cancro al pancreas nel 1997, a soli 64 anni.

Ha visto la morte da vicino anche Jean-Pierre Chévenement, il socialista francese tre volte ministro e tre volte dimissionario che, tornato alla politica, si è smarcato dal Ps e si candida alle presidenziali di primavera con una piattaforma anti-Ue. 

Appoggiato dal famoso scrittore Max Gallo, i sondaggi gli accccreditano attualmente una popolarità del 40 per cento. Darà fastidio più a Lionel Jospin che a Jacques Chirac. A destra, oltre a Pasqua, De Villiers e Le Pen, a rastrellare gli umori chauvinisti della Francia profonda c’è sempre l’ex ministro e presidente gollista Philippe Séguin.

E in Italia? Nel ‘92 gli unici partiti anti-Maastricht furono Lega, Msi e Rifondazione. Oggi solo Bossi si permette uscite pubbliche contro Bruxelles. Antonio Martino era contrario all’euro, ma più che altro perché ne contestava l’artificialità come moneta di transizione: «O lo si fa in una sola volta, o non lo si fa affatto». 

Ma ormai è andata, l'euro ce l’abbiamo in tasca. Così, a parte qualche dubbio del più federalista di tutti, il Marco Pannella che plaude alle critiche di Ralf Dahrendorf contro l’Europa ridotta a burocrazia e chiede invano più potere per il Parlamento, l’euroscetticismo nostrano è soprattutto culturale.

Il suo principale bastione è l’associazione Italiani Liberi di Ida Magli e Giordano Bruno Guerri. Entrambi commentatori del Giornale, la prima ha un passato da ideologa femminista: «Scrivevo su Repubblica dalla fondazione, ma dopo un pezzo contro il Corano mi hanno cacciata. Stessa sorte all’Espresso: l’ultimo mio articolo, contro la Ue, non l’hanno mai pubblicato». In compenso il suo libro 'Contro l’Europa, tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht' (Bompiani, 1997) è arrivato a 30mila copie e otto edizioni. 

Un discreto successo sta avendo anche 'L’Unione fa la truffa' di Mario Giordano, direttore del tg Studio Aperto, pubblicato da Mondadori tre mesi fa. Un altro polemista anti-Ue è Alberto Mingardi, ventenne «anarcocapitalista» che scrive su Libero. Mancano all’appello i noglobal: fra i loro tanti bersagli Bruxelles figura raramente. Forse perché perché non è negli Stati Uniti.
Mauro Suttora

Tuesday, January 08, 2002

Dittatori

LIBERTARIA
trimestrale anarchico
diretto da Luciano Lanza

2002

Dove sono finiti gli anarchici di una volta? Quelli che praticavano il tirannicidio, e che fino a un secolo fa non si facevano troppi problemi nell’infliggere un castigo ritenuto legittimo non solo dagli antichi filosofi greci (i quali giustificavano l’eliminazione violenta dei satrapi), ma perfino dalla Chiesa cattolica?

La classifica che pubblichiamo è desolante. I dittatori del XX secolo (giustamente definito «secolo delle dittature») hanno goduto di vita lunga, sono quasi tutti morti nel proprio letto, e i pochissimi che ci hanno rimesso la pelle sono stati giustiziati solo dopo aver perso il potere (Mussolini, Ceausescu). L’ultrasettuagenario Fidel Castro (soprannominato ormai «Coma andante») si avvia a conquistare il primo posto in questa graduatoria di durata: ancora sei anni, e toglierà a Kim Il Sung lo scettro di tiranno al potere più longevo del mondo. Anche per lui, d’altronde, si intravede una successione in famiglia: gli subentrerà il fratello Raul, così come ai nordcoreani è toccato il figlio di Kim. Insomma, sembra proprio che per i dittatori il potere assoluto rappresenti il miglior elisir di lunga vita..

Attenzione: questa classifica prescinde totalmente dal grado di crudeltà dei singoli regimi. Anzi, quelli che sono correntemente considerati come i tiranni più sanguinari sono addirittura fuori lista: Hitler durò «soltanto» 12 anni, il centrafricano Jean-Bedel Bokassa 14 (dal 1965 al ‘79), Idi Amin Dada oppresse l’Uganda dal ‘71 al ‘79 e Pol Pot sterminò i cambogiani in soli quattro anni, dal ‘75 al ‘79. Buona annata per gli amanti della libertà, il 1979: quell’anno perse il potere anche il nicaraguense Anastasio Somoza, che fu poi giustiziato da un emissario sandinista nel suo esilio di Miami. Ma rimane un’eccezione: Idi Amin è ancora vivo (esiliato in Arabia Saudita), mentre Bokassa è morto di attacco cardiaco nel ‘96 a 75 anni, libero nella propria villa, e Pol Pot si è spento tranquillamente per malattia nella jungla quattro anni fa.

Nella classifica abbiamo inserito anche alcuni personaggi, come re Hassan II del Marocco o l’ex presidente Lee Kuan Yew di Singapore, che non da tutti vengono correntemente definiti «dittatori». Ma per ritenere tale il sovrano marocchino non c’è bisogno di aver letto il devastante libro «Notre ami le roi», né il fatto che Lee abbia da qualche anno abbandonato formalmente il potere diretto significa che la sua presa d’acciaio non continui a opprimere la città-stato asiatica.

Viceversa, altri governanti dalle maniere assai spicce come il giordano re Hussein o l’egiziano Mubarak se la cavano grazie alle graduatorie di Amnesty, Human Rights Watch e Freedom House, che hanno giudicato i loro Paesi «parzialmente liberi». Ma il crinale è certo molto stretto: tecnicamente, anche i capi dello stato del Vaticano dovrebbero figurare nel nostro elenco. Al contrario del serbo Slobodan Milosevic o del croato Franjo Tudjman, i quali sono stati eletti negli anni ‘90 con votazioni dalla regolarità non disprezzabile, perlomeno secondo i criteri balcanici...

Fidel Castro può a ragione gloriarsi di aver visto transitare per la Casa Bianca ben dieci presidenti statunitensi, nove dei quali (tutti tranne il primo, Dwight Eisenhower) hanno cercato in vario modo di eliminarlo. Ma anche Saddam Hussein, dodici anni dopo la guerra del Golfo, è tuttora sul trono in Irak: ancora pochi mesi e riuscirà a entrare nella nostra Top Ten, avendo debuttato nel ‘68. Lo tallona Muammar Gheddafi, mentre l’altro componente del terzetto dei «militari laici arabi», il siriano Hafez Assad, è morto nel Duemila dopo trent’anni di potere: uno più di Stalin, tre più di Mao.

La loro lunga permanenza al governo dimostra un’altra ineffabile legge storica: tutti i dittatori presi via via di mira dagli Stati Uniti come i «cattivi» da eliminare restano saldamente al potere. E’ successo così, oltre che con Castro, Saddam, Gheddafi e Assad, anche con Kim Il Sung, sopravvissuto alla guerra di Corea scatenata nel 1950, con i comunisti vietnamiti tuttora al governo (Ho Chi Minh è deceduto per cause naturali,il generale Vo Nguyen Giap compie 90 anni nel 2002), con l’iraniano Khomeini individuato come il diavolo ma anch’egli morto di vecchiaia, e con tutti gli «evil empires» dell’ultimo mezzo secolo: perfino Osama bin Laden e il mullah Omar hanno perso l’Afghanistan, ma sono liberi. Uniche eccezioni Milosevic (anche se gli Usa vedono come il fumo il Tribunale Onu dell’Aia che lo sta processando), e Manuel Noriega, il caudillo panamense costretto all’esilio a Miami nell’89 (ma con la rivincita dei norieghisti a Panama cinque anni dopo).

E’ impressionante constatare come la classifica accomuni, grazie a un criterio casuale come quello della durata, autocrati di stampo diversissimo fra loro: si va dal dittatore comunista al caudillo sudamericano, dal generale golpista al satrapo asiatico, dal califfo mediorientale al tiranno fascista, dal rispettabile «liberatore» anticolonialista africano degradatosi in vecchio bizzoso e inamovibile (il tunisino Habib Bourguiba, il tanzaniano Julius Nyerere) al narcomafioso (il birmano Ne Win). Una lista sterminata che per motivi di spazio lascia fuori personaggi celebri come l’etiope Menghistu, il polacco Gomulka o l’algerino Boumedienne (14 anni al potere), Nikita Kruscev (11), Juan Domingo Peron (nove, ma con un ritorno democratico nel ‘73), il generale polacco Wojciech Jaruzelski (8), Nicolaj Lenin e il colonnello greco Georgios Papadopoulos (7), il portoghese Marcelo Caetano (6) e i suoi rivali dell’indipendenza mozambicana Samora Machel (11 anni) e angolana Agostinho Neto (4), fino ai re sauditi e ai famigerati generali della «junta» argentina Emilio Massera, Jorge Videla e Leopoldo Galtieri, cacciati nel 1983 dopo la guerra delle Falkland/Malvinas persa contro la «lady di ferro» Margaret Thatcher.

Fantasmi del passato? Mica tanto: spesso ritornano, com’è successo nello sfortunato Congo ex Zaire, dove dopo gli interminabili 32 anni di Mobutu Sese Seko nel 1997 sono iniziati gli altrettanto devastanti quattro anni di Laurent Desiré Kabila, e dove l’attuale Joseph Kabila non sembra meglio. Il mestiere di dittatore, insomma, conviene: durata molta, sfarzi notevoli, rischi pochi...

CLASSIFICA DITTATORI DEL XX SECOLO al gennaio 2002

Paese al potere anni

1) Kim Il Sung (Corea del Nord) 1945-94† 49
2) Fidel Castro (Cuba) 1959-in carica 43
3) Enver Hoxha (Albania) 1945-85† 40
4) Francisco Franco (Spagna) 1936-75† 39
5) Reza Pahlevi (Iran) 1941-79 39
6) Hassan II (Marocco) 1961-99† 38
7) Lee Kuan Yew (Singapore) 1965-in carica 37
8) Antonio Salazar (Portogallo) 1932-68† 36
9) Gnassingbe Eyadéma(Togo) 1967-in carica 35

10)Hassanal Bolkiah (Brunei) 1967-in carica 35
11)Omar Bongo (Gabon) 1967-in carica 35
12)Josip Broz Tito (Jugoslavia) 1945-80† 35
13)Todor Zivkov (Bulgaria) 1954-89 35
14)Alfredo Stroessner (Paraguay) 1954-89 35
15)Saddam Hussein (Irak) 1968-in carica 34
16)Muammar Gheddafi (Libia) 1969-in carica 33
17)F.Houphouet-Boigny(Costa D’Avorio) 1960-93 33
18)Janos Kadar (Ungheria) 1956-89 33
19)Suharto (Indonesia) 1965-98 33

20)Mobutu Sese Seko (Zaire) 1965-97 32
21)Rafael Trujillo (Rep.Dominicana) 1930-61 31
22)Abdal Aziz Saud (Arabia Saudita) 1932-53 31
23)H.Kamuzu Banda (Malawi) 1964-94 30
24)Stalin (Urss) 1924-53† 29
25)Hafez Assad (Siria) 1970-2000† 30
26)Isa Al Khalifah (Bahrain) 1971-99 28
26)Kenneth Kaunda (Zambia) 1964-91 27
27)Mao Tse Tung (Cina) 1949-76† 27
28)Seku Turé (Guinea) 1958-84 26
29)Chiang Kai Shek (Taiwan) 1949-75† 26

30)Ne Win (Birmania) 1962-88 26
31)Walter Ulbricht (Germania Est) 1946-71 25
32)Nicolae Ceausescu (Romania) 1965-89 24
33)Ho Chi Minh (Vietnam del Nord) 1945-69† 24
34)Benito Mussolini (Italia) 1922-45 23
35)Didier Ratsiraka (Madagascar) 1975-in carica 23
36)Eduardo Dos Santos(Angola) 1979-in carica 23
37)Mussa Traoré (Mali) 1968-91 23
38)Robert Mugabe (Zimbabwe) 1980-in carica 22
39)Siad Barre (Somalia) 1969-91 22

40)Deng Xiaoping (Cina) 1976-97† 21
41)Ferdinand Marcos (Filippine) 1965-86 21
42)Julius Nyerere (Tanzania) 1964-85 21
43)Paul Biya (Camerun) 1982-in carica 20
44)Habib Bourghiba (Tunisia) 1957-87 20
45)Ahmadou Ahidjo (Camerun) 1962-82 20
46)Gustav Husak (Cecoslovacchia) 1969-89 20
47)G. Gheorghiu-Dej (Romania) 1945-65† 20
48)Erich Honecker (Germania Est) 1971-89 18
49)Leonid Breznev (Urss) 1964-82† 18

50)Kemal Ataturk (Turchia) 1920-38 18
51)Gamal Nasser (Egitto) 1952-70† 18
52)Saparmurad Niyazov(Turkmenistan) 1985-in carica 17
53)Augusto Pinochet (Cile) 1973-90 17
54)Zin Abidin Ben Ali (Tunisia) 1986-in carica 16
55)Giafar Nimeiry (Sudan) 1969-85 16
56)Jomo Kenyatta (Kenia) 1963-78 15
57)J.-Claude Duvalier(Haiti) 1971-86 15
58)François Duvalier (Haiti) 1957-71 14
59)Menghistu Haile M.(Etiopia) 1977-91 14

60)Jean Bedel Bokassa(Rep.Centrafricana) 1965-79 (†96-75) 14
61)Wladislaw Gomulka (Polonia) 1956-70 14
62)Chun Doo Hwan (Corea del Sud) 1979-93 14
63)Roh Tae Woo (Corea del Sud) 1979-93 14
64)Houari Boumedienne(Algeria) 1965-79 14
65)Chadli Bendjedid (Algeria) 1979-92 13
66)Omar el-Bechir (Sudan) 1989-in carica 13
67)Idris Déby (Ciad) 1990-in carica 12
68)Adolf Hitler (Germania) 1933-45† 12
69)Anastasio Somoza (Nicaragua) 1967-79 12

70)Samora Machel (Mozambico) 1975-86† 11
71)Re Feisal (Arabia Saudita) 1964-75 11
72)Nikita Kruscev (Unione Sovietica) 1953-64 11
73)Ruhollah Khomeini (Iran) 1979-89 10
74)Chiang Ching-Kuo (Taiwan) 1978-88 10
75)Juan Domingo Peron (Argentina) 1946-55 9
76)Idi Amin Dada (Uganda) 1971-79 8
77)Wojciech Jaruzelski(Polonia) 1981-89 8
78)Boris III (Bulgaria) 1935-43 8
79)Hugo Banzer (Bolivia) 1971-78 †2002 7

80)G.Papadopoulos (Grecia) 1967-74 7
81)Nikolaj Lenin (Unione Sovietica) 1917-24† 7
82)Emilio E. Massera (Argentina) 1976-83 7
83)Jorge Videla (Argentina) 1976-82? 6
84)Marcelo Caetano (Portogallo) 1968-74 6
85)Pol Pot (Cambogia) 1975-79 (†‘98) 4
86)Agostinho Neto (Mozambico) 1975-79 4
87)Georgi Dimitrov (Bulgaria) 1946-49 3
88)Alexander Stamboliski (Bulgaria) 1920-23 3
89)Alexander Tsankov (Bulgaria) 1923-26 3
90)Raul Cedras (Haiti) ?-94 ?

Friday, January 04, 2002

Emma, fastidiosa farfalla dell'utopia

Fa nascere il Tribunale internazionale Onu dell'Aia contro la volontà degli Stati Uniti

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 gennaio 2002

Roma. Sta per nascere il Tribunale penale internazionale dell’Onu. Nella sede di «Non c’è pace senza giustizia», l’associazione radicale che da quasi dieci anni si batte per crearlo, Antonella Dentamaro è ottimista: «Ancora poche settimane. Occorrono le ratifiche di 60 Stati, e siamo già a 47. I parlamenti di Portogallo, Slovenia ed Estonia hanno appena votato, devono solo depositare la ratifica. Così il 17 luglio 2002, quarto anniversario del trattato di Roma che ha istituito la Corte, potremo finalmente festeggiare la Giornata della giustizia internazionale».

Porta parecchie firme italiane, il primo tentativo nella storia di far giudicare i crimini di guerra e i genocidi da un tribunale indipendente, non nato «ad hoc» come quelli sulla ex Jugoslavia e il Ruanda, né creato dai vincitori come Norimberga. 

Giovanni Conso ha presieduto la conferenza di Roma che nel 1998 ha scritto lo statuto, Antonio Cassese è stato il primo presidente del Tribunale per l'ex Jugoslavia dal 1993 al '97, Fausto Pocar ne è attualmente giudice. 

Ma soprattutto Emma Bonino gira per il mondo a propagandare l’idea: due mesi fa era in Cambogia, in Thailandia e poi nelle Filippine, un mese fa a Praga con 15 Paesi dell’Est europeo, ora è in Egitto, e il 25 gennaio ad Amsterdam ci sarà un’altra conferenza con Robert Badinter, l’indimenticato «garde des sceaux» di François Mitterrand. 
 
Il principale nemico del Tribunale internazionale permanente si chiama Jesse Helms: un vecchio senatore repubblicano americano che considera la Bonino una fastidiosa farfalla dell’utopia. Il 7 dicembre 2001 è riuscito a far approvare dal Senato Usa a larghissima maggioranza (78-21) una legge che non solo nega qualsiasi aiuto militare a tutti i Paesi che osano ratificare la Corte, ma arriva addirittura a permettere al presidente Usa di «usare ogni mezzo» (cioè la forza) per liberare soldati americani che vengano arrestati dal Tribunale. Per questo la sua legge è stata sarcasticamente battezzata «Hague invasion Act», legge per l’invasione dell’Aia, la città che sarà sede anche della nuova Corte.

Gli Stati Uniti non vogliono che i propri militari possano essere accusati di crimini di guerra durante gli interventi all’estero. Per questo Clinton ha firmato il trattato di Roma solo un anno fa, e la ratifica sembra impossibile. 

Tuttavia il 20 dicembre è avvenuto un colpo di scena: Camera e Senato Usa riuniti hanno bocciato la legge di Helms, rifiutando di inserirla nel bilancio 2002. Poi si vedrà. 

Alla fine, insomma, ha prevalso la posizione aperturista del senatore democratico del Connecticut Christopher Dodd, grande avversario di Helms. E le più di mille Organizzazioni non governative che fanno lobbying a Washington per il Tribunale, da Amnesty a Human Rights Watch, dall’Open Society Institute di George Soros al Partito radicale transnazionale, hanno festeggiato: «È una vittoria importante, perché gli Usa non possono minare la validità di questa istituzione multilaterale proprio mentre chiedono aiuto a tutto il mondo nella lotta contro il terrorismo», dichiara William Pace del Cicc (Coalition for the International criminal court).

Negli Stati Uniti quindi il dibattito è più che mai aperto. Da una parte c’è la consapevolezza orgogliosa di essere l’unica superpotenza mondiale, con annessi oneri e onori. Ma l'isolazionismo americano, che si tramuta in unilateralismo a contatto con le complicate faccende del mondo, si stinge infine in pragmatica ricerca del consenso. 

Per dirla concretamente: certe patate calde gli Usa non hanno voglia di pelarsele da soli. Ecco quindi la Fondazione Ford finanziare la lobby pro-Tribunale internazionale, già innaffiata da contributi (pubblici) di tutti i governi scandinavi, di Germania, Canada e Italia, e perfino dai britannici, i migliori alleati dell’America imperiale. I quali non temono di irritare Washington negando l’estradizione ai terroristi islamici, se rischiano la pena di morte.

Quanto ai fautori della Corte, essi si rendono conto che la collaborazione degli Usa, unici gendarmi mondiali, è indispensabile. Si lavora quindi sui cavilli giuridici, limando per esempio il concetto di «intenzionalità»: i tanto discussi «danni collaterali» non saranno punibili se le vittime civili non vengono colpite intenzionalmente. Come in Bosnia, Serbia e Afghanistan, appunto. Solo bombardamenti indiscriminati tipo Dresda e Hiroshima verranno sanzionati.
Mauro Suttora

Saturday, December 22, 2001

Davide Van De Sfroos

Foglio, 22 dicembre 2001

di Mauro Suttora

Van De Sfroos non è un ciclista fiammingo. E’ il nome d’arte di Davide Bernasconi, cantautore dialettale comasco di 36 anni: «van de sfroos» in lariano significa «vanno di frodo». Contrabbandieri e irregolari sono infatti i personaggi delle canzoni di questo artista-rivelazione, che sta collezionando tutti esauriti in ogni concerto che tiene in Lombardia e Svizzera italiana. Così c’è il Bestia, «castig del Signuur, semper spurceleent e vestii cun’t un sacch, ma no l’era mai stracch» («castigo del Signore, sempre sporco e vestito con un sacco, ma non era mai stanco»). C’è quell’altro con «gli occhiali da tafano dell’autogrill di Fiorenzuola, pilota de la malura che scià el Gilera de rüvà ved mea l’ura» («...pilota della malora che sul Gilera di arrivare non vede l’ora»). E c’è naturalmente anche il cuoco del Grand Hotel, come su ogni lago che si rispetti, figura degna di quello di Salò cantato da Francesco De Gregori, solo che questo ha «il maa de schena, e l’è giamò ciucch a la matèna» («il mal di schiena, ed è già ubriaco alla mattina»).

Van de Sfroos, questa specie di Paolo Conte dell’Insubria, è diventato il mito nascosto della Lombardia settentrionale. Riesce a mettere d’accordo tutti: leghisti, ciellini, comunisti, forzisti. Ha vinto il premio Tenco del 1999, e il suo disco «Breva & Tivàn» (i due venti che soffiano regolarmente sul lago di Como, uno al mattino e l’altro al pomeriggio, permettendo per secoli ai «lagheè», gli abitanti del lago, di spostarsi da un paese all’altro), autoprodotto e senza una vera distribuzione, ha venduto 35mila copie spontaneamente, con la sola forza del passaparola.

Ora è uscito il nuovo «E semm partii...» (Siamo partiti), disco di folk rock che ne riconferma la fantasiosa vena poetica. Sul palco del teatro Smeraldo, a Milano, Lella Costa ha voluto leggere le sue poesie. E Ale e Franz, anche loro calati in pianura dalle prealpi (sono i comici sfigati che suonavano al citofono di «Mai dire gol»), lo hanno accompagnato con le loro battute surreali.

Il mondo di Van De Sfroos è pieno di personaggi stralunati, cantati con il suo vocione da cantastorie padano a metà fra Pierangelo Bertoli e Ligabue. Dopo i concerti, che tiene in posti dai nomi buffi come Uggiate Trevano, Zingonia, Guanzate o Tavernerio, giovani e vecchi portano sul palco ingrandimenti fotografici da firmare, bottiglie di vino e salami caserecci.

Da queste parti, fra Valtellina a nord, Brianza a sud, Svizzera a est e Orobie a ovest, il contrabbando è sempre stato qualcosa di più di un espediente per sopravvivere: fa parte della storia di ogni valle, paese e famiglia, dove c’è spesso un nonno o uno zio che andava «de sfroos». Almeno fino agli anni ‘70, quando le cose si sono incattivite e agli spalloni con sigarette e robe da poco si sono sostituiti i mafiosi con pacchi di soldi, droga e armi.

Ma è rimasta l’atavica voglia di libertà, l’insofferenza per le frontiere, la spinta di partire che fa cantare a Van de Sfroos «E sèmm partii per questa America sugnàda in pressa, una valisa che gh’è deent nagòtt, cumè tocch de vedru de un biceer a tocch...» («Siamo partiti per questa America sognata in fretta, una valigia con dentro niente, come pezzi di vetro di un bicchiere rotto...)

Van De Sfroos sa giocare con la nostalgia, e nella canzone «Television» («Quanti dé, quanti nocc su quii pultrùnn, cun chel butùn, come un cujun...»: quanti giorni, quante notti su quella poltrona, con quel bottone, come un coglione...) c’è uno dei versi più belli del suo ultimo disco. Quando, ricordando la notte del luglio 1969 in cui gli astronauti arrivarono sulla Luna, commenta amaro: «Perchè i naven sö la Loena e i purtaven a cà i sass, e in giir sö la Tèra segütàven a cupàss» («Andavano sulla Luna e portavano a casa i sassi, e in giro sulla Terra continuavano a uccidersi»).
La musica è curatissima e moderna: va a ritmo di ska, rock, punk, reggae, in cui perfino uno strumento intrinsecamente triste come la fisarmonica riesce a colorare una melodia, rendendola sorridente.

Il 7 dicembre la città di Milano ha premiato con la sua più alta onoreficenza, l’Ambrogino d’oro, un altro grande cantante dialettale lombardo, Nanni Svampa. Lui è milanese. Anzi, franco-milanese, perché forse le sue canzoni più belle sono quelle ispirate da Georges Brassens, il papà di tutti i cantautori di livello (da Georges Moustaki a Fabrizio De André) scomparso esattamente vent’anni fa. Van De Sfroos si colloca in questa scia, dove la musica profuma di poesia e confina con l’anarchia.

Tuesday, December 18, 2001

L'unico paese contro l'articolo 18

CALANGIANESI CONTRO L’ART.18: LO SVILUPPO NON TEME LA FLESSIBILITA’

di Mauro Suttora
Il Foglio, 18 dicembre 2001

Calangianus (Sassari). «Assumere qualcuno in Italia è peggio che sposarsi: abbiamo paura che quando ci mettiamo un dipendente in casa, poi dobbiamo tenercelo per tutta la vita...» 
Parola di Edoardo Tusacciu, 43 anni, che con la sua Plastwood ha fatturato tre miliardi nel Duemila, 18 quest’anno e ne prevede 60 per il 2002. Lui sta facendo fortuna con Geomag, il gioco made in Sardegna che spopola in ogni continente. 

Ma Calangianus (4.700 abitanti) brilla per un altro motivo: é la capitale mondiale del sughero e dei tappi, con un distretto industriale forte di 130 imprese e un fatturato complessivo che supera i 400 miliardi. Export in tutta Europa, anche gli champagne francesi più prestigiosi (da Mumm in giù) preferiscono i tappi di questi sugherifici. 

Disoccupazione: zero. «Anzi, ho difficoltà a trovare il personale laureato che mi serve», rivela Tusacciu.
Nessuna meraviglia, quindi, che Calangianus sia l’unico paese italiano a volere la libertà di licenziamento: nel referendum radicale del maggio 2001 i favorevoli all’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che impone il reintegro coatto del dipendente licenziato senza giusta causa) furono la maggioranza. La consultazione venne poi annullata assieme a tutte le altre, perché i votanti non arrivarono al 50 per cento. 

Se il quorum fosse stato raggiunto, questo sarebbe stato l’unico referendum bocciato. Dappertutto in Italia, tranne che in Gallura. Anche altri comuni della futura provincia Olbia-Tempio votarono contro l’articolo 18: Santa Teresa, Trinità d’Agultu e Buddusò (centro di un secondo distretto dei miracoli, quello delle cave di granito).

Ma il risultato di Calangianus pesa di più, perché alle ultime politiche qui hanno vinto Ulivo e Rifondazione, perché l’unico senatore Ds (Nino Murineddu) è di Calangianus, e perché hanno votato sì alla libertà di licenziare anche molti dei 1.500 lavoratori dipendenti: «Certo, non bastano i sì di artigiani e datori di lavoro per arrivare alla maggioranza», ammette Stefano Cugini, dirigente dei Ds locali, «da noi gli operai si sentono vicini alle esigenze degli imprenditori, in un clima di paternalismo. Anzi, alcuni datori di lavoro sono addirittura più consapevoli sulle garanzie dei loro stessi dipendenti».

Nei sugherifici più grandi (Molinas, Italsugheri, Tusacciu) i sindacati non attecchiscono: «Per me gli operai fanno parte della famiglia», dice Tusacciu, «ovviamente rispetto i minimi contrattuali, ma poi premio il merito. Ai migliori dò 15mila nette all’ora, cioè quasi due milioni e mezzo al mese. I miei dipendenti sanno che se vanno via di qui ci mettono solo una settimana per trovarsi un altro posto, e comunque tutti sperano di mettersi in proprio prima o poi. La mentalità è questa, dall’una e dall’altra parte, non certo quella di chi tira a campare».

Egidio Pirodda, 28 anni, di Tempio Pausania, è andato a Milano per laurearsi in Bocconi. Ora è tornato, alla Plastwood segue tutto (finanza, produzione, acquisti, personale) e guadagna tre milioni al mese. 

«Ma i primi cinque mesi ho lavorato gratis, con uno stage di prova. E per i nuovi assunti preferiamo pagare di più con un contratto temporaneo, rinunciando agli sgravi fiscali, piuttosto che farci imbrigliare: se non va, dopo tre mesi liberi noi e liberi loro. Poi assumiamo regolarmente, ma siamo flessibili su orari e permessi. Per esempio, se un ragazzo vuole fare un corso di computer ma è di turno il pomeriggio, non ho problemi a farlo uscire due ore prima. Sembrano fesserie, e invece sono particolari importanti: se i dipendenti vengono trattati bene si motivano, lavorano meglio».

E votano per la flessibilità in uscita, anche perché quella in entrata è garantita. Isola felice, la Gallura, dentro all’isola Sardegna piagata dalla disoccupazione come il resto del sud: al suo poker storico di risorse (sughero, marmo, pecorino e turismo) si sta aggiungendo un’agricoltura a discreto valore aggiunto. 

Cosicché sulle tavole vip in Costa Smeralda, nelle sere d’estate, ormai non sono più soltanti i turaccioli di Calangianus a venire stappati dalle bottiglie di champagne: si fanno strada vini locali di qualità come il vermentino Capichera o il Tuvaoes. 

E i calangianesi fratelli Molinas, re del sughero, scendono a Porto Rotondo per comprarsi lo storico Hotel Sporting, ex Ciga, il massimo del lusso, strappandolo agli americani della Starwood-Sheraton. Tramontano il principe Aga Khan e il conte Donà delle Rose, si fa strada Calangianus.
Mauro Suttora

Monday, December 17, 2001

Il Geomag di Edoardo Tusacciu

Corriere della Sera, 17 dicembre 2001

Con una barretta ti conquisterò

Inventato in Sardegna, il Geomag oggi fattura 18 miliardi

Il gioco di costruzioni che piace a mezza Italia è prodotto a Calangianus, capitale mondiale del sughero, da un ex produttore di turaccioli. Oggi è esportato in trenta Paesi, compresi gli Usa «Due anni fa nessuno mi prendeva sul serio, né mi facevano credito - dice Tusacciu -. Oggi non riusciamo a star dietro a tutti gli ordini»

di Mauro Suttora

«Abbiamo un solo problema: non riusciamo più a star dietro agli ordini. Le nostre quattro macchine producono duecentomila barrette al giorno, per un valore di 120 milioni, e funzionano sempre, senza fermarsi mai. Abbiamo assunto 50 persone, ma non bastano».

Edoardo Tusacciu, 43 anni, fino all' anno scorso era un tranquillo produttore di turaccioli in sughero. Uno dei maggiori a Calangianus (Sassari), paese di cinquemila abitanti che dei tappi per bottiglia è la capitale mondiale: fra i clienti, anche i nomi più raffinati dello champagne francese. Ma oggi Tusacciu si è trasformato in industriale del giocattolo: dentro a un capannone del suo sugherificio nasce Geomag, gioco di costruzioni esploso dai tre miliardi di fatturato del 2000 ai 18 di quest' anno, fino ai 60 previsti per il 2002.

La scintilla è scoccata nella testa di un consulente aziendale, Claudio Vicentelli: inventore a tempo perso, ha messo a punto un sistema di barrette e sfere magnetizzate che creano complicate strutture geodetiche. A metà strada fra il Lego e il cubo di Rubik, Geomag può comporre le figure suggerite nelle istruzioni, ma anche quelle scaturite dalla fantasia dei giocatori: forme architettoniche, ingegneristiche, cristalline.

«Vendiamo perfino alle università, usano Geomag per riprodurre geometrie molecolari - si vanta Tusacciu - e abbiamo raggiunto i primi cinque posti nella classifica dei giochi di costruzione prodotti in Italia». Confermano alla Toycenter, la più grande catena italiana di giocattoli: «Sì, Geomag vende bene, in vari negozi ra esaurito ben prima di Natale».

Ormai i giganti dei giochi italiani (Preziosi, Clementoni, Editrice Giochi) e stranieri (Mattel, Hasbro) importano gran parte dei loro prodotti dall' Estremo oriente. Ma Plastwood, la società che produce Geomag, resta a Calangianus. «Il costo della manodopera per noi non è un problema - spiega Tusacciu - fanno tutto le macchine e la produttività è alta: basta un operaio per ogni miliardo di fatturato. All'inizio mi prendevano per pazzo, le banche non mi hanno neppure anticipato i soldi per un nuovo capannone. Così ho dovuto piazzare la prima macchina in un angolo del sugherificio. Ora invece esportiamo in trenta Paesi».

Sfondare nello sterminato mercato statunitense è fondamentale: gli americani comprano da soli più giocattoli di tutto il resto del mondo, spendendo 20 miliardi di dollari all' anno. Per questo gli Stati Uniti sono l' unico Paese, oltre alla Germania, dove Plastwood ha messo in piedi una filiale. Finito il rush di Natale, partirà l' attacco al succulento mercato dei giochi da tavolo con un nuovo prodotto: il «Catchmag», che verrà presentato alla Fiera del giocattolo di Milano dal 18 al 21 gennaio: «Puntiamo a un milione di copie», spera Tusacciu.

Calangianus è un' isola felice in Sardegna. Il distretto del sughero garantisce la piena occupazione, le sue 130 imprese fatturano oltre 400 miliardi. Un operaio può guadagnare due milioni e mezzo al mese. Non è un caso che Calangianus sia l' unico paese italiano ad avere votato contro l' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che impone il reintegro per i licenziati senza giusta causa), nel referendum radicale del maggio 2000 poi annullato dalla mancanza del quorum. «Qui tutti i lavoratori dipendenti aspirano a mettersi in proprio», spiega Tusacciu.

I principali industriali del sughero diversificano: i fratelli Molinas hanno acquistato dalla Ciga il favoloso Hotel Sporting di Porto Rotondo, e si sono lanciati anche nel settore dei porti turistici. Ora Tusacciu ha messo in piedi il miracolo Geomag, e il suo principale nemico sono diventati i falsari: a Napoli sono state sequestrate settemila scatole imitate perfettamente. Lui agli americani riesce a venderli a mezzo dollaro ciascuno, quei magici bastoncini magnetizzati: ovvio che l'idea faccia gola a molti.

Mauro Suttora

Friday, November 23, 2001

Maria Grazia Cutuli

Il Foglio, 23 novembre 2001

di Mauro Suttora

Col cavolo che Maria Grazia Cutuli era una «giovane collega», come hanno blaterato i tromboni del giornalismo in questi giorni. No, in tutta evidenza non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto perché in realtà fino ad appena due anni fa Maria Grazia era solo una precaria, costretta a uno stato di incertezza fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» di questa chiusa corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie schiavitù e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. E Antonio Russo, assassinato un anno fa in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Sua madre, al contrario dei genitori di Ilaria Alpi (giustamente ricordata con libri e film), non ha avuto neanche in questi giorni il conforto di un’intervista.

Eppure Russo è stato l’ultimo giornalista al mondo a rimanere a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, e ha ricevuto premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia. In questi giorni l’unico a ricordarlo è stato Antonio Martino.

Con la Cutuli è morto Julio Fuentes. L’ho conosciuto sette anni fa, quando era a Milano come corrispondente del Mundo e stava proprio con Maria Grazia. Lui sì che ha potuto fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. E’ capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi della piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese all’Intercontinental di Amman aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale. Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo all’Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad due giorni prima e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia quando ci sentivamo. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontavano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli e amanti e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Negli ultimi anni le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è internet», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così, oggi in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli questo lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Saturday, November 10, 2001

Quanti abitanti sulla Terra?

RAPPORTO ONU E GLOBALIZZAZIONE

di Mauro Suttora
Il Foglio, 10 novembre 2001

Duecentomila persone in più ogni giorno. Settanta milioni all’anno. E tutte nel Terzo mondo, dove soffriranno la fame. È questo il ritmo al quale sta aumentando la popolazione sulla Terra, secondo i dati dell’ultimo rapporto Onu.

E i noglobal che ne pensano? «Non si può affrontare il problema della sovrappopolazione», ci dice Vittorio Agnoletto, «se non si parla anche di redistribuzione delle ricchezze. Noi occidentali, che utilizziamo l’80 per cento delle risorse mondiali pur essendo appena il 14 per cento degli abitanti, non abbiamo il diritto di imporre politiche di contenimento demografico al Terzo mondo».
 
«No, bisogna bloccare immediatamente l’aumento della popolazione», ribatte il presidente del Wwf Fulco Pratesi, «altrimenti qualsiasi sviluppo economico non riuscirà a stargli dietro. E indipendentemente da auspicabili ma del tutto ipotetiche politiche di giustizia sociale».

Ogni dieci anni le Conferenze Onu sulla popolazione (Bucarest 1974, Città del Messico 1984, Il Cairo 1994) vengono regolarmente infiammate da polemiche di questo tipo: da una parte marxisti, cattolici e musulmani, che negano il problema e affermano che sulla Terra c’è posto per tutti; dall’altra i neomalthusiani che prospettano scenari orrendi di soffocamento ed estinzione jurassica.

A queste due posizioni negli ultimi trent’anni se n’è aggiunta una terza, quella ecologista: «Non bisogna solo sfamare tutti», spiega Gianfranco Bologna, portavoce Wwf e segretario della fondazione Peccei, «ma anche rispettare i limiti dello sviluppo. Che non derivano soltanto dalla scarsità di materie prime, evidenziata dal Club di Roma già nel ‘72, ma anche dalla capacità del nostro pianeta di assorbire i rifiuti e le emissioni atmosferiche».

Insomma, se il miliardo e 300 milioni di cinesi volessero possedere tutti l’auto, il frigorifero e il condizionatore, altro che trattato di Kyoto: l’effetto serra si impennerebbe e l’inquinamento diventerebbe insostenibile. Ma a questo dilemma «noglobal» e «proglobal» forniscono risposte opposte. 

«I cinesi hanno il sacrosanto diritto di godere del nostro stesso livello di vita», sostiene Agnoletto, «e proprio per questo noi occidentali dobbiamo rivedere il nostro modello di sviluppo: non dobbiamo essere di meno, ma dividere meglio la torta». 

«Basta con queste autocolpevolizzazioni cattocomuniste», replica il leader radicale Marco Pannella, alfiere della globalizzazione, «il diritto di tutti al benessere e alla democrazia occidentale ci impone di concepire un rientro dolce e graduale della popolazione mondiale entro il limite di due-tre miliardi di abitanti».
 
Ai ritmi attuali, invece, entro il 2050 aumenteremo del 50 per cento, passando da sei a nove miliardi. E l’unico controllo demografico efficace viene attuato proprio da Pechino, con i metodi della dittatura comunista: oggi i cinesi aumentano dello 0,7 per cento annuo, contro l’1,5 degli indiani. Così, presto l’India supererà la Cina, e toccherà per prima il miliardo e mezzo di abitanti. 

Il record mondiale della crescita spetta alla Liberia devastata dalla guerra civile (5,5 per cento), seguita da Somalia ed Eritrea (4,2). Ma è soprattutto l’esplosione demografica dei Paesi arabi del Mediterraneo a preoccupare l’Italia: entro il 2050 raddoppieranno, da 150 a 300 milio ni di abitanti, e si può immaginare quanti vorranno emigrare. Anche perché gli italiani, nel frattempo, saranno diminuti di un terzo: da 60 a 40 milioni.

L’Afghanistan esibisce in questo rapporto Onu la percentuale di crescita annua più alta di tutta l’Asia: 3,7. Per i fondamentalisti islamici «il numero è potenza». Nell’altra zona calda del pianeta la demografia provocherà addirittura un ribaltamento:  i palestinesi si quadruplicheranno da tre a dodici milioni, sorpassando così Israele che passerà da sei a dieci milioni.

Di fronte a questi drammi annunciati, la soluzione di Fulco Pratesi è semplice: «Distribuire preservativi. Come sta facendo il Wwf in Thailandia». 

E Agnoletto? «Figurarsi se proprio io posso essere contrario ai preservativi: da 15 anni mi batto per superare i divieti religiosi, sia cattolici che islamici, alla prevenzione dell’Aids in Africa. Ma, ripeto, esiste anche una responsabilità occidentale per le diseguaglianze economiche: col tre per cento del costo dello Scudo spaziale, per esempio, si potrebbe dare l’acqua potabile a tutto il mondo». 

«Noi possiamo anche diminuire gli sprechi del consumismo sfrenato», replica Pratesi, «ma una nostra austerità non potrà mai dare cibo agli affamati se questi aumentano ai ritmi attuali».
Mauro Suttora 

Monday, October 29, 2001

Dopo le Twin Towers: radicali filo-Usa

DOPO L'11 SETTEMBRE: W GLI STATI UNITI, SEMPRE

di Mauro Suttora
Il Foglio, 29 ottobre 2001

«Se veniamo, portiamo le gigantografie di Roosevelt e di Milton Friedman». Marco Pannella promette (minaccia?) una presenza «non banale» dei radicali alla manifestazione pro-Usa del 10 novembre a Roma. «Oppure srotoliamo dal Pincio o da un aereo uno striscione immenso, lungo 40 metri, con le bandiere di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e la nostra, quella con il viso di Gandhi».

Franklin Delano Roosevelt e il capo degli economisti di Chicago non hanno nulla in comune, tranne la nazionalità americana e l’antiproibizionismo: il presidente del New Deal legalizzò gli alcolici, il Nobel liberista vuole liberalizzare anche lo spinello.

Ma la lingua di Pannella batte dove il dente duole. Perché i radicali sono i precursori dell’Usa Pride: da 15 anni propugnano istituzioni americane (presidenzialismo a turno unico), giustizia americana (pubblica accusa distinta dai giudici), economia americana (mercato libero e privatizzazioni).

Dalla guerra del Golfo dicono sì, loro nonviolenti e antimilitaristi, a tutti i bombardamenti Nato su Irak, Bosnia e Kosovo. Dopo l’11 settembre sono stati i primi a manifestare per gli Stati Uniti, raccogliendo per strada firme su 25 proposte di legge all’ombra di bandiere a stelle e strisce, Union Jack e stelle di Davide. Il giorno della Perugia-Assisi sono andati polemicamente a omaggiare i soldati britannici in un cimitero di guerra umbro.

Ma sabato scorso, dopo i messaggi di Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi al convegno a San Patrignano, Pannella è stato anche il primo ad accusare di «neofascismo» la politica del Polo sulle droghe. E domenica Emma Bonino ha rincarato su Repubblica, giornale che normalmente la ignora (silenzio sulla sua guerra personale ai talebani, iniziata cinque anni fa), ma che la intervista appena dice «qualcosa di sinistra», cioè di libertario. Fatale, quindi, che a questo punto la bruciante attualità politica faccia premio sulla collaudata sintonia fra filoamericani.

Peccato, perché le prime reazioni radicali all’annuncio della marcia per le vittime di Manhattan era stata entusiasta: «Finalmente potremo riannodare il dialogo con i simpatizzanti del Polo, che tanto hanno contribuito all’otto per cento della lista Bonino nel ‘99», esultavano i dirigenti Antonello Marzano e Vasco Carraro.

Adesso invece prevale la cautela: «Non sappiamo nulla, neanche se ci invitano, se ci coinvolgono», prende le distanze Pannella, «quindi sarà il nostro Comitato, riunito dal primo al 4 novembre, a decidere sulla partecipazione ufficiale dei radicali. I quali comunque sono liberissimi di andarci. Leggo però che la cosa si sta trasformando in una manifestazione musicale, mentre noi sollecitiamo un massimo di connotazione politica per assicurarne il successo. Perché la nostra non è solidarietà generica: noi manifestiamo a favore delle istituzioni americane, proprio come forma organizzata della democrazia. Altro che “solidarietà al popolo americano”, come dice Bertinotti: lui è amico dei popoli ma nemico di tutti i loro governanti, basta che siano democraticamente eletti. A co minciare dai G8. Viceversa, è amico di tutti coloro che li opprimono, i popoli. L’unico bersaglio degli antiglobal è la democrazia - capitalista, naturalmente, anche perché altro tipo di democrazie non si conosce».

La tentazione del «pochi ma buoni» per Pannella è forte: «Il 10 novembre potremmo pure andarcene a Nettuno, dove c’è uno dei più grandi cimiteri militari americani d’Europa». Ma i radicali non erano antimilitaristi? «Auspichiamo anche oggi una conversione graduale delle spese belliche in strutture di aggressione nonviolenta contro le dittature del mondo».

E i bombardamenti in Afghanistan? «Ora siamo in ballo e dobbiamo ballare: questi governanti e generali americani non sanno fare granché, ma le armi che hanno a disposizione sono queste. E noi nonviolenti non sappiamo offrire armi alternative. Avvertiamo, però: all’interno della nuova sacra alleanza fra America, Russia e Cina possono esserci i mostri di domani. Il leader cinese resta un assassino, e Bush che va da lui a Shanghai rischia di ripetere Monaco e Yalta».

I radicali hanno passato tutti gli anni ‘80 ad ammonire su Saddam Hussein, il decennio successivo a puntare il dito contro Slobodan Milosevic, e il giorno dopo che i talebani presero Kabul nel ‘96 già facevano le Cassandre.

Profeti inascoltati?
«È un nostro vizio antico e gigantesco», ironizza Pannella, «quello di occuparci di gente che non ci può votare. E c’è anche la garanzia che in Italia nessuno parli di coloro dei quali ci occupiamo».

Cioè?
«Quattro giorni fa cinque nostri esponenti sono andati nel Laos comunista e hanno fatto la stessa cosa che nello stesso luogo, nello stesso posto e nella stessa data avevano osato fare cinque studenti laotiani il 26 ottobre 1999: hanno esposto uno striscione con la scritta “Democrazia per il Laos”. Di quegli sventurati non si sa più nulla: se sono vivi, morti, in carcere, dove. Desaparecidos. Ma anche dei radicali gli italiani non hanno saputo quasi nulla. Eppure fra loro ci sono Olivier Dupuis, segretario del partito ed eurodeputato eletto in Italia, Bruno Mellano, consigliere regionale in Piemonte, il capo dei radicali russi Nikolai Kramov, oltre a Massimo Lensi e a Silvja Manzi. Se si fossero fatti rapire nello Yemen, tutti ne avrebbero parlato. Invece, silenzio totale da parte dei nostri boss tv: Vespa, Santoro, Biagi, Costanzo, anche Lerner».
Mauro Suttora

Wednesday, October 24, 2001

intervista a Ivan Illich

trimestrale Libertaria, ottobre 2001

NON SAPPIAMO PIÙ ASCOLTARE
di Mauro Suttora


"No, per favore, nessuna telecamera. Niente video. Spenga anche quel registratore".

E come faccio a intervistarla? Non vuole che le sue parole vengano riportate fedelmente?

"In questo momento desidero soprattutto che lei mi ascolti. Voglio comunicare direttamente con lei. Senza passare attraverso un magnetofono".

Sono tutto orecchi.

"Ormai non siamo più capaci di usare bene le nostre orecchie. Gli strumenti tecnici di cui ci siamo circondati hanno indebolito il nostro udito. Così come anche tutti gli altri sensi".

L'impatto iniziale con Ivan Illich è disarmante. Ecco qui il padre dei movimenti ambientalisti di mezzo pianeta, ma non soltanto quello, il filosofo che per primo nel 1971 teorizzò La convivialità come unica difesa di fronte all'alienazione della società consumista. Herbert Marcuse distruggeva, lui assieme a Erich Fromm ricostruiva una speranza invitando a Descolarizzare la società o promuovendo la "medicina dolce" con Nemesi medica (i titoli dei suoi libri più famosi, stampati a milioni di copie in tutto il mondo e in Italia da Mondadori, Elèuthera, Red). Da anni, però, Illich è sparito. Poche pubblicazioni (al massimo il testo di qualche rara conferenza), pochissimi convegni, nessuna intervista.

Coerente con se stesso e con il suo rifiuto dei mass media ("Inutili, anzi dannosi: forniscono un'informazione a senso unico filtrata, asettica e predigerita") è scomparso dalla scena pubblica. Ma a 71 anni questo geniale ebreo ex teologo cattolico nato a Vienna non ha rinunciato a coltivare una rete di rapporti "privati e privilegiati" in ogni continente (dall'università messicana di Cuernavaca a quella americana della Pennsylvania, a quella tedesca di Brema), accettando ogni tanto l'invito a riunioni o seminari.

L'ho incontrato alla Fiera delle utopie concrete, appuntamento autunnale a Città di Castello (Perugia) organizzato da Karl-Ludwig Schibel, dove Illich è tornato dopo nove anni. Quest'anno il tema dell'incontro era 'L'udito e l'ascolto': il primo di una serie di cinque, che con cadenza annuale fino al 2005 studieranno tutti i sensi dell'uomo.

"Mi piace la stravaganza erudita di queste avventure intellettuali al di fuori delle mode dominanti", confessa Illich. "Ogni epoca ha trattato udito, vista, olfatto, gusto e tatto in modi diversi. Il tema centrale delle mie ricerche negli ultimi anni è stato proprio l'ascesi dei sensi: l'arte del soffrire e del godere, dell'amare e del morire. Allo stesso modo, in ogni periodo è esistita un'arte specifica dell'ascoltare, nonché un'arte dello sguardo".

E oggi?

"Una volta una bambina di nove anni mi ha detto che nel corso del pomeriggio aveva visto "Kennedy, Reagan ed E.T. come vedo te". Il "vedere" evidentemente per lei si è staccato dall'incontro. Fino al primo millennio lo sguardo era vissuto come un raggio che cade dall'occhio sull'oggetto. Quest'atteggiamento è stato rovesciato da Keplero: l'occhio è diventato la porta d'ingresso per i raggi del sole che consegnano, "come i cavalieri della posta", la vista della cosa alla retina. È il principio della camera oscura. Ma oggi è in atto un ulteriore rovesciamento: tramite l'occhio noi tutti siamo ingaggiati dagli schermi della televisione, ci trasferiamo nell'azione sullo schermo. L'occhio è stato arruolato al servizio del medium".

Insomma, in singolare seppur involontaria sintonia con le tesi di Giovanni Sartori, il quale prende di mira l'homo videns, che tutto vede (in tv), ma poco o nulla capisce, anche lei incolpa i media per la "perdita di senso" che sembra attanagliare sempre di più il cittadino contemporaneo.
Si ripete così il paradosso da lei evidenziato vent'anni fa: malati "arruolati" al servizio dei medici, studenti "arruolati" al servizio dei professori e non viceversa, mass media che creano la pubblica opinione invece di rifletterla.

"Esatto. L'esempio dei sistemi sanitari, che sono ormai strutture elefantiache divoratrici di soldi, è tipico. Il paziente moderno si affida con naturalezza al medico, che gli descrive e gli spiega la sua condizione sulla base di numerosi esami. Ma questo è un comportamento che non esisteva fino al Novecento. Prima il paziente andava dal proprio medico per mostrarsi a lui e per esporgli le sue lamentele. Occasionalmente il medico sentiva o degustava la sua urina. Anche le persone più povere e analfabete si confidavano con il dottore con una precisione incredibile. Compito del medico era interpretare la storia dei dolori del paziente, partendo da lì per la cura. Oggi invece non c'è più ascolto: gli specialisti si appoggiano a valanghe di esami. Ma se qualcuno alla domanda "come ti senti?" mi rispondesse con la pressione sanguigna e il livello ormonale, vorrei vomitare. Invece, questo è proprio ciò che accade oggi".

La "realtà virtuale" adesso porta all'estremo la scissione fra percezioni sensoriali e mondo fisico reale.

"Sì. Sempre di più non vediamo le cose dove sono tangibili, non le vediamo in un modo in cui possano essere toccate. Sempre più spesso diventa una nostra abitudine prendere sul serio delle voci senza corpo al telefono. Ma attenzione: non sta per sparire soltanto quella che gli antichi chiamavano sin-estesia, cioè la collaborazione fra i diversi sensi. Perfino il "senso comune", che rendeva possibile la percezione sensoriale dell'intonazione giusta, del rispetto, della proporzionalità sensata, appartiene ormai al passato".

Ma si possono distinguere, nella storia, periodi caratterizzati dall'uso privilegiato di un senso: l'epoca dell'olfatto, della vista, del tatto, dell'ascolto, della parola?

"È difficile immaginare oggi cosa succedeva in un teatro greco 500 anni avanti Cristo. Era qualcosa che Platone trovava indecente: le maschere (coscientemente non parlo di "attori") non avevano spettatori (theoretes), ma ascoltatori (akouontes), che si lasciavano trascinare nel ritmo, nel tatto, nelle cadenze, nelle melodie dello spettacolo, presentato senza alcun atteggiamento critico. Platone cercò invece di promuovere il "guardare" gli spettacoli, e pretendeva addirittura che nel suo stato ideale certi tipi di melodie fossero vietate del tutto".

Nulla sembra cambiato rispetto a quarant'anni fa, con le accuse al rock di essere la "musica del diavolo", o rispetto a oggi, con le polemiche degli odierni cinquantenni (i rockers di ieri) contro i ritmi techno, house o garage che stordirebbero le nuove generazioni.

"Certo. Ma già Aristotele criticò su questo il suo maestro Platone, perché secondo lui una limitazione al solo "guardare" non coglieva la sostanza della tragedia. La tragedia è invece mimesis praxeos, cioè "l'esecuzione coinvolgente in un'azione", una risonanza con qualcosa che l'ascoltatore deve capire in modo quasi tattile".

Nell'Italia dei nostri giorni la riscoperta della parola è testimoniata dal calo degli spettatori televisivi, dall'aumento di quelli radiofonici e del teatro, dal successo dei talk show e di spettacoli come quello di Marco Paolini, con il suo eccezionale monologo sul Vajont.

"Purtroppo non conosco l'Italia di oggi. Ma secondo Aristotele l'artista-oratore nel teatro, nell'insegnamento, e anche in politica, può coinvolgere completamente l'ascoltatore-spettatore soltanto con la mimesis, l'esperienza di una nascita. Solo così può promuovere il pathei mathos, l'"imparare a soffrire" da coloro che hanno vissuto una forma di sofferenza..."

Con il rischio di cadere nella "tv del dolore"...

"... ma sempre Aristotele, nel suo Poetica, sottolinea come la presentazione visiva della sofferenza nel caso migliore può servire come "segno" (semeia), senza produrre grandi effetti sullo stato dello spettatore. Invece l'orazione artistica e la melodia possono modellare il carattere dell'ascoltatore, mettendogli le ali per partecipare fisicamente".

Qual è il tipo di ascolto che lei, fondatore dell'ecologia moderna, considera più "sano"?

"Quello della comunicazione diretta, fra persone che possono guardarsi in faccia. Un dialogo che coinvolge l'orecchio, ma anche la vista: "Ti do me stesso attraverso le pupille dei miei occhi".

Mauro Suttora       

Monday, August 20, 2001

Autocritica dopo il G8 di Genova

I NOGLOBAL NONVIOLENTI: BASTA CORTEI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 20 agosto 2001

I nopglobal perdono i pezzi. Poco a poco ma inesorabilmente, in questi giorni stanno piovendo sui dirigenti del Gsf (Genoa Social Forum) le «disdette» da parte della «maggioranza silenziosa» del movimento. Quelle decine di migliaia di persone, cioè, che avevano accettato di sfilare a Genova anche dopo la morte di Carlo Giuliani e gli incidenti del 20 luglio, nonostante l’evidente e per molti irritante egemonia da parte di Rifondazione comunista (Vittorio Agnoletto) e delle Tute bianche di Luca Casarini.

In un primo momento, sull’onda dell’emozione per il blitz nelle scuole di via Diaz e contro le brutalità nella caserma di Bolzaneto, si era verificato un ricompattamento fra gli «estremisti» dei Centri sociali e Cobas e i «moderati» dell’area ecologista e cristiana. Tutti avevano salomonicamente condannato sia le violenze dei «Black bloc», sia quelle delle forze dell’ordine. 

Era stata accettata la pietosa bugia secondo la quale a lanciare molotov e a spaccare vetrine sarebbero stati soltanto i teppisti delle Tute nere, fingendo di non vedere che il povero Giuliani portava al braccio lo scotch per confezionare bottiglie incendiarie, e che come lui centinaia di ragazzi provenienti dal corteo delle Tute bianche si erano abbandonati al lancio di sassi. 

Aderenti al centro sociale torinese Askatasuna, pur avendo firmato l’impegno alla nonviolenza del Gsf, distribuivano addirittura bastoni da un camion.

Ora, però, bisogna organizzare il futuro di quello che Fausto Bertinotti ha pomposamente battezzato «movimento dei movimenti». Ma le associazioni cattoambientaliste non hanno più voglia di mescolarsi ai violenti, facendosi trascinare in ulteriori scontri di piazza. Svanisce quindi la speranza, da parte dei Centri sociali, di replicare Genova a Napoli il 26 settembre contro il vertice Nato, e il 10 novembre contro il vertice Fao. 

Se ci saranno cortei, vi parteciperanno soltanto le poche decine di migliaia dei soliti antiglobal di sinistra (rifondaroli, Tute bianche, e gli ancora più arrabbiati antimperialisti Cobas e del Network) che dal 1999 danno e pigliano botte in giro per il mondo, da Praga a Göteborg. Insomma, l’eventuale manifestazione di Napoli rischia di essere il replay minoritario dei 25mila menati dalla celere in aprile (sempre nella città partenopea, ma dal governo Amato di sinistra), piuttosto che dei 250mila di Genova.

Il primo a prendere le distanze è stato il presidente delle Acli Luigi Bobba: “E' stata una scelta radicalmente sbagliata volere lo sconfinamento nella "zona rossa"”. Le Acli sono un gigante con 800mila soci, e pur essendo un serbatoio di «compagnons de route» del Pci/Ds (il dirigente aclista Franco Passuello è stato addirittura segretario organizzativo pidiessino sotto Walter Veltroni) non sono disponibili a ridursi a «utili idioti» di Agnoletto.

Poi sono arrivate le critiche della rete Lilliput, che sotto il nome liliale nasconde una realtà poderosa: dal Wwf a Pax Christi, dai verdi agli scout, dai missionari di Mani tese ai pacifisti, dalla Campagna Sdebitarsi fino alle centinaia di negozi della catena del «commercio equo e solidale». Sono loro la vera spina dorsale dei noglobal, grazie alla loro attività quotidiana che, per dirla con Michele Serra, privilegia “gli scontrini agli scontri”.

Lilliput non solo si tira fuori, ma decreta il de profundis per Agnoletto & compagnia: “Il Gsf ha completato il suo mandato politico, e quindi il suo compito: la sua esistenza era e rimane finalizzata all’appuntamento dei G8, non oltre. Ci sembra negativa e impraticabile una prospettiva futura centrata sull’espressione di sé stessi solo attraverso l’organizzazione di “controvertici”. Inoltre, ad ogni eventuale futura mobilitazione dovrà accompagnarsi una più approfondita discussione rispetto alle forme che essa dovrà prendere. Questo costituirà una discriminante per ogni nostra futura partecipazione».

Abortisce così il tentativo in corso, da parte di Rifondazione e Centri sociali, di prolungare e moltiplicare il Genoa Social Forum in tanti Social Forum locali incaricati di far alzare la temperatura dell’autunno caldo. La rete Lillliput preferisce invece alla piazza il lavoro day by day, tutto riformista e lontano da proclami rivoluzionari: «L’obiettivo “un altro mondo è possibile” comporta non solo contestazione, ma anche capacità di proporre alternative e di ottenere risultati concreti».

Spiega Pasquale Pugliese, dirigente Lilliput: «Le "dichiarazioni di guerra" dei portavoce delle tute bianche che sono farneticanti. All'ultimo minuto si sono dichiarati pacifisti, ma qualcuno a vent’anni li ha presi sul serio: attenzione, si porta la responsabilità delle conseguenze delle proprie parole. C’è stata poi l'illusione, da parte del Gsf, di poter tenere insieme, ma separate e distinte in poco spazio, tutte le forme di protesta, dalla preghiera all'assalto alla zona rossa, dalle azioni dirette nonviolente ai vandalismi annunciati. Ma questo ha favorito l'emergere e l'imporsi, da tutte e due le parti della barricata, di coloro che sguazzano nel torbido e danno sfogo, in queste occasioni dove si possono confondere nella massa, alla violenza più brutale di cui sono capaci. E nessuna azione sembra essere stata prevista per neutralizzarli».

E per settembre? «Dobbiamo abbandonare la rincorsa ai vertici del potere e uscire dalla logica della uguaglianza nella diversità, e della contemporaneità, delle forme di lotta, adottata a Genova: le forme che non sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione e nell'immagine, fanno il gioco del potere. Non bisogna manifestare dove manifestano compagni di strada che non condividono le nostre forme di lotta».
Puntualizza Nanni Salio, docente universitario torinese, una delle menti più fini degli antiglobal lillipuziani: «Non si scherza e non si gioca con la violenza, neppure in forma verbale o "virtuale" come sarebbe, secondo Luigi Manconi, quella delle Tute bianche. "Le parole sono pietre", sosteneva Carlo Levi. La posta in gioco è troppo alta per illudersi che sia possibile affrontare la globalizzazione con vecchie formule politiche e di lotta. Occorre cambiare rotta, modificare il nostro stile di vita sia individuale sia collettivo per renderlo autenticamente equo e sostenibile. L'american way of life e il modello di economia ad essa sotteso sono largamente condivisi da ampi settori dell'opinione pubblica nei paesi ricchi, dalle élites in quelli poveri e, contraddittoriamente, perfino dallo stile di vita reale di molti degli stessi oppositori».

Cambiare se stessi, quindi. Ma la politica? «La rabbia, contrariamente a quanto sostengono alcuni agitatori politici, è segno di debolezza, impotenza, ribellismo sterile, e conduce facilmente all'insuccesso. Gli scontri avvenuti a Genova erano abbastanza prevedibili, alimentati da media che hanno irresponsabilmente enfatizzato proclami violenti, portando alla ribalta personaggi che ben poco avevano da dire. Con queste premesse, la scelta di indire una grande manifestazione, condotta secondo schemi tradizionali, è stata alquanto infelice».

«Vorrei piuttosto ricordare», continua il professor Salio, «l'episodio, segnalato solo da alcuni giornali, del poliziotto che ha ringraziato pubblicamente quel gruppo di una quindicina di giovani che lo hanno difeso da un assalto delle Tute nere, inginocchiandosi e coprendolo con i loro corpi. E' un esempio di nonviolenza attiva, del forte, del coraggioso, che avrebbe dovuto essere praticata da migliaia di persone per impedire le scorribande dei provocatori. La violenza, infatti, innesca una spirale perversa. L'abbiamo visto troppe volte, in ogni latitudine e nelle situazioni piu' disparate. La via maestra per spezzare questo circolo vizioso e' la nonviolenza attiva. In questi giorni abbiamo sentito troppe volte usare a sproposito la parola “nonviolenza” che, come tante altre, rischia di subire un degrado. Non bastano i proclami generici e gli slogan. Come ci insegna Aldo Capitini, siamo consapevoli del lungo cammino da compiere sul piano individuale e su quello politico. Ma non partiamo da zero».

Aggiunge Enrico Euli, il “trainer” sardo che ha organizzato le proteste di Lilliput a Genova: «Ho assistito con speranza allo sviluppo di tattiche creative e meno violente rispetto alle origini, da parte dei Centri sociali di cui Luca Casarini appare come portavoce. Sono fiducioso sul fatto che la riflessione tra le Tute bianche ci sarà e che la scelta fatta nel recente passato non sarà rinnegata, ma sono preoccupato da alcuni atteggiamenti che proseguono sui media in questi giorni. Temo una loro regressione verso il circuito perverso che mostrifica, crea capri espiatori, utilizza la violenza degli altri per giustificare la propria. Sarebbe un passaggio involutivo gravissimo che provocherebbe la crisi prematura e forse letale del movimento. E poi, non si possono mitizzare i caduti solo perché sono stati uccisi dal nostro avversario: se ci dissociamo dalle loro azioni in vita, dobbiamo farlo anche in morte. Il che non significa che non piangiamo e che non ci arrabbiamo per la vita spezzata di Carlo Giuliani».

L’ultimo colpo alle Tute bianche arriva da Gino Barsela, direttore del mensile Nigrizia (quello del missionario Alex Zanotelli), che nel numero di settembre scrive: «Il movimento antiglobal è composto da tante "anime" che sanno dialogare con la società quando si tratta di battersi giorno dopo giorno, su obiettivi specifici: una denuncia, un boicottaggio, una campagna di pressione. Questa eterogeneità – che è una ricchezza e un punto di forza - genera però debolezza nelle strategie e cortocircuiti di significato quando si sceglie la manifestazione di massa in piazza, dove l'espressione del dissenso si carica di valenze simboliche e politiche più difficili da orientare. A Genova ciascun'anima ha immaginato la manifestazione a modo suo, ma alla fine si sono imposti i comportamenti di una minoranza senza immaginazione. Il movimento, prima di confrontarsi di nuovo con la piazza, dovrà fare un bel po' di strada, maturare, acquisire maggiore coesione. Non potremo mai più stare nelle stesse piazze dove si esprime l'idiozia teppistica dei Black bloc. Né potremo più permetterci di essere tacciati di connivenza con i violenti. Di sicuro alcuni degli associati al Genoa Social Forum non hanno riflettuto abbastanza sulla disobbedienza civile nonviolenta».
Mauro Suttora