Saturday, February 08, 1997

Hollywood a Milano

Cinema e computer: la rivoluzione digitale sbarca in Italia

CHIP, SI GIRA

Il film Nirvana di Gabriele Salvatores apre il nuovo filone. E alcune società milanesi scoprono il business degli effetti speciali, dando vita a una Hollywood sui Navigli

di Mauro Suttora
Il Mondo, 8 febbraio 1997

Passera' alla storia indipendentemente dai successi di critica e di incasso Nirvana, il nuovo film del regista Gabriele Salvatores (premio Oscar 1992 per Mediterraneo) uscito nelle sale venerdi' 24 gennaio. E' infatti la prima pellicola italiana che fa un massiccio uso di effetti speciali. E non quelli tradizionali, del genere mostri, pupazzi o sangue finto. Qui gli interventi sono elettronici, o piu' precisamente digitali, proprio come nelle megaproduzioni tecnologicamente piu' avanzate di Hollywood, da Forrest Gump a Jurassic Park

La neve, per esempio, e' tutta finta. Addio macchine che sputavano fiocchi bianchi nascoste sopra la cinepresa: adesso la neve si inserisce direttamente sulla pellicola con il computer. Ma c'e' di piu'. All'inizio Salvatores voleva girare un film itinerante, ed era gia' andato in Marocco e in India per individuare le location. Poi, anche per problemi di budget, ha deciso di concentrare tutte le riprese nella fabbrica abbandonata dell'Alfa Romeo al Portello di Milano. Ma non per questo mancano le scene ambientate a Marrakech o a Bombay: la realta' virtuale, infatti, aiuta a spostare anche i set dei film. 

Salvatores e' entusiasta: "Questo e' il mio primo lavoro subliminale, psichedelico, in cui vengono fuori i miei sogni e i miei riferimenti, da Jerry Garcia a Timothy Leary", dice. "Grazie al computer invento ogni trucco, creo paesaggi, pianto un cristallo nella fronte di un'attrice, aggiungo o tolgo un personaggio. La possibilita' di scegliere direttamente su video i ciac e di controllare subito gli effetti mi ha permesso liberta' espressiva e un gran risparmio di tempo e denaro".

Milano come Hollywood. 
Ma cosa c'e' dietro allo sforzo culminato con Nirvana? Davvero si puo' ormai parlare di "Hollywood sui Navigli", visto che tutti gli effetti digitali del film sono stati creati a Milano? A che punto e' lo stato dell'arte tecnologico ed economico in questo campo? 

"Quello di cui pochi si sono accorti", spiega Franco Gaieni, amministratore delegato della societa' di effetti digitali milanese Chinatown, "e' che proprio negli ultimi mesi sono arrivate in Italia delle nuove macchine che ci hanno permesso di colmare il gap con Londra e gli Stati Uniti. Ormai siamo allineati al meglio che c'e' nel mondo".

 Prodotti leader sono le piattaforme Onyx della Silicon graphics e i vari software Inferno, Flame, Flint o Fire della canadese Discreet Logic, che crea programmi in esclusiva per la Silicon graphics. Inoltre, e' presente sul mercato italiano la societa' inglese Quantel che vende prodotti proprietari che integrano hardware e software. Risultato? "Fino a qualche anno fa le agenzie pubblicitarie italiane andavano a produrre all'estero il 40 % dei loro spot, adesso la percentuale e' scesa al dieci", dice Stefano Raina, direttore della Digitalvideo di Milano.

 Il ritmo del progresso tecnologico e' impressionante. Ancora nel giugno scorso Salvatores ha dovuto spedire a Londra la sua pellicola per prepararla al trattamento elettronico. Ma adesso anche a Roma, negli studi di Cinecitta', e' arrivato lo scanner Cineon Kodak che archivia in forma digitale su supporto magnetico Dlt (Digital linear tape) il negativo originale della pellicola in 35 millimetri: grazie a questo processo la qualita' del film viene interamente preservata. 

Il costo degli investimenti tecnologici e' notevole: basti dire che un'altra delle maggiori societa' milanesi, la Interactive, che ha fatto camminare in cielo Zucchero nel video della sua ultima canzone Menta e rosmarino, e che ha assistito Roman Polanski nel filmato su Vasco Rossi, ha dovuto sborsare piu' di quattro miliardi per assicurarsi, unica in Italia, i sistemi Domino e Inferno. 

Pochi studi specializzati. 
E' difficile stimare il valore del mercato degli effetti speciali oggi in Italia: quello della produzione di spot pubblicitari si aggira intorno ai 250 miliardi annui, e all'interno di questa cifra la "post - produzione" (ovvero tutto cio' che avviene dopo che la scena e' stata girata, dal montaggio all'inserimento del suono, fino alle sigle) assorbe il 20 - 25%. Una sessantina di miliardi, quindi, che coprono anche i costi degli effetti digitali. 

Gli studi specializzati si contano sulle dita di una mano (a Milano, oltre a quelli citati, ci sono anche 2 Kappa, Media Cube e Imaginaction, mentre a Roma operano Eta Beta, Sbp, Frame by Frame e Sergio Stivaletti), e la loro dimensione medio - piccola rende assai onerosi gli investimenti.

 "Come ogni cosa nel mondo dei computer", spiega Stefano Marinoni di Digitalia, la societa' milanese che ha realizzato gli effetti speciali del film di Salvatores, "anche le nostre macchine hanno tempi di obsolescenza rapidissimi: dopo un anno e mezzo, al massimo due anni, sono gia' vecchie, superate da altre novita'. Ma la legge italiana prevede tempi di ammortamento di tre anni, e per noi questo e' assurdo: una sola piattaforma Onyx della Silicon graphics, infatti, costa mezzo miliardo".

 Leader del mercato hardware e' la Silicon graphics: l'anno scorso, dopo la fusione con Cray research, la multinazionale californiana con sede a Mountain View ha toccato i cinquemila miliardi di fatturato in lire, con utili per 180 miliardi. Da dieci anni opera anche una filiale italiana con sede a Rozzano (Milano) e 75 dipendenti: nel 1996 ha fatturato una sessantina di miliardi, con un balzo del 70 % rispetto all'anno precedente. 

"Il grande pubblico associa il nostro nome agli effetti speciali di Hollywood", dice il direttore marketing Paolo Vitali, "ma in realta' le macchine per video e film rappresentano solo il 15 per cento del nostro giro d'affari, anche se questo e' un segmento che controlliamo quasi totalmente". Il vero business, per la Silicon, e' quello del Caid (Computer aided industrial design): dal Centro ricerche Fiat all'Agip, a Benetton, non c'e' ormai visual designer che possa fare a meno delle proiezioni bi e tridimensionali dei computer Silicon o dei suoi concorrenti Sun e Hewlett Packard. "Il mercato dell'entertainment invece in Italia e' estremamente ridotto e verticale", nota sconsolato Vitali. 

Tutti i professionisti del settore fanno spot e documentari industriali per guadagnare, ma sognano il cinema. Pero', fino a quando in Italia si produrranno soltanto poche decine di film all'anno (70 nel 1995, 90 l'anno scorso), e' difficile pensare a sbocchi significativi per gli effetti digitali sul grande schermo. 

Know how senza industria. 
Fra l'altro, c'e' un problema di costi: un solo spot pubblicitario di trenta secondi ha spesso a disposizione un budget da un miliardo, cioe' la meta' del costo medio di un intero film italiano lungo un'ora e mezzo. Insomma, esistono in Italia attrezzature paragonabili a quelle di Hollywood; gli operatori, siano italiani che si sono specializzati a Londra, New York e Los Angeles, o tecnici anglosassoni che si sono stabiliti a Milano, garantiscono lo stesso livello di professionalita' dei "maghi" americani; non mancano giovani registi in gamba e i costi sono competitivi. 

Peccato che, per i film, manchi tutto il resto. Cioe' un'industria del cinema nazionale cosi' com'e' esistita fino a vent'anni fa, che grazie al numero dei film girati garantisca la massa critica necessaria al ritorno degli investimenti. Finche' non rinascera', le meraviglie digitali si troveranno solo negli spot. Oppure nei film made in Hollywood.
Mauro Suttora 

Saturday, November 16, 1996

Spot delle calze Sanpellegrino

Spot bocciati. Ma la polemica fa vendere

Per il giurì il carosello con Banderas denigra i rivali. Ma per l'azienda è pubblicità gratuita. E il fatturato...

di Mauro Suttora

Il Mondo, 16 novembre 1996

Tutta pubblicità!" Ostentano tranquillità nella sede di Ceresara, in provincia di Mantova, i dirigenti della Csp (Calze San Pellegrino) international. Il loro spot con Antonio Banderas e Valeria Mazza è stato censurato giovedi' 31 ottobre dal giuri' di autodisciplina pubblicitaria con l'accusa di essere "ingannevole" perche' mostra un collant che non si rompe neanche rimanendo impigliato a un gemello, e "denigratorio" perche' offenderebbe le altre calze vantando la resistenza delle Sanpellegrino.

Lo spot, almeno nella versione italiana, verrà ritoccato e rimesso nel circuito ma senza drammatizzare. In fondo anche una bocciatura può diventare un'opportunita'. La polemica si trasforma in pubblicita' gratuita per una industria che cresce a ritmo elevato senza problemi di recessione: terza in Italia dopo Golden lady e Filodoro, settima in Europa, decima nel mondo, ha fatturato 111 miliardi nel 1993, 130 l'anno dopo, 191 nel 1995 e ne prevede per questo bilancio 215. Quanto all'utile, e' schizzato dal mezzo miliardo di tre anni fa agli 11 miliardi del 1995. "Non posso rivelare il costo dello spot, che comunque abbiamo pagato un occhio della testa visto che era diretto da Giuseppe Tornatore, prodotto da Gianni Nunnari e Quentin Tarantino con la musica di Ennio Morricone e la fotografia di Tonino Delli Colli", dichiara Gianfranco Bossi, 53 anni, da sei direttore della Csp dopo esperienze in Henkel, Beyersdorf e Mondadori.

Socio svizzero.
La Csp, come le altre grandi aziende della calza italiana, quasi tutte concentrate nel triangolo mantovano, investe in pubblicita' il 10 % del fatturato: una ventina di miliardi, quindi, quest'anno. Lo stesso spot viene trasmesso in alcuni dei 40 paesi dove l'azienda mantovana esporta i suoi tre marchi: Sanpellegrino (fascia media), Oroblu (fascia alta) e New opportunity (discount ed est europeo). Il carosello incriminato Banderas - Mazza, che in Italia va in onda dal primo ottobre, aveva gia' debuttato un mese prima in Russia, dove Csp nel giro di tre anni ha conquistato la leadership di mercato con vendite per 20 miliardi di lire: ogni settimana partono da Ceresara per Mosca due tir con 200 mila paia di calze.

Fondata nel 1972 dai fratelli Enzo e Francesco Bertoni, rispettivamente presidente e amministratore delegato, la Csp l'anno scorso ha accolto come socio di minoranza l'Ubs, Unione di banche svizzere, che e' subentrata agli altri due fondatori decisi a disimpegnarsi. Il boom dell'azienda ha tre ragioni: l'export, il marketing e l'innovazione. Negli anni Novanta la quota di esportazione e' cresciuta dal 15 al 45 % e c'e' ancora spazio per migliorare: l'export nazionale di calze e collant e' del 64 % . Tanto più che lo sbocco estero e' una necessita' visto il ristagno del mercato nazionale.

"La causa, in Italia come nel resto del mondo e' della lycra", spiega Bossi, "il materiale che ha fatto aumentare di un terzo la durata di calze e collant e quindi diminuire di una percentuale corrispondente le vendite". Per stimolare i consumi, allora, la Csp ha spinto al massimo il marketing. L'anno scorso ha lanciato i collant Shock up, ovvero la "calza che alza", provvista di una banda avvolgente per sollevare i glutei. Successo immediato: 30 miliardi di vendite (il prezzo di fabbrica rappresenta il 50 % di quello finale). Quest'anno la replica. "Poiche' nella classifica dei problemi delle donne la cellulite e' al terzo posto dopo i rapporti familiari e i soldi", dice Bossi, "abbiamo inventato le calze Excell oroblu con lo slogan cellulite ko".

Meglio Mantova del Far east.
La via dell'innovazione paga: oggi Csp realizza piu' della meta' del fatturato con prodotti nati negli ultimi tre anni. Nei due nuovi stabilimenti di Ceresara e della vicina Rivarolo i 650 dipendenti diretti, per due terzi donne, confezionano ogni anno 70 milioni di paia di calze. Anzi, di collant, che ormai coprono il 90 % del mercato, per il resto composto da calze classiche da giarrettiera, autoreggenti e gambaletti. Il tasso di automazione e' elevato. Il costo del lavoro rappresenta soltanto il 25 % del prezzo finale, contro il 50 % degli altri capi di abbigliamento, e questo è il motivo per cui la produzione non e' emigrata nel sud-est asiatico. Un panel di 60 dipendenti riceve ogni lunedì un paio di nuove calze, le usa, le lava e il venerdi' compila una scheda col giudizio. Per la distribuzione Csp dispone di 80 agenti in Italia pagati a provvigione e di 40 distributori per l'estero. "Avevamo filiali a Parigi, Londra e Bruxelles ma le abbiamo chiuse: i costi erano eccessivi", spiega Bossi. Solo il 5 % della produzione va alle private label, ma almeno una di queste e' prestigiosa: l'azienda mantovana e' fra i pochi fornitori non britannici della catena Marks & Spencer.

Saturday, June 04, 1994

eurodeputati, affare miliardario



LA DOLCE VITA DEGLI EUROPRIVILEGIATI

"Non contiamo niente. Ma che stipendi, ragazzi"

di Mauro Suttora

Europeo, 1 giugno 1994

La sua sigla è MEP V-I. Significa Membro del Parlamento europeo, verde, italiano. Si chiama Virginio Bettini, è nato a Nova Milanese (Milano) 51 anni fa, è docente universitario a Venezia, è stato eletto a Strasburgo nel 1989. Detiene il record di presenze all'Europarlamento: 68 sedute su 68 quest'anno, en plein anche l'anno scorso (60 su 60). Mai una malattia, mai una distrazione. Abbiamo quindi passato una giornata assieme a lui per capire com'è il lavoro di un eurodeputato.

«Bettini sempre presente? La politica non si fa con il sedere»: riferiamo all'interessato questa velenosa battuta rifilatagli da un collega. Lui non si scompone: «Ma io non mi limito affatto a stare seduto e a riscaldare la sedia come fa la maggioranza degli italiani quando è presente. In questi cinque anni ho presentato sei rapporti, e ne avrei fatti altri due se i socialisti non me lo avessero impedito».

Cosa sono i "rapporti", onorevole Bettini? «Sono le relazioni che si preparano prima di discutere in aula un determinato argomento. Bisogna seguirle dall'inizio alla fine, anche nelle varie commissioni parlamentari, e soprattutto difenderle nei confronti del governo comunitario, cioè la Commissione, e del Consiglio, cioè in ministri dei 12 Paesi membri. Un lavoraccio che dura mesi, a volte anni. Tant'è vero che ogni deputato in una legislatura in media ne fa due o tre».

L'onore - e l'onere di preparare un rapporto viene assegnato in proporzione alla consistenza numerica di ciascun gruppo politico. I verdi sono pochi, 30 su 518, quindi si dovevano mettere d'accordo con gli altri partiti della sinistra (i 180 socialisti, soprattutto) per ottenerli. Bettini, da buon ecologista, si è accaparrato quelli sulla conversione a produzioni civili dell'industria bellica e sulle energie pulite (sole, vento, biomasse).

Poi però sono entrato in rotta di collisione con alcuni socialisti, per i quali la "conversione" delle fabbriche d'armi si sarebbe dovuta risolvere semplicemente dando ad esse più quattrini», racconta Bettini, «e così nel '94 la mia commissione, sulle politiche regionali e la pianificazione, importante perché distribuisce molti finanziamenti, ha assegnato nove rapporti ma nessuno ai verdi».

A Strasburgo Bettini ha una stanza all'hotel Terminus, di fronte alla stazione. «Non è caro per i prezzi di qui: 500 franchi francesi a notte, 140 mila lire. Ci sto una settimana al mese. Il calendario delle sessioni viene fissato all'inizio di ogni anno: sono un prenotato fisso».

I soldi. Ne parliamo subito, Bettini? Come mai voi verdi, così attenti agli sprechi, non alzate la voce contro gli stipendi scandalosamente alti degli eurodeputati?
«Attenzione, non voglio difendere nessuno, ma lo scandalo nasce a Roma. Per legge, infatti, le nostre indennità sono agganciate a quelle dei Parlamenti nazionali. Gli inglesi, per esempio, prendono meno della metà di noi. Spagnoli e greci un terzo, un quarto».

C'E' CHI FA ASSUMERE LA MOGLIE O I FIGLI

Sì, ma metà dei 45 milioni al mese che guadagnate ve li dà l'Europa, e con scarsi controlli. «È vero. Qualche collega, specie i democristiani, si è preso come "assistente" parenti, figli, mogli, lasciandoli poi in eredità al Parlamento dopo averli fatti assumere come funzionari. Però anche qui, attenti: chi fa l'eurodeputato a tempo pieno, e quindi sta tre settimane al mese a Bruxelles e una a Strasburgo, spende parecchio».

Bettini è un eurodeputato atipico. Dal suo albergo al Parlamento sono vari chilometri, bisogna attraversare tutta Strasburgo. Lui usa la bici. La mette nel parcheggio sotterraneo, vicino alle Mercedes degli eurodeputati tedeschi. Per tutti gli eletti sono comunque sempre a disposizione le auto del Parlamento: li scarrozzano gratis all'aeroporto, a pranzo, dall'amante. Una ventina di autisti in divisa, aspettando di essere chiamati, ammazza il tempo guardando la tv in una saletta al piano terra.

Un altro benefit sono gli sconti di Air France e della belga Sabena: anche sugli aerei Parigi e Bruxelles si fanno concorrenza, sperando di vincere l'eterna battaglia sulla sede del parlamento. Finora ha prevalso la follia: due sedi lussuosissime, una nella francese Strasburgo, l'altra nella capitale belga. Più una terza (per gli uffici permanenti di migliaia di funzionari e traduttori) a metà strada, a Lussemburgo.

Per non scontentare nessuno, due giorni al mese di seduta plenaria sono stati trasferiti a Bruxelles, dove si riuniscono anche le commissioni (due settimane al mese) e i gruppi parlamentari (una settimana mensile, tranne il prossimo luglio quando si distribuiranno tutti gli incarichi del nuovo Parlamento).

La giornata dell'eurodeputato inizia prestissimo. Alle otto si riuniscono i vari gruppi, che mettono a punto la strategia per la seduta in aula, dove i lavori iniziano alle nove. Per risultare presenti basta firmare un foglio all'entrata dell'aula. Di lunedì la seduta dura fino a mezzanotte. «Così qualcuno arriva verso le undici di sera, firma, va a dormire e si è guadagnato il gettone di presenza da 400 mila lire», commenta perfido Bettini.

In aula cominciano i dolori. Perché a Strasburgo non c'è un Parlamento: c'è una catena di montaggio. Ogni deputato può parlare al massimo un minuto e mezzo, poi si passa al voto. Se ha già parlato uno del proprio partito, si ha diritto a 45 secondi. Dietro al banco della presidenza c'è un enorme tabellone elettronico rosso che fa il conto alla rovescia in secondi al malcapitato che osa prendere la parola.

Di solito sono i greci a sforare. Continuano a parlare, gesticolando e sudando, per due o tre minuti anche dopo che è stato levato loro l'audio, per cui nessuno li può sentire né dal vivo né in cuffia. Incredibile, per i disciplinati deputati tedeschi. I quali hanno proposto di installare una sirena tipo Corrida per zittire i logorroici.

Ai numerosi visitatori dell'Europarlamento (ogni deputato può invitare a spese dell'Europa una ventina di persone l'anno, molti optano per le scolaresche) l'attività in aula, così frenetica, risulta incomprensibile. Gli stessi deputati, che non riescono a passare ogni mezz'ora dalla politica vitivinicola alla Macedonia, per poi planare sulle diagnosi prenatali e i trasporti della Vallonia, votano mansueti seguendo alla cieca la mano alzata del proprio capogruppo.

E IN  OGNI UFFICIO C'È il PIED-A-TERRE...

Pausa di pranzo: Bettini torna nel suo ufficietto moquettato di quattro metri per cinque con bagno e letto (tutti gli eurodeputati ne hanno uno), si cambia, mette la tuta e va a fare jogging. Quando piove scende in sauna (sconti anche lì, ma fra qualche mese, quando la Finlandia entrerà in Europa, diventerà sovraffollata). Il palazzo offre anche due self-service e un ristorante (quest'ultimo riservato agli eletti e ai loro ospiti).

Dalle 15 alle 19 (spesso anche dalle 21 alle 24) di nuovo votazioni in aula. Bettini fa anche parte dell'intergruppo animali, che riunisce tutti gli eurodeputati animalisti. È l'unica commissione alla quale gli inglesi partecipano con impegno, si riunisce una volta al mese per due-tre ore. Uno dei più assidui è un lepenista francese. Su un banco sonnecchia uno spagnolo: «È lì solo per controllare che non si vietino le corride», sorride Bettini.

Al venerdì tutti partono. Pochi per Bruxelles, dove bisognerebbe continuare a lavorare. Molti eletti italiani prendono l'aereo per Roma o Milano. E nessuno li rivede più fino al mese dopo. Riescono così a guadagnare 10 milioni al giorno.
Mauro Suttora

Friday, April 29, 1994

Nasce il tribunale Onu

CRIMINALI DI GUERRA, ARRENDETEVI
COME NASCE ALL’AIA IL TRIBUNALE ONU

dal nostro inviato in Olanda
Mauro Suttora

SOMMARIO: Undici giudici internazionali, guidati da un italiano, processeranno gli assassini dell’ex Jugoslavia. Se funzionerà, la corte diventerà permanente.

L’EUROPEO, 13-20 Aprile 1994

Sopra c’è Dio, che è il giudice universale. Ma subito sotto c’è lui Antonio Cassese, 57 anni fratello del ministro Sabino, docente di Diritto Internazionale all’istituto universitario di Fiesole (Firenze). E’ toccato a un italiano, infatti, il prestigioso compito di dirigere il Tribunale internazionale dell’Onu che giudicherà i criminali di guerra dell’ex Jugoslavia.

Il professor Cassese è una specie di frate trappista, schivo, riservato: a pranzo mangia in mensa, di sera cena con le due banane che si è portato in albergo dalla mensa. E’ imbarazzato perchè il suo ufficio di presidente del Tribunale, all’Aia, gli sembra troppo grande: »Che bisogno c’era di tanto spazio? Con tutti quelli che accusano l’Onu di sprechi, meglio non largheggiare…»

Inorridirà quindi il professor Cassese, uomo di squisita modestia nonostante (o forse grazie a) i suoi insegnamenti a Cambridge a Oxford, al College de France, all’Accademia dell’Aja e all’Istituto di alti studi internazionali di Ginevra, di fronte all’ardito paragone con il Creatore.

Fatto sta che, per la prima volta nella storia, l’umanità si sta dando un sistema giudiziario accettato da tutti per colpire i crimini di guerra. E che il Tribunale di Cassese si occuperà di Jugoslavia, ma può essere in »nuce una Corte Permanente per giudicare tutti i responsabili dei conflitti che insanguinano il pianeta. Niente a che fare, insomma, con il processo di Norimberga, che fu celebrato dai vincitori contro i vinti. La Corte dell’Onu è quanto di più vicino ci sia al sogno che fece duecento anni fa Emanuel Kant, quando immaginò gli strumenti per arrivare alla »Pace perpetua .

Ma, al di là delle speranze e delle dichiarazioni roboanti, come funzionerà in concreto questo tribunale ?

Per la bisogna, l’Onu ha affittato all’Aja il palazzo delle assicurazioni Aegon, in Piazza Churchill. A poche centianaia di metri c’è un’altro edificio caro a tutti i pacifisti: quello della Corte Internazionale di Giustizia, donato al mondo dal miliardario americano Andrew Carnagie. Ma quella serve per gli arbitrati volontari fra nazioni, non per mandare in galera governanti assassini e aguzzini sanguinari.

Al piano terra del Tribunale ci sono le guardie delle Nazioni Unite. Fra queste, due italiani fatti venire apposta dal Palazzo di vetro di New York. Gli uffici degli undici giudici sono al primo piano. E al primo piano verrà ricavata anche l’aula per i processi: ci sono ancora dei lavori da fare, per ragioni di sicurezza il pubblico sarà separato da un vetro antiproiettile da giudici, imputati e avvocati. Sempre per ragioni di sicurezza, Cassese, che sta cercando casa all’Aja ( i giudici sono stati eletti con un mandato di quattro anni rinnovabili per altri quattro) ha dovuto rinunciare ad una villetta: la polizia olandese gli ha imposto di trovare un appartamento ad un piano alto.

Dalla nascita del tribunale, quattro mesi fa, i giudici hanno lavorato senza sosta per mettere a punto il codice di procedura. Non è stato facile armonizzare i due principali sistemi in uso nel mondo, quello inglese di tipo accusatorio e il latino, con i suoi riti inquisitori.

»Non ci saranno procedimenti in contumacia, anche se io personalmente sarei stato favorevole , annuncia Cassese. E non è prevista neanche la pena di morte per i reati più gravi: ci si fermerà all’ergastolo. Funzioneranno due Corti di primo grado con tre giudici ciascuno (presiedute da una americana e da un nigeriano), mentre Cassese guiderà la Corte di appello con cinque giudici.

Ma quando inizieranno i primi processi? E soprattutto: chi saranno gli imputati? »Spero di cominciare entro luglio dice Cassese, il sindaco di Sarajevo ha detto »che ogni giorno è prezioso per mostrare che una giustizia internazionale punisce i criminali . Quanto agli imputati, individuarli non sarà un problema: il Tribunale verrà sommerso dalle testimonianze delle vittime, in gran parte profughi in Europa occidentale.

Milosevic e Karadzic finiranno sotto accusa?

Certo, sarà difficile veder finire sotto accusa Slobodan Milosevic, presidente della Serbia, o Radovad Karadzic capo dei serbo-bosniaci: il Tribunale si trasformerebbe in una corte di tipo politico. Questo è esattamente ciò che non vogliono Paesi dalla coscienza sporca come Birmania o Cina, i cui dittatori temono di finire un giorno di fronte a un tribunale internazionale e che quindi si appellano in continuazione alla »non intromissione negli affari interni di uno Stato membro dell’Onu . Il Tribunale dipenderà quindi dalla disponibilità della Serbia ad estradare i suoi criminali di guerra ormai tristemente famosi in tutto il mondo come il comandante Arkan, il capo ultranazionalista Vojslav Seseli, o anche Jovanka »la jena , famigerata responsabile di stupri di ruppo. Ma anche in altri Paesi le prigioni si vanno riempiendo di pesci piccoli e medi. In febbraio in Germania è stato per esempio arrestato il serbo-bosniaco Dusan Tadic, 38 anni, con l’accusa di aver compiuto sevizie atroci nel lager di Omarska. Lo inchiodano le testimonianze di 145 profughi ospiti nel campo tedesco di assistenza di Tralskirchen.

Il Tribunale dell’Onu avocherà a se tutti i processi per fatti commessi nella ex Jugoslavia dopo il gennaio ‘91. Naturalmente chi è già stato processato non lo sarà una seconda volta. La publlica accusa, nel palazzo dell’Aja, sarà tenuta completamente separata dai giudici. Anche fisicamente i suoi uffici saranno al secondo piano. Il pubblico ministero nominato dal segretario generale Boutros Ghali si è però dimesso, perhcè in febbraio è diventato ministro dell’Interno del suo Paese, il Venezuela. L’accusa, come in America, sarà tenuta allo stesso livello della difesa, e potrà contare su un centinaio di investigatori.

In una prigione dell’Aja, intanto, sono state già preparate numerose celle da sette metri quadri ciascuna per ospitare gli imputati. Altre celle verranno ricavate nel sotterraneo del Tribunale per le pause del processo. L’Olanda si sobbarcherà i costi del trasporto dei prigionieri. Quanto alle trenta guardie penitenziarie previste, costeranno un miliardo e mezzo di lire all’anno. I costi: ecco il punto dolente del Tribunale. Boutros Ghali aveva chiesto all’Assemblea dell’Onu 32 milioni di dollari per un anno. Li sta ottenendo a fatica, ma per due anni. Ciascun Paese, inoltre, può finanziare autonomamente il Tribunale. L’Italia si è comportata bene: nella Finanziaria ‘94 ha stanziato tre miliardi di lire.

»Avremo addosso gli occhi di tutto il mondo»

E una volta condannati, dove sconteranno la loro pena i criminali di guerra? Nei Paesi dell’Onu che metteranno a disposizione le proprie prigioni. »Ma sarebbe meglio che i detenuti stessero per quanto possibile vicini ai loro familiari , dice Cassese, »perchè l’impossibilità di ricevere visite rappresenta una forma di pena supplementare, quasi una tortura… .

E quì si riconosce il giurista che nel ‘79 fu nominato dall’Italia suo rappresentante nel Comitato per i diritti umani, e che negli ultimi quattro anni aveva presieduto il Comitato per la prevenzione e la tortura del Consiglio europeo. »Io personalmente sono contrario anche all’ergastolo, perchè scopo della pena è la rieducazione , dice Cassese. »In ogni caso, è importante che riusciamo a fare giustizia in modo sereno e imparziale, perchè avremo addosso gli occhi di tutto il mondo .

Durante il processo sono previste pene pecuniarie o detentive per due reati: falsa testimonianza e oltraggio alla Corte. Dopo i giudici del Tribunale potrebbero fare anche i magistrati di sorveglianza, seguendo la detenzione dei condannati. Sono previsti perfino gli arresti domiciliari per buona condotta e la grazia.

Insomma, sta nascendo un vero e proprio diritto penitenziario internazionale e molte università del mondo sono in fermento per le novità teoriche e pratiche introdotte dal Tribunale Onu.

C’è da scommettere però, che le varie parti in causa (serbi, croati, bosniaci) cercheranno di strumentalizzare il processo, in cerca di propaganda. »Ma noi perseguiremo singoli individui per gli atti che hanno commesso precisa Cassese, »e questo servirà anche per non colpevolizzare interi gruppi etnici . Pagheranno solo gli esecutori o anche i mandanti? »Il procuratore può mettere sotto accusa anche i dirigenti politico-militari .

E se uno Stato si rifiuterà di consegnare gli incriminati? »Il Tribunale ha il potere di pronunciare ordinanze di arresto o comparizione direttamente vincolanti, e il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrà adottare sanzioni contro i governi che si rifiutassero di cooperare , spiega Cassese. E’ previsto proprio tutto. Ma la battaglia sarà egualmente dura. Perchè applicare la legge a una guerra è difficile. »Ma dobbiamo farlo , conclude Cassese, »sia come deterrente per altri crimini sia perchè abbiamo il dovere di reagire sempre contro le atrocità e i massacri.

Mauro Suttora



CHI SONO I GIUDICI DEL TRIBUNALE DELL'ONU PER LA EX JUGOSLAVIA

L'Europeo - 20 aprile 1994

Odio Benito e gli altri giudici

(2) - La vicepresidente, Elizabeth ODIO BENITO, è ministro della Giustizia nel suo Paese, il Costarica, e docente universitario di Legge. Rappresenta l’America latina nel Fondo Onu per le vittime della tortura.

(3) - Jules DESCHENCS, 70 anni, canadese, è stato presidente della Corte suprema del Québec. Ha scritto una dozzina di libri, fra cui uno sui criminali di guerra. Fra il 1989 e il ‘91 ha presieduto una commissione d’inchiesta internazionale sul lavoro in Romania.

(4) - L’egiziano George Michel ABI-SAAB, 60, è di religione copta. Professore di Diritto internazionale a Ginevra, ha risolto varie dispute di frontiera come arbitro alla Corte di giustizia dell’Aja (Libia/Ciad, Egitto/Israele).

(5) - Adolphus Godwin KARIBI-WHYTE, 62 anni, nigeriano, studi a Londra, è giudice della Corte suprema di Lagos. Ha scritto cinque libri e 52 saggi di argomento giuridico.

(6) - Li HAOPEI, 87 anni, cinese, è consulente legale del ministero degli Esteri di Pechino. Professore di Diritto internazionale dal 1939, parla nove lingue fra cui l’italiano e il latino. Ha tradotto in cinese gli atti del processo di Norimberga.

(7) - Gabrielle KIRK MCDONALD, 51 anni, americana, è stata avvocato, giudice e professore di Legge all’università di Houston (Texas).

(8) - Rustam SIDHWA, 66 anni, pachistano ma non musulmano: è di religione parsi (zoroastriano). Giudice della Corte suprema del Pakistan, ha insegnato Legge all’Università del Punjab a Lahore. In precedenza era avvocato di Corte Suprema.

(9) - Sir Ninian STEPHEN, 70 anni, australiano, giudice della High Court of Australia dal 1972 all’82. Presiede vari organismi governativi australiani, e dal ‘92 guida un comitato anglo-irlandese per le trattative sull’Ulster.

(10) - Lai Chand VOHRAH, 59 anni, malese, laureato in Diritto internazionale a Cambridge, specializzatosi all’Accademia di Diritto internazionale dell’Aja, è giudice della Corte suprema della Malaysia.

(11) - Claude JORDA, 56 anni, francese, è procuratore generale presso la Corte d’appello di Parigi. In precedenza è stato un alto funzionario ministeriale arrivando a dirigere i servizi giudiziari francesi. Unico suo difetto: non parla inglese.

Mauro Suttora

Wednesday, January 12, 1994

Pannella svolta a destra

Oplà: Pannella fa un altro giro di valzer

Europeo, 12 gennaio 1994

E BRAVO MARCO CHE SORRIDE A DESTRA

Con Berlusconi e Bossi. Per rinviare le elezioni. E opporsi alla sinistra vincente. Dove vuole arrivare il leader radicale?

di Mauro Suttora

Un tempo la sua arma preferita era il digiuno. Ne ha fatti 16 per le cause più diverse: Cecoslovacchia invasa, divorzio, fame nel mondo. Oggi, invece, ha il telefonino. E alla fine, tempestato per giorni dalle sue chiamate, anche Silvio Berlusconi ha ceduto: è andato in piazza Duomo a Milano a a firmare per i suoi nuovi referendum, lo ha ricevuto nella propria villa di Arcore.

“Rieccolo”. Il soprannome che Fortebraccio aveva appioppato all’eterno Amintore Fanfani oggi si attaglia bene a Marco Pannella. In politica da 48 anni (la prima tessera, liberale, la prese quindicenne nel ‘45), sempre all’opposizione (tranne cento giorni nel ‘92 al Comune di Ostia), il leader radicale sembrava definitivamente tramontato.

Il colpo di grazia gliel’avevano dato le riunioni alle sette del mattino che aveva organizzato lo scorso maggio per difendere il Parlamento degli inquisiti. “Continuate ad essere irriconoscibili, scandalizzate, bestemmiate”: così Pier Paolo Pasolini esortò i radicali prima di morire, nel ‘75. Consiglio preso fin troppo alla lettera, in questi anni, da Pannella.

Invece, per l’ennesima volta, “il nostro Marco nazionale” (come lo chiama il suo peggior nemico, Eugenio Scalfari) è risorto. E’ lui, di nuovo, l’uomo del giorno, il protagonista di queste ultime settimane di vita politica. Il 12 gennaio la Camera è convocata per discutere la sua mozione di sfiducia al governo di Carlo Azeglio Ciampi: è riuscito a farla firmare a ben 150 deputati, quasi tutti della maggioranza.

Perché questa mossa? Il dibattito in Parlamento è un atto dovuto, come ritiene il presidente Oscar Luigi Scalfaro sempre rispettosissimo delle prerogative parlamentari, o è soltanto un espediente degli onorevoli indagati (“i carcerandi”, come li dileggia Gianfranco Miglio) per guadagnar tempo e rimandare ancora di un po’ le inevitabili elezioni?

E Pannella che fa? Di nuovo, forse solo per il gusto autolesionista di apparire al centro dell’attenzione, si mette alla testa del “partito degli inquisiti”, oppure la sua è una strategia lucida con precisi obiettivi?

“Ciampi deve scegliere da che parte stare”

“Pannella è soltanto uno specialista nell’intorbidare le acque, è un politichese fra i più consumati”, taglia corto Scalfari sulla prima pagina di Repubblica. E quasi accusa Scalfaro di essersi fatto plagiare dal capo radicale, visto che il presidente avrebbe potuto sciogliere le Camere già dal 20 dicembre.

Replica Pannella: “Anche votando a marzo, l’attuale governo resterebbe in carica fino a giugno. Ma Ciampi è ormai delegittimato: lui stesso ha dichiarato di aver esaurito il proprio compito dopo la riforma elettorale e la legge Finanziaria. E l’Italia non può certo permettersi di stare per mezzo anno senza un vero governo. Occorre quindi una nuova compagine, guidata dallo stesso Ciampi e con Mario Segni vicepresidente. Io mi propongo ministro degli Esteri”.

Questa è la spiegazione ufficiale, istituzionale. Ma c’è anche un secondo movente, squisitamente politico, nella mossa di Pannella. E’ lui stesso a confessarlo: “Ciampi deve scegliere: o sta con il Pds e il partito di Repubblica, o prende Segni e me. Così gli elettori potranno decidere subito fra due schieramenti”.

Figurarsi se quel vecchio volpone di Ciampi cadrà nella trappola di Marco. Il presidente del Consiglio sa che, se la sinistra vincerà, potrà continuare a stare al suo posto: Achille Occhetto gli ha già offerto quella poltrona. D’altra parte, Ciampi aveva già inserito ministri di area pidiessina in questo governo: soltanto l’assoluzione della Camera a Bettino Craxi provocò le loro immediate dimissioni.

Il terzo motivo, inconfessabile, della mozione Pannella, è infine quello di prender tempo. Non tanto per rinviare le elezioni (“Mi vanno bene ad aprile”), quanto per guadagnare giorni preziosi alla raccolta di firme sui suoi referendum. “Siamo a 100mila, più le 60mila che finora ha preso la Lega”, dicono al club Pannella a Roma. Tutte firme che rischiano di essere buttate.

Lega incinta di liberaldemocrazia.

E’ probabile che ciò accada. Ma i referendum sono serviti a Pannella per allearsi alla Lega Nord. Com’è scoppiato questo nuovo, improvviso amore? Il leader radicale è stato l’unico ospite esterno (applauditissimo) al congresso leghista del 12 dicembre. Pannella, per la verità, si dichiara federalista da sempre. Seguace di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e del loro Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e federale, nell’87 ha fatto anche cambiar nome al gruppo radicale della Camera, che da allora si chiama “federalista europeo”.

“Pannella sta mettendo incinta la Lega”, scherza Valerio Zanone. “Le sta inoculando il seme della liberaldemocrazia, e la Lega gode”, precisa Ottavio Lavaggi, deputato pri, anch’egli nuovo fan del Carroccio. Ma c’è anche un dato umano: molti leghisti hanno votato radicale prima di sposare Umberto Bossi.

Pannella ha sempre scelto i propri alleati con pragmatismo spregiudicato: chi ci sta, ci sta. Il divorzio lo conquistò in compagnia del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini. Contro la fame nel mondo si alleò con i democristiani, per difendere Enzo Tortora con i socialisti.

Questa volta, sui referendum lanciati da lui e da illustri politologi come Angelo Panebianco e Saverio Vertone (Corriere della Sera), Marcello Pera (La Stampa), dal filosofo Giulio Giorello e dall’economista Antonio Martino (preside della Luiss, l’università della Confindustria), c’è stata soltanto la Lega. Ma lui li aveva proposti a tutti i partiti.

Non più tardi di un mese fa, d’altronde, Pannella ha appoggiato, assieme al Pds, il radicale Francesco Rutelli a Roma, Adriano Sansa a Genova e vari altri nuovi sindaci di sinistra. Adesso invece passa il suo tempo ad attaccare Occhetto. Perché? “La sinistra può vincere solo con me e Segni, come a Roma. Altrimenti è un bidone”, risponde lui. Pannella l’indispensabile. Pannella il salvifico. “Ha una concezione tolemaica di se stesso”, è la descrizione ironica di Scalfari, “è lui l’asse della verità gravitazionale, misconosciuto però da tutti. Di qui la sua paranoia vittimista”.

Con Scalfari l’odio è profondo. I due si conoscono da 40 anni: bazzicavano entrambi la corrente di sinistra del Pli. Insieme hanno fondato il partito radicale nel ‘55. Poi però Scalfari ne divenne il vicesegretario, si volle alleare con il Psi (nel ‘60), e cacciò Pannella (allora filo-comunista) all’opposizione.

“Marco è un esibizionista logorroico”, dice Scalfari. E Pannella ricambia: “Scalfari è un libertino mascherato da tartufo: con una mano indica il Dio della democrazia, con l’altra tocca le cosce della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava”.

Fra Pannella e Silvio Berlusconi, invece, c’è simpatia. Al Cavaliere il leader radicale piace perché è l’uomo politico più spettacolare d’Italia. Una sua intervista a Mixer lo scorso maggio ha conquistato otto milioni di spettatori. E alle comunali di Roma Pannella è stato il più votato (dopo il missino Teodoro Buontempo) fra tutti i capilista: 14mila preferenze, il doppio di Enrico Montesano (il più gradito fra i pidiessini).

Le Tv Fininvest hanno aiutato molto il partito radicale sia nell’86 sia nel ‘92, quando Pannella minacciava di chiudere il Pr se non si fossero raggiunti 10mila e 30mila iscritti. Il leader radicale è un assiduo di tutti i programmi berlusconiani, dall‘“Uno contro tutti” di Maurizio Costanzo fino a “Scherzi a parte”. In questi giorni il Tg di Paolo Liguori (ex redattore di Radio radicale) su Italia Uno lo coccola, intervistandolo spesso.

Amore per Bossi, ostilità con Scalfari, sintonia con Berlusconi. Alle elezioni Pannella finirà nel blocco moderato? Con Mariotto Segni il rapporto è agrodolce: il capo del Pr si vanta di essere stato il primo a proporre, nell’86, il maggioritario uninominale, e di aver convinto lui Segni. Perfino con Gianfranco Fini c’è qualche punto di contatto: vent’anni fa Pannella fu l’unico a difendere il Msi dalla campagna per metterlo fuorilegge: “I veri fascisti oggi sono i democristiani”, sosteneva assieme a Pasolini. E nell’82 fu il primo segretario di partito che parlò a un congresso missino.

“Il Pds è l’erede della partitocrazia”.

Quel che è certo, è che Pannella non è catalogabile. E’ di destra o di sinistra? Domanda antica quanto lui stesso. Negli Anni ‘50, da liberale gobettiano, fece entrare il Pci nel parlamentino degli universitari italiani che presiedeva. Nel ‘59, assieme a Occhetto, cacciò Bettino Craxi dalla guida dell’Unione goliardica. Poi scrisse una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera, proponendo l’alternativa di sinistra.

Trent’anni fa Giancarlo Pajetta gli offrì un seggio da deputato (rifiutato) come indipendente di sinistra. Poi i rapporti si guastarono, perchè il Pci su divorzio e aborto non voleva attaccare troppo la Dc, mentre Pannella era un anticlericale acceso. “Furgone di immondizia”, lo apostrofò Fortebraccio, il corsivista dell’Unità.

Dopo che Occhetto ha cambiato nome al partito, Pannella è stato un interlocutore attento e speranzoso del nuovo Pds, che però oggi considera come “l’erede principale del regime partitocratico”. E’ stato anche uno dei fondatori di Alleanza democratica, “che adesso non mi invita neanche più alle sue riunioni”, si lamenta. E Leoluca Orlando? “Un piccolo Peron”, taglia corto. Insomma, la deriva a destra di Pannella sembra essere causata soprattutto da dissapori personali.

Dal ‘92 Pannella è il primo politico al mondo a farsi eleggere in liste con il proprio nome. Neanche il generale Charles De Gaulle era arrivato a tanto narcisismo. “Ma questa è la politica del futuro, basata sulle persone e non sugli apparati burocratici di partito. Si vota il singolo candidato, come in America”, si difende Marco. Che però è stato abbandonato da molti dei suoi compagni di un tempo: Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta.

In ogni caso, quello di Pannella è l’unico partito, assieme ai Verdi, a non essere mai stato indagato per tangenti. Anche Lega, Rifondazione e Msi hanno dirigenti inquisiti. I radicali no. Pannella l’incorruttibile vive solo per la politica, abita in una soffitta al quinto piano senza ascensore dietro la fontana di Trevi. Passa i Ferragosti a visitare prigioni, e Natali e Capodanni a concionare da Radio Radicale. Riuscirà a far parlare di sè anche dopo il Duemila, c’è da scommetterlo.

Mauro Suttora

Monday, November 01, 1993

Marie Louise Rescia Pellegrin: Les Travaillants

I DISOCCUPATI? IN REALTA' SONO BABY SITTER

Risultano senza lavoro 12 europei su cento. Problema insolubile? No, rispondono a Parigi. Perché l'importante è il loro ruolo sociale

di Mauro Suttora

Europeo, 1 novembre 1993
























Disoccupazione: è il nuovo mostro da combattere nei Paesi industrializzati dell’Ocse, dove i senza lavoro sono ormai 35 milioni. In novembre a Washington si terrà addirittura un vertice mondiale su questo problema. Gli Stati Uniti, però, stanno molto meglio dell’Europa: i disoccupati sono al 7%, contro il 12% della Cee. La Francia, in particolare, soffre la peggior crisi di mancanza di lavoro dagli anni ’30.

Ma è proprio in Francia che si stanno sviluppando le idee più interessanti e innovative per affrontare il fenomeno. A Parigi Marie-Louise Pellegrin, docente di Antropologia e presidente del seminario di Psicologia sociale all’università della Sorbona, ha pubblicato un libro che fa discutere: ‘Des inactifs aux travaillants’. Letteralmente: ‘Dagli inattivi ai lavoranti’. È un gioco di parole: il neologismo ‘lavorante’ prende il posto del classico ‘travailleur-lavoratore’.

“In tutt’Europa ormai”, spiega la professoressa Pellegrin, “la maggioranza degli abitanti, fra giovani, pensionati, donne e disoccupati, è catalogata come ‘inattiva’. È questa oggi la categoria predominante, e non più quella del ‘maschio adulto produttivo’. Eppure ancora adesso tutta la nostra società ruota attorno alla figura del ‘lavoratore’. Così chi perde il lavoro perde status, oltre che lo stipendio, e un problema che dovrebbe essere solo economico diventa anche politico e sociale”.

“Gli ‘inattivi’ svolgono in realtà ruoli preziosissimi anche se non retribuiti”, sostiene la Pellegrin, “dalle casalinghe ai parenti che fanno da baby sitter, dai volontari ai lavoratori ’sommersi’. Definiamoli ‘lavoranti’, riconosciamo la loro importanza. Altrimenti il problema ‘disoccupazione’ rimarrà insolubile. Oggi non siamo attrezzati culturalmente per affrontarlo, proprio come nel '700, quando erano considerati ‘produttivi’ soltanto gli agricoltori, e ci volle Adam Smith per definire ‘lavoratori’ anche quelli delle fabbriche”.

Insomma, il nostro modo di pensare non si è ancora adeguato alla nuova realtà. E questa ‘rivoluzione culturale’ iniziata a Parigi oltre agli economisti coinvolge antropologi, linguisti e psicanalisti.

Friday, December 11, 1992

Eurocrati Ue

Europeo, 11 dicembre 1992

 Ma che faccia ha un tecnocrate Cee?

Sette uomini d'oro. Vengono dall'Italia, ma ormai si considerano europei. Ecco chi sono

di Mauro Suttora



 


Friday, May 08, 1992

Corriere della Sera: processo

Milano: tangenti in aula.
I missini annunciano una loro nutrita presenza in aula, questa mattina, per il processo per diffamazione intentato dall'ex presidente dell'Atm Giacomo Properzj contro il consigliere del Msi, Riccardo De Corato, il consigliere liberale Pierangelo Rossi e il giornalista dell'"Europeo" Mauro Suttora per un articolo di tre anni fa, in cui i due consiglieri dubitavano della regolarita' di alcuni appalti dell'azienda tranviaria.

Friday, August 30, 1991

Il golpe di Mosca

FUORI GORBACIOV, ECCO ELTSIN. UNA RIVOLUZIONE CON SOLI TRE MORTI SEPPELLISCE IL COMUNISMO

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora


Europeo, 30 agosto 1991





«Cambiar nome? Non serve a niente. Anch'io ho cambiato nome, quattro volte. Ma adesso che sono arrivata al terzo marito mi ritrovo uguale a prima, con lo stesso caratteraccio».


Piazza Puskin, una bella e tiepida notte moscovita. Sotto la statua del poeta si danno appuntamento le coppiette di innamorati. Davanti a McDonald's c'è la solita fila di mezzo chilometro per un hamburger americano. E dall'altra parte della piazza, sotto la sede del settimanale Moskovskie Novosti, Notizie di Mosca, una centinaio di persone commentano la morte del partito comunista sovietico, decretata dal presidente Michail Gorbaciov 24 ore prima.


La battuta più bella la pronuncia la pluridivorziata Elena, contro chi ipotizza una resurrezione sotto diverso nome per i 14 milioni di membri di un Pcus rinnovato e purgato.




Un altro struggente tramonto chiude la settimana decisiva per la storia dell'Unione Sovietica. Era cominciata lunedì mattina sotto la pioggia, e con i carri armati del golpe nelle strade. È finita sabato sotto il sole con le dimissioni di Gorbaciov da segretario del Pcus, lo scioglimento del partito e la antica-nuova bandiera russa tricolore che sventola sul Cremlino.


In mezzo, sei giorni di rivoluzione. Una bella rivoluzione, con pochi morti e molta ironia. Perfino Gorbaciov è riuscito a scherzare sulla propria prigionia in Crimea. «È la nostra quinta rivoluzione», ricorda un signore in un capannello di piazza Puskin. E conta: quella decabrista nell'800, quella socialista nel 1905, la menscevica nel febbraio '17, la bolscevica nell'ottobre '17... D'estate, però, è la prima volta. Ma anche sulla numerazione delle loro rivoluzioni i russi riescono a litigare: «Quello bolscevico fu un colpo di stato, non una rivoluzione di popolo», puntualizza stizzito un altro.


Le uniche due parole che mettono d'accordo tutti sono «democrazia» e «Eltsin». La gente preferisce quest'ultimo, presidente della Russia (che copre il 75 per cento dell'Urss), a Gorbaciov, presidente tuttora non eletto di una cosa che ormai esiste ogni giorno di meno: l'Unione Sovietica.


Questa volta, contrariamente a 74 anni fa, i sei giorni di rivoluzione non hanno sconvolto il mondo. Più modestamente, lo hanno tranquillizzato. Le mamme russe ora portano i figli a visitare le barricate che hanno protetto Eltsin e il suo parlamento dai militari. Come la signora Ludmila Salnikova, che già la sera di giovedì 21 agosto conduce per mano la figlia Xenia di 8 anni a vedere in Piazza Rossa i fuochi d'artificio della festa antigolpista. La incontriamo in metropolitana, alla stazione del viale della Pace (Prospekt Mira).


È eccitata, felice e arrabbiatissima: «Dopo i botti andremo ad assaltare la sede del partito comunista», annuncia. «Ho appena visto la conferenza stampa di Gorbaciov in tv, quello scemo difende ancora il partito che l'ha tradito». Nella carrozza del metro (il biglietto costa quindici copechi, sei lire italiane) la gente legge i quotidiani con i primi titoli sul golpe fallito. I generali golpisti avevano chiuso tutti i giornali tranne sei, quelli fedeli al Pcus. Il giorno dopo Eltsin li ha fatti riaprire tutti, tranne quei sei (tra i quali l'esimia Pravda).


Usciamo con Ludmila e Xenia alla stazione del metro Barricada che ricorda gli scontri del 1905 fra i soldati zaristi e i rivoluzionari. Per coincidenza, le nuove barricate sono a poche decine di metri. E qui bisogna spiegare che il Bielo Dom, la Casa Bianca di Eltsin, si trova in una parte di Mosca che, come quasi tutta la città, non è a misura d'uomo bensì di Stalin e della sua megalomania.


Per capirci: non sareste presi dalla disperazione, o perlomeno da agorafobia, se doveste improvvisare qualche ostacolo antitank attorno al palazzo della Farnesina a Roma? La grande fortuna dei diecimila giovani di Eltsin è che, a mani nude, hanno potuto contare su un cantiere aperto proprio davanti al parlamento per lavori di fognatura in viale Kalinin. Si può quindi affermare, con rispetto parlando, che la nuova democrazia russa è nata non sulla canna del fucile, ma grazie a tubi di fogna e traversine di cemento.


Queste commoventi barricate, tenute su con tavoli, sedie, tondini di ferro, pezzi di pavé, perfino rami d'albero e tutto ciò che i giovani di Eltsin hanno trovato, sono diventate monumento nazionale. Nessuno osa più toccarle. Eppure tre filobus bruciacchiati ostruiscono il traffico su una delle principali circonvallazioni di Mosca. Vari deputati hanno proposto di lasciarne uno intatto per ricordo.


E per ricordare, adesso, la piccola Xenia, due anni dopo i suoi coetanei del muro di Berlino, si porta a casa un pezzo di fil di ferro della barricata come reliquia storica. Attorno si beve, si canta, si balla, si fa festa. Sono tornati il sorriso e l'entusiasmo sui visi tristi dei moscoviti. Perfino alcune guide turistiche dei greggi in viaggio organizzato hanno giunto una nuova tappa al tour della città: un po' di storia contemporanea, oltre a quella imbalsamata nel Cremlino.


Non si è ancora asciugata l'acqua nelle pozzanghere di viale Ciaikovski, in quel sottopasso illuminato dai neon arancioni che la Cnn ha mostrato a tutto il mondo in diretta nella notte degli scontri. Qui ci sono stati i tre morti che hanno pagato per tutti i milioni di russi il passaggio dalla dittatura alla democrazia.


A scuola ci hanno insegnato che la libertà concessa dall'alto, come quella della perestroika gorbacioviana, vale poco se non è conquistata anche con un conflitto, una rivolta, magari un po' di sangue. Per fortuna le rivoluzioni moderne sono sempre più spesso nonviolente. A volte hanno successo (Europa dell'Est, Filippine), a volte no (Cina, Birmania). «Ma la paura di una nuova strage tipo piazza Tian an men ha paralizzato molti soldati», commenta Oleg Finestein, scrittore, «questi generali non erano golpisti professionisti».


«Buonanotte amico, siamo con te». «In memoria vostra, amici». Nei tre punti dove si è ucciso ora ci sono montagne di fiori e queste scritte pitturate in bianco. «Riebata», amico, ha preso il posto di «Tovarish», compagno, parola squalificata perché comunista. Anzi, «comunista» è ormai diventato un insulto a Mosca. Centinaia di persone, soprattutto donne pie di mezza età che si raccolgono in preghiera, continuano a portar fiori ai nuovi martiri di viale Ciaikovski.


Arriviamo tardi, con Ludmila e Xenia, alla manifestazione contro la sede del Pcus (che poi Eltsin ha fatto chiudere), perché la grande attrazione della notte è l'abbattimento della statua di Felix Djerzinski, nella piazza di fronte alla sede del Kgb da lui fondato. Il giorno dopo è andata giù a picconate la statua di Sverdlov, e adesso tutti i dirigenti bolscevichi rischiano. Anche il monumento a Lenin in piazza Octoberskaia è nel mirino dei moscoviti.


«Io butterei giù anche il busto di Marx di fronte al teatro Bolscioi», propone Ludmila ormai in preda a furia iconoclasta. Per adesso ci si sfoga con le scritte. Sul basamento di Marx con l'appello storico «Proletari di tutto il mondo unitevi» qualcuno ha aggiunto «...e combattete contro il comunismo». Il giorno dopo invece campeggia un grosso «Scusatemi». Un turista stalinista italiano che indossa una giacca a vento con la scritta Cariplo comincia a urlare: «Porci fascisti! Dopo che li hanno fatti studiare tutti gratis, bel ringraziamento!»


Poco più in là, in piazza del Maneggio, cominciano i funerali di stato per le tre vittime. Cerimonia lunghissima e solenne che raggiunge l'apice quando, sotto la Casa Bianca, Eltsin raggiunge il corteo e porta le condoglianze ai parenti. Per la verità ai funerali non c'era moltissima gente, al massimo centomila persone. Non è neanche vero che la gente si rivolta in massa contro il partito comunista: la vita va avanti tranquilla, ed erano poche centinaia i dimostranti contro il palazzo del Comitato centrale del Pcus (quello dentro al Cremlino su cui adesso sventola la bandiera tricolore russa al posto di quella rossa).


In realtà questa è una rivoluzione soprattutto televisiva, con decine di milioni di persone le quali ogni giorno si bloccano davanti alle tv che trasmettono tutto in diretta e a canali unificati per ore e ore. Va bene l'entusiasmo per la libertà, ma se la gente non ricomincia a lavorare l'economia andrà ancora più a rotoli. Ora l'inflazione è al 100 per cento, i prezzi raddoppiano ogni anno. La produzione è crollata di un decimo e il rublo si cambia a quaranta lire, contro le 700 del cambio ufficiale.


L'unico posto a Mosca dove fra i lavoratori regna una perfetta e disciplinata efficienza, senza televisori nel retro ad aggravare la leggendaria accidia slava, è forse Pizza Hut. La Casa della pizza americana ha aperto da poco due ristoranti: uno nell'ex via Gorki tornata all'antico nome Tverskaia, l'altro in viale Kutuzovski, dove stanno molte redazioni di giornali e tv straniere che il governo sovietico costringe in quasi topaie.


Pizza Hut è un esempio agghiacciante di come potrebbero finire le cose se i governanti sovietici non introdurranno la libertà di mercato. Ogni ristorante ha tre porte. In due si paga con rubli (per sedersi e per l'asporto), nella terza in dollari. In teoria anche un russo potrebbe avere dollari. In pratica no, visto che dieci dollari, il minimo per chi vuole mangiare qualcosa, equivalgono a 320 rubli. Cioè la metà di uno stipendi mensile medio.


Così Pizza Hut e tutti i posti dove si può pagare in dollari hanno file lunghissime per i russi schiavi del loro rublo, mentre l'entrata è libera per i privilegiati occidentali. Ceto, non si può passare al libero mercato da un giorno all'altro. Ma Gorbaciov finora non ha riformato granché. I russi sperano che Eltsin vada più avanti. «Tanto, peggio di così non possiamo stare», dice Andrei Sedov, ingegnere che da sei mesi ha abbandonato l'industria militare in cui lavorava e si è messo in proprio con una sua società.


Mauro Suttora

Boris Eltsin, un po' Pertini un po' Pannella

... E POI LEOLUCA ORLANDO, ANDREOTTI, REAGAN, KENNEDY: ECCO A CHI ASSOMIGLIA IL NUOVO CAPO RUSSO

Europeo, 30 agosto 1991

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora



Tradotto in italiano, Boris Nicolaievich Eltsin è un misto fra Sandro Pertini, Marco Pannella e Leoluca Orlando. Insomma, ci siamo capiti: una bomba ambulante. Con lui lo spettacolo è sempre assicurato. La noia - principale caratteristica della politica, in Russia come in Italia - è eliminata.

Come Pertini, Eltsin capisce al volo l'umore della gente che ha di fronte, e trova sempre le parole giuste. Parole terra terra: è l'unico leader sovietico a non parlare in politichese. E come il nostro ex presidente, fa impazzire la scorta quando si immerge nella folla, il suo ambiente naturale.

In questo è differente da Michail Gorbaciov, i cui «colloqui col popolo» sono troppo spesso sapientemente filtrati dal servizio d'ordine. Inoltre, quando Boris si trova di fronte a un operaio, lo ascolta. Gorby invece lo affligge con un monologo prolisso pensando alla tv che inquadra la scena.

Come Pannella, il nuovo «zar della Russia» ama i gesti teatrali. Nei due anni in cui è stato segretario del partito comunista di Mosca (cioè sindaco) gli piaceva improvvisare incursioni nei negozi per scoprire di persona le magagne del mercato nero.

Una volta, nell'87, si mette in fila davanti a una macelleria e, arrivato al banco, ordina un chilo di vitello. «Non c'è», gli risponde stancamente il commesso. Allora Boris, sicuro del contrario, piomba in magazzino e blocca le fettine di vitello che stavano uscendo dal retro verso le dacie della nomenklatura.

Memorabile anche il suo abbandono pubblico del partito comunista in pieno congresso, l'anno scorso: ha attraversato l'immensa sala da solo, a passo lento, in mezzo a un silenzio glaciale e imbarazzato. «Beh», brontolò Gorbaciov, seccatissimo per la figuraccia in diretta tv davanti all'intera Unione Sovietica, «adesso possiamo continuare i lavori». E mezza Russia cambiò canale.

Anche il capo dei radicali russi, come quello italiano, si lamenta sempre per l'ostracismo dei giornalisti. In particolare nei primi mesi di quest'anno, quando i giornali ancora controllati dal partito comunista (quasi tutti, in barba alla glasnost) lo hanno bersagliato con una campagna diffamatoria.

Ma i russi, dopo settant'anni di «disinformazia», sanno leggere fra le righe: chi è attaccato dalla Pravda si guadagna automaticamente la reputazione di brav'uomo. Risultato: alle elezioni del 12 giugno 1991 Eltsin è diventato il primo presidente democraticamente eletto nella storia della Russia, con quasi il 60 per cento dei voti.

Come Leoluca Orlando, anche Corvo bianco (questo il suo soprannome) ha un ciuffo ribelle che gli casca sulla fronte. E pure lui è un ex sindaco estraneo all'apparato: quando fu nominato viveva solo da pochi mesi a Mosca, dove lo ha chiamato da Sverdlovsk Gorbaciov nell'85.

Anche lui è stato cacciato perché pestava i piedi dei potenti, ha abbandonato il suo partito (come Orlando la Dc) ed è stato rieletto trionfalmente dalla città che aveva cercato di ripulire: 89 per cento dei voti come deputato di Mosca nel marzo '89.

«Ho lottato contro la mafia, ma non sono riuscito a colpire i suoi collegamenti con la politica»: frase pronunciata da Eltsin, ma che a Palermo suona familiare. Nei suoi comizi Eltsin suda, ci mette foga e convinzione. Poca sostanza e nessuna concretezza, accusano all'unisono i critici di Boris e Leoluca. Tre parole magiche nella loro bocca: «Democrazia, libertà, pulizia».

Andiamo avanti con i paragoni. Come Ronald Reagan, Eltsin sbadiglia quando i suoi consulenti lo tediano con briefing sull'economia. «Però», si difende lui, «in un anno a Mosca sono riuscito a portare in tribunale 860 apparatchik accusati di corruzione: non è conreta economia, questa?»

Gorbaciov si lesse da cima a fondo le 400 pagine del piano Shatalin che l'anno scorso doveva riformare l'economia sovietica in 500 giorni. Ne discusse per sette ore con l'autore. Alla fine lo buttò nel cestino perché non piaceva ai conservatori. Eltsin invece ammette di non avere studiato il mattone. Però nella sua Russia il piano di liberalizzazione lo sta applicando.

Nei rapporti con le donne, Eltsin è paragonabile a John Kennedy: un mandrillo. Però più romantico: come tutti i russi, sommerge con innumerevoli mazzi di fiori le sue predilette. E poi è anche cardiopatico, ha 60 anni, non può permettersi grandi performances.

Naturalmente in pubblico giura eterno e fedele amore alla moglie Maia che gli ha dato due figlie. E che ha un grosso pregio, per un politico russo: è brutta. Molto più brutta di Raissa Gorbaciova, soprannominata con fastidio «la zarina» dalle invidiose matrone russe.

Per la sua capacità di risorgere sempre dopo sconfitte che avrebbero distrutto un toro, il paragone casereccio lo si può fare con Giulio Andreotti. Alla fine dell'87 fu cacciato non solo dalla poltrona di sindaco di Mosca, ma perse anche la sedia del Politburo. Fu allora che lo soprannominarono «kamikaze della perestroika».

Subì perfino l'umiliazione di vedere pubblicato sulla Pravda il resoconto dell'allucinante processo che gli fecero Gorbaciov e i gerarchi comunisti, in perfetto stile stalinista. Con tanto di autocritica estorta: «Sì è vero, mi ha rovinato l'ambizione».

Gorbaciov gliene ha fatte passare di tutti i colori. Adesso Eltsin si vendica. Ogni giorno lo bacchetta sulle dita, come prima Gorby faceva con lui. «In qualsiasi altro Paese del mondo Eltsin sarebbe da anni al governo. Ma l'Urss è un Paese particolare», ha scritto il Financial Times.

Eppure l'Ovest lo ha sempre snobbato. C'è un signore, in particolare, che adesso dovrebbe nascondersi per la vergogna. Si chiama Jean-Pierre Cot, francese, vicepresidente del parlamento europeo. Pochi mesi fa, quando Eltsin era già leader indiscusso della Russia, gli impedì di parlare di fronte all'Europarlamento. Lo trattò come un mendicante e un ubriacone.

Si dice che Eltsin non è amato dall'intellighenzia perché è un populista. Storie. Fior di intellettuali hanno abbandonato da mesi Gorbaciov per diventare suoi consiglieri: l'economista Oleg Bogomolov, la sociologa Tatiana Zaslavskaia e l'esperto di affari esteri Georgi Arbatov, tutti gorbacioviani schifati dagli alleati trogloditi che Gorby si era scelto.

«Il comunismo? Sì, in Unione sovietica c'è. Però funziona solo per venti persone: i membri del Politburo, quelli con la villa», ha scritto Eltsin nella sua autobiografia (Confessioni sul tema, tradotto in Italia dall'editore Leonardo).

«Quando mi hanno fatto entrare per la prima volta nella mia dacia a Mosca, nell'85, mi sono perso. Avevamo tre camerieri, tre cuochi, un giardiniere». L'ingegnere edile alto 1 e 88 calato dagli Urali ora si dovrà abituare a governare l'Urss (o almeno la Russia) tirandola fuori dal caos.

Mauro Suttora

Friday, November 03, 1989

Suttora e De Corato assolti

Corriere della Sera, 21 settembre 1993

Non diffamo' Properzj, assolto il missino De Corato

Si e' conclusa dopo quattro anni di denunce una guerra a colpi di carta bollata tra due esponenti politici milanesi. L' ottava sezione del tribunale ha infatti assolto dall' accusa di diffamazione a mezzo stampa il consigliere comunale del Msi Riccardo De Corato. L' esponente missino era stato querelato dall' ex presidente della Provincia, il repubblicano Giacomo Properzj, arrestato e poi rilasciato nell' ambito dell' inchiesta milanese sulle tangenti.

L' allora numero uno di Palazzo Isimbardi si era ritenuto diffamato dal contenuto di un' intervista rilasciata da De Corato e pubblicata sull' Europeo del 3 novembre 1989. Nel servizio il capogruppo missino aveva accusato Properzj di coprire con artifici contabili i buchi del bilancio dell' amministrazione provinciale, che . secondo la sua tesi . sarebbe quindi stato truccato. Nella causa erano coinvolti anche l' autore del servizio, Mauro Suttora, e l' allora direttore del settimanale, Lanfranco Vaccari, che avevano sottoscritto la remissione di querela.

De Corato aveva voluto il processo e ieri e' stato assolto perche' il fatto non costituisce reato. Il pubblico ministero, Gemma Gualdi, aveva chiesto la condanna di De Corato a un milione di multa. Il tribunale ha accolto le conclusioni dei difensori Ignazio La Russa e Adriano Bazzoni.

Friday, October 06, 1989

Il centro sociale di Friburgo

Europeo 06 ottobre 1989

Marco di fabbrica

Alternative sociali: i successi economici degli autonomi di Friburgo

Nel ' 78 hanno occupato un edificio industriale. Ma , diversamente dai " ragazzi del Leoncavallo " , prima l' hanno rimesso a posto e poi hanno finito per comprarlo

di Mauro Suttora

Friburgo (Germania Ovest)
Il piu' bel centro sociale d' Europa sta nella citta' tedesca piu' vicina all' Italia : Friburgo , Habsburgerstrasse 9 . Mentre a Milano le autorita' vanno in tilt di fronte al problema del centro Leoncavallo (riquadro nella pagina seguente) , in questa citta' di 300 mila abitanti fra la Foresta Nera e il Reno va avanti da undici anni un esperimento felice di autogestione .

La " Fabrik " e' un edificio di mattoni a tre piani che da' su un cortile interno : una ex fabbrica tessile in periferia occupata nel ' 78 , dopo qualche anno di abbandono , da un gruppo di giovani dell' extrasinistra . E lo stesso periodo di nascita del Leoncavallo , e in Germania Ovest l' atmosfera politica e' simile a quella italiana : da noi le Br , li' la Raf ; in Italia , nel ' 77 , l' esplosione di autonomi e indiani metropolitani , in Germania i " suicidi " di Stammheim . Ma gli " autonomen " dei circoli giovanili tedeschi sono gia' ben lanciati sull' ecologia (le liste verdi nascono in Germania nel ' 79 , sei anni prima che in Italia) , cosicche' l' attivita' principale degli occupanti della Fabrik e' la lotta contro le centrali nucleari di Wyhl e , poco piu' in la' oltre il confine , di Fessenheim in Francia .

Falce , martello e stella rossa presto scompaiono dai muri , rimpiazzati dal sole ridente giallorosso con il noto slogan tradotto in ogni lingua : " Atomkraft ? Nein , danke " (Energia nucleare ? No , grazie) . Nell' 81 , inoltre , con l' arrivo dei missili atomici americani Cruise e Pershing in Germania , si sviluppa anche a Friburgo un forte movimento pacifista , la cui onda lunga non si e' ancor oggi esaurita : gli obiettori di coscienza tedeschi contro il servizio militare sono ben 60 mila all' anno , contro 7 mila in Italia .

Una grande differenza fra i giovani alternativi tedeschi e quelli di casa nostra e' la laboriosita' : la voglia di costruire in concreto , qui e subito , almeno un pezzo di " societa' alternativa " , senza aspettare improbabili rivoluzioni proletarie . Cosi' , mentre all' inizio degli anni Ottanta in Italia molti centri sociali si degradano e cadono a pezzi sotto i colpi piu' che della polizia dell' incuria degli stessi occupanti (anche il Leoncavallo prima dello sgombero di Ferragosto non era sfuggito a questo destino) , la Fabrik di Friburgo viene lentamente rimessa in sesto da abilissimi falegnami e muratori .

Stanza dopo stanza , sala dopo sala , i silenziosi freak tedeschi dai capelli lunghi (il pelo fluente non e ' mai passato di moda da queste parti) restaurano i tre piani dell' ex fabbrica , dentro la quale una decina di loro si stabilisce a tempo pieno , vivendo in una comune (senza pero' grandi scambi sessuali : il massimo della promiscuita' viene raggiunto con il frigorifero collettivo , dove peraltro i piu' individualisti piazzano ciascuno la propria scatola di burro privato , alla faccia di comunismo e anarchia) .

I rapporti con il proprietario del palazzo non sono cattivi : il collettivo d' occupazione si mette d' accordo per pagargli un affitto , che pero' restera' sempre molto basso in cambio delle migliorie effettuate dagli inquilini . Non tutti gli " hausbesetzers " , gli occupanti di case tedeschi , sono cosi' socievoli : a Berlino , Francoforte , Amburgo (e anche a Friburgo , nell' 82 e nell' 87) scoppiano spesso violenti incidenti fra squatter e polizia . Battaglie a colpi di idranti , e a volte ci scappa anche il morto .
Ma gli alternativi della Fabrik friburghese , cosi' come i loro compagni dei centri sociali Ufa Fabrik o Mehringhof a Berlino , Werkhof ad Amburgo e Gewerberhof a Karlsruhe , hanno ormai impiantato molte attivita' economiche nei locali occupati , e ci tengono a stabilizzarsi .

La Fabrik e' oggi un sorprendente microcosmo di socialismo egualitario nel cuore di una delle regioni piu' ricche d' Europa : " Qui dentro lavorano una settantina di persone " , spiega Hans Schmid , 34 anni , uno dei fondatori del centro sociale , " e il nostro stipendio medio e' di 1400 marchi al mese , uguale per tutti " . Non e' un gran vivere , un milione di lire al mese in Germania , dove un operaio della Mercedes puo' guadagnarne quattro . Ma a questi giovani spartani e francescani , che vanno in giro in bici o autostop , va bene .

" Cerchiamo ogni anno di bilanciare le entrate delle attivita' piu' redditizie con quelle che incassano meno " , dice Hans . Molto bene va la falegnameria , impiantata dietro al palazzo , in un capannone a due piani : e' ormai una piccola impresa avviata . Poi , in cantina , ci sono la tipografia e l' officina per la riparazione delle biciclette , che prendono lavoro da tutta Friburgo . Al piano rialzato c' e' l' asilo , per 18 bambini dai tre ai sei anni : ogni madre , a turno , viene una volta ogni tre settimane a preparare il pranzo per tutti .

Il resto dell' edificio , a parte una grande sala per assemblee , feste e spettacoli e i servizi in comune , ospita laboratori per attivita' artigianali di ogni tipo : grafica , serigrafia , ceramica , elettronica . Poi ci sono gli uffici : la redazione del giornale " di movimento " locale dove stanno anche i corrispondenti del Tageszeitung (il Manifesto tedesco) e di Liberation , la federazione di tutti i giardini d' infanzia della citta' , l' ufficio per la solidarieta' al Nicaragua (con gran traffico di materiali , medicine e volontari in partenza per Wiwili , la citta' nicaraguense gemellata con Friburgo) , il club motocicilistico , quello ciclistico , il collettivo antinucleare , la sede degli antimilitaristi , quella degli ecologisti che si battono contro la morte delle foreste , il complesso jazz , le femministe , il forum socialista , Robin Wood (una specie di Greenpeace piu' radicale) , il collettivo contro la criminalizzazione , la lista " per la pace " filocomunista , e quant' altro .

Ogni stanza con la sua moquette o il parquet , il telefono privato con il numero interno diretto , la porta chiusa a chiave o aperta , a seconda degli orari di lavoro indicati con pignoleria in un grande tabellone all' ingresso . Al terzo piano , una porta bianca con su scritto " Wohnung " , appartamento : ci vivono quattro persone . Al primo piano l' ufficio di Hans , col computer per la contabilita' di tutte le cooperative , e una possente cassaforte .

Ma il colpo grosso quelli della Fabrik lo hanno messo a segno nell' 84 : quando , per sventare una speculazione simile a quella che oggi a Milano rischia il Leoncavallo , si sono comprati l' intero edificio . Ci sono riusciti organizzando una maxicolletta di solidarieta' in tutta la regione . Hanno risposto circa 600 persone , che hanno prestato in media un milione e mezzo di lire a testa . Cosi' e' stato raccolto quasi un miliardo di lire . " Un buon affare " , commenta Hans , " adesso questi tremila metri quadri valgono molto di piu " . E gli ex occupanti , diventati padroni , lavorano per rimborsare al tasso del 3 per cento annuo i prestiti dei loro benefattori .

Due anni fa un altro progetto d' avanguardia : un impianto di riscaldamento per tutto lo stabile con riutilizzo del calore e risparmio di energia . Costo : centomila marchi , 70 milioni di lire . " Il Comune ci aveva promesso un contributo di 30 mila marchi , poi ce ne ha dati solo 10 mila " , si lamenta Hans .
Il sindaco socialdemocratico Rolf Boehme (i verdi hanno il 20 per cento a Friburgo , ma stanno all' opposizione) si e' pero' rifatto vivo l' anno scorso con un regalino da 50 milioni di lire : ha coperto il 10 per cento delle spese per aprire , accanto al centro sociale , un bar ristorante gestito dalla Fabrik . Dove naturalmente si sorseggia esclusivamente caffe' importato dal Nicaragua , e dove gli autonomi di Friburgo festeggiano ogni sera , tracannando birra assieme ai molti studenti universitari del quartiere , la propria autonomia realmente conquistata.

Mauro Suttora

Friday, September 22, 1989

Bnl e traffico d'armi

ALLE ARMI!

Europeo 22 settembre 1989

inchiesta: " il malaffare "

La BNL e il conflitto Teheran Bagdad

di Mauro Suttora

Non e' la prima volta che la Banca nazionale del lavoro fa da " sponda sporca " per traffici internazionali di armi verso Iran e Irak . Due anni fa la banca romana e' rimasta coinvolta nell' affare Tirrena Valsella . Anche allora , come oggi con l' Fbi statunitense , la verita' ci e' arrivata dall' estero : dalle dogane di Stoccolma , che avevano scoperto la violazione dell' embargo contro Iran e Irak da parte dell' industria svedese Bofors .

La Bofors , assieme a un consorzio europeo di produttori di munizioni (Snpe in Francia , Nobel in Gran Bretagna , Prb in Belgio , Muiden in Olanda) , fino al 1985 ha esportato illegalmente , attraverso triangolazioni con l' Italia , migliaia di tonnellate di mine e munizioni per alimentare la guerra del Golfo scoppiata nell' 80 . L' Italia era l' unico paese europeo le cui leggi permettevano di inviare armi e materiale bellico a paesi in guerra : l' embargo contro Iran e Irak fu dichiarato dal nostro governo solo nel 1984 .

Cosi' , per tutta la prima meta' degli anni ' 80 , l' Italia e' stata il miglior terminale europeo per i rifornimenti di armi ai paesi del Golfo : " Fino all' 85 almeno il vostro paese e' stato la ' ' sponda sporca ' ' di tutte le esportazioni belliche che avrebbero dovuto essere bloccate dagli embarghi nel resto d' Europa " , ha dichiarato all' " Europeo " il professor Aaron Karp della Columbia University di New York , uno dei massimi esperti mondiali del commercio d' armi .

Insomma , le industrie belliche europee facevano finta di esportare in Italia , ma la destinazione finale dei triangoli erano Iran e Irak . Il nostro governo era perfettamente a conoscenza di questo poco onorevole ruolo dell' Italia . L' unica sua preoccupazione era di bilanciare le forniture d' armi ai due contendenti per non favorire l' uno o l' altro . Per il resto , tutto era formalmente in regola , almeno fino all' embargo dell' 84 : le licenze d' esportazione venivano rilasciate senza troppi problemi dall' apposito comitato interministeriale (quello che adesso e' stato incriminato dal giudice veneziano Felice Casson , assieme ai vertici di Bnl e Banca commerciale , per le vendite all' Iran della francese Luchaire attraverso le societa' italiane Sea e Consar) .

Ai soldi non si comanda : in quegli anni , grazie alla sanguinosa guerra Iran Irak , le nostre industrie belliche riescono a superare la Gran Bretagna , e cosi' l' Italia si piazza al quarto posto al mondo fra gli esportatori di armi , avendo davanti solo Usa , Urss e Francia .
Oggi siamo ridiscesi al decimo posto in questa brutta classifica , ma manca sempre la legge di controllo sul commercio bellico promessa da dieci anni e mai approvata , un po' per la lentezza del Parlamento e un po' per le pressioni degli industriali delle armi (ma in Italia la maggior parte dell' industria bellica e' pubblica) .

C' e' anche un documento sequestrato dalle dogane svedesi : e' la garanzia che la Bnl diede per la vendita , da parte della Bofors e attraverso la societa' romana Tirrena , di una colossale partita di munizioni all' Iran : 5 . 300 tonnellate . Ma , come si e' detto , se si dimentica la provenienza di quel materiale (la Svezia e altri paesi che non potevano esportare armi in Iran e Irak) , le licenze di export della Tirrena erano , per la legge italiana , formalmente in regola . Anzi , ecco cosa precisa un manager della Bofors in un verbale sequestrato : " Il dottor Amadasi (proprietario della Tirrena , deceduto nell' 88 , ndr) ha parlato personalmente con il ministro degli Esteri questa settimana (la prima del maggio ' 84 , ndr) , e lui gli ha promesso che prolungheranno la licenza " .

Il ministro in questione era Giulio Andreotti , amico di Amadasi fin dagli anni ' 40 . L' ammontare dei " performance bonds " (garanzie per l' esecuzione del contratto) versati dalla Bnl per conto di Tirrena e Bofors all' Iran era di circa 1 , 2 miliardi di lire . La Tirrena per quell' intermediazione pago' 13 miliardi a Bofors e agli altri produttori europei . Ma si tratto' di un affare d' oro , perche' il prezzo di vendita all' Iran era di 75 miliardi : 315 milioni di corone svedesi .

Teheran pagava cosi' tanto perche' a causa degli embarghi in quel momento critico della guerra era molto difficile per l' Iran acquistare materiale bellico sui mercati internazionali . E quelle 5 . 300 tonnellate di munizioni per i suoi obici da 155 millimetri erano vitali : rappresentavano piu' di un anno del consumo nella carneficina in corso fra le paludi di Bassora .

Va da se' che all' interno degli enormi utili netti realizzati in quegli anni dalle nostre aziende belliche , grazie alla compiacenza di banche e governo , ci fosse ampio spazio per tangenti (o " compensi di intermediazione " , come vengono pudicamente chiamati) che poi tornavano in Italia .

Questo e' il caso , ad esempio , del tuttora irrisolto affare delle undici navi all' Irak , ordinate nell' 80 e ancora ferme a La Spezia . Una commissione d' inchiesta parlamentare , su indicazione del radicale Roberto Cicciomessere , e' riuscita a risalire al misterioso personaggio che nell' 82 intasco' 10 milioni di dollari di tangente sul conto numero P4 632 . 376 . 0 della Swiss Bank , sede di Zurigo : Rocco Basilico , ex presidente della Fincantieri , l' azienda pubblica che costrui' le navi .

La Bnl , naturalmente , non si limito' a garantire solo quel contratto da 75 miliardi della Tirrena nell' 84 . In quegli anni solo la Tirrena fece affari per altri 175 miliardi con Teheran , con almeno altri cinque contratti . Ed e' probabile che la Bnl o la Comit , altra banca pubblica abbia fornito la sua assistenza anche per l' export bellico verso il Golfo di Valsella , Otomelara , Snia , Agusta , Breda , Misar , Beretta , Selenia , Franchi e di altre industrie italiane .

Peraltro , anche il tanto strombazzato embargo fu poco piu' di una barzelletta : con la scusa che bisognava comunque rispettare i contratti gia' in corso , molte licenze di esportazione sono state prorogate fino all' 87 , cioe' quasi fino alla fine della guerra Iran Irak . E questo , per esempio , il caso della Oerlikon , l' industria bellica elvetica che in teoria non avrebbe potuto vendere nulla nei paesi in guerra , cosi' come stabilisce la legge della " pacifista " Svizzera . Ebbene , la Oerlikon non e' stata neanche costretta , come la Bofors , ad effettuare triangolazioni fuorilegge : ha esportato direttamente , fino all' ultimo , dal proprio stabilimento di via Scarsellini a Milano .

Mauro Suttora