Thursday, June 22, 1989

Mikis Theodorakis parla delle elezioni in Grecia

Note discordi: accusativo alla greca


I socialisti? Una manica di imbroglioni, capaci perfino di ricorrere al colpo di Stato. Papandreu? Un vecchio ignorante, compromesso da scandali e intrighi. Così una stella di sinistra suggerisce il voto per la destra


dall’inviato a Parigi Mauro Suttora


Europeo, 23 giugno 1989


“Sono schifato dai politici greci. E anche un po' impaurito. Non mi meraviglierei se i socialisti, di fronte a un crollo elettorale, organizzassero un minigolpe. Magari con la complicità della televisione di Stato, che è completamente nelle loro mani”. 

Il cuore più europeo della Grecia questa volta non torna a casa per votare. Mikis Theodorakis, 63 anni, monumento vivente della musica e dell’antifascismo greco, il 18 giugno se ne resta in volontario esilio a Parigi, in questo suo appartamento al quinto piano dietro i giardini del Luxembourg. Non partecipa alle doppie elezioni politiche ed europee che, secondo ogni previsione, sconvolgeranno il Parlamento ellenico: dopo otto anni, infatti, dovrebbe finire il regno del socialista Andreas Papandreu.

Theodorakis, come molti greci, è deluso dalla politica perché la ama visceralmente. Figlio della buona borghesia di Chios, a 18 anni divenne partigiano contro gli invasori tedeschi e italiani. Catturato e condannato a morte, sfuggì di poco al plotone di esecuzione: approfittò di un improvviso attacco nazista per darsela. Durante la guerra civile venne internato nel campo di concentramento di Makronesos, dove si ammalò di tubercolosi. Rilasciato nel ’49, fu nuovamente imprigionato tre anni dopo. Tempi duri, quelli, per i comunisti come lui. Nel ’54 la prima fuga a Parigi, per studiare al conservatorio con Messiaen e Bigot. Ma era già un famoso compositore di piano: la Covent Garden Opera di Londra gli offrì un contratto, e lui mise in musica i versi di poeti greci come il Nobel George Seferis. Nel ’60 il ritorno in Grecia, sempre col tarlo della politica. 

Collaborò con il deputato di sinistra Gregorio Lambrakis, e quando questi nel ’63 venne assassinato accusò apertamente i reali greci di aver ordinato il delitto. Deputato socialista nel ’64, due anni dopo la radio bandì le sue opere. E nel ’67 i colonnelli del golpe lo arrestarono di nuovo. Confinato in un villaggio inaccessibile del Peloponneso, riuscì comunque a far arrivare al regista Costa Gavras la colonna sonora per il film Z, l’orgia del potere, che descrive l’inchiesta Lambrakis. Le proteste internazionali lo liberarono nel ’70, e da Parigi Theodorakis tornò in Grecia quattro anni dopo, alla fine della dittatura. Nell’81 l’elezione al Parlamento, nel partito comunista filosovietico. La rielezione nell’85, poi la rottura: “Tre anni fa mi sono dimesso da deputato perché la politica in Grecia è caduta troppo in basso", ed è tornato a Parigi dove vive sei mesi all’anno (gli altri sei li passa a Corinto).


Ma le avventure di Mikis non sono finite. Un mese fa grande scandalo ad Atene: esce nelle librerie la biografia di Costantino Mitsotakis, leader del partito di destra Nuova Democrazia, e lui firma la prefazione. Poi in un’intervista dichiara che la destra è meglio dei socialisti: “La linea di rottura non è più fra destra e sinistra, ma tra ladroni e gente onesta". E oggi spiega all’Europeo perché i socialisti, per rimanere al potere, secondo lui sono disposti a tutto. 

“In questi anni Ottanta il partito socialista, il Pasok, è andato molto avanti nella corruzione. Ma non ha corrotto solo se stesso, come dimostrano le centinaia di miliardi in tangenti del bancarottiere Giorgio Koskotas. Con il suo populismo ha creato vaste clientele fanatizzate. Ci sono interi strati sociali, ormai, che per la propria sopravvivenza dipendono dal sistema di potere socialista: una specie di subfascismo”.

Simile al peronismo argentino?

“Peggio. Non so se saranno pronti ad accettare la disfatta. E allora utilizzeranno ogni metodo: frodi elettorali, manipolazioni dei risultati con l’aiuto dei mass media… fino al golpe. Ma lo sa che ci sono dei paesi di campagna, feudi socialisti, dove i presidenti di seggio si sono rifiutati di avventurarsi?". 

Il nuovo incubo di Theodorakis si chiama Andreas. Così, con il nome di battesimo, il musicista chiama sempre il premier Papandreu, il 71enne patriarca despota del socialismo greco che Theodorakis si trova di fronte da un terzo di secolo. Da solo un anno, invece, il settuagenario ha abbandonato la moglie e si è messo con l’ex hostess Dimitra Liani, 33 anni, che Theodorakis come tutti i greci chiama familiarmente Mimì (vedere riquadro).

 

Mimì e Andreas riescono a dispiacere a Theodorakis perfino quando vanno fuori a cena la sera: “Sì, perché naturalmente Andreas è un ignorantone. Non per niente il suo governo dedica alla cultura solo lo 0,4 per cento del bilancio. Lui non è mai stato a teatro, a un concerto sinfonico, a un balletto. Dice che è un tecnocrate, che non ha tempo per queste cose. In compenso, trascina Mimì in posti tremendi, quelle taverne da suburra chiamate ‘skiladika’ che sono diventate un po' il simbolo dei nuovi ricchi oggi in Grecia. Posti carissimi, dove si paga anche mezzo milione di dracme a sera [quattro milioni di lire italiane, ndr] e dove suonano una musica barbara di tipo arabo afghano. Ma il peggio è che Andreas per farsi ammirare da Mimì si lancia spesso a ballare il ‘cifteteli’, una specie di danza molto femminile…” 

L’uomo che ha fatto riscoprire il folk greco a tutto il mondo, e che ha fatto ballare il sirtaki ad Anthony Quinn in Zorba, è insomma disgustato da Andreas in tutti i campi. C’è molto di personale in quest’odio: “Non posso dimenticare che fu anche grazie a Papandreu se i colonnelli arrivarono al potere in Grecia. Nella prefazione al libro di Mitsotakis racconto un famoso episodio del ’66, quando l’allora ‘giovane’ Andreas rifiutò, con i suoi 50 deputati, di votare contro il governo che stava preparando il golpe. Io allora avevo fiducia in Papandreu, mi piaceva questo borghese che pencolava a sinistra. Così, durante un colloquio a tu per tu, ci accordammo per far cadere il governo: mi diede la sua parola. Ma al momento del voto, quando io stesso facevo l’appello nominale, dopo il nome ‘Papandreu’ si sentì una vocina dietro una colonna che disse ‘sì’. Poi spiegò che non voleva dividere il partito centrista di suo padre. Ecco, quella volta l’unico che votò assieme a noi della sinistra fu proprio Mitsotakis”.


Di fronte al suo pianoforte, circondato da fogli svolazzanti di partiture, Theodorakis commenta nel suo tuttora sbilenco francese l’ultimo anno di battaglie politiche greche, basate soprattutto sulla circonferenza dei seni di Mimì e sulle tangenti di Koskotas: “La Grecia è proprio lontana dall’Europa. E nel suo decennio al potere Andreas ha fatto del suo meglio per allargare la distanza. Negli anni Settanta l’inflazione media era stata del 14 per cento, in questo decennio è balzata al 20, la percentuale più alta della Cee. Questo perché Papandreu ha dovuto nutrire con i soldi dello stato le sue clientele, gente che produce solo vento e vende l’aria, proprio come Koskotas. E infatti il deficit pubblico, che prima dei governi socialisti rappresentava il 40 per cento del prodotto annuale, è aumentato all’80 quattro anni fa e addirittura al 97 per cento di oggi. È la proporzione più alta d’Europa [quella italiana è del 60 per cento, ndr]”.

Theodorakis, se lei votasse a chi andrebbe la sua preferenza?

“Probabilmente alla sinistra unita, visto che per la prima volta dopo vent’anni i due partiti comunisti sono riusciti a raggiungere un accordo. È sempre stato un mio obiettivo, quello dell’unità”.

Lei quindi si considera ancora marxista?

“No. Per quarant’anni ho dato l’anima e anche il corpo per il comunismo. Speravo in un sistema che avrebbe liberato l’uomo. E invece il risultato sono regimi dove tutto il potere è concentrato in una piramide. Attorno, come attorno a ogni piramide, il deserto: politico, culturale, produttivo. In Cina, lo abbiamo visto con il massacro di piazza Tian an men, c’è questo sistema barbaro e bestiale per cui un miliardo di persone dipendono dalle decisioni di tre vecchi. Ma anche in Unione Sovietica sono scettico su Gorbaciov: tuttora il Politburo concentra su di sè un potere inumano. Sarebbe come se il presidente degli Stati Uniti fosse responsabile in tutti i campi possibili delle attività umane: non solo politica, ma anche educazione, economia, cultura, informazione… Assurdo”.

Però continuerà a votare per i comunisti.

“Anche loro ormai non sono più marxisti. E non andranno oltre il 15 per cento. Io mi sono dimesso da deputato nell’86 anche perché il Pc sottovalutava il pericolo di Papandreu. Vedevo la corruzione crescente dei socialisti, mentre i comunisti sono sempre stati servili nei confronti di Andreas, in nome della lotta comune contro il fascismo. Adesso, per esempio, molti dei quadri comunisti sono finiti nel Pasok. Ma ormai la destra greca ha passato gli esami di democrazia, non è più quella della guerra civile o dei colonnelli. È una destra europea, efficiente: non potrebbe che fare del bene alla Grecia in questo momento, dopo tanti anni di demagogia socialista”.


Quindi lei auspica un governo di destra?

“L’importante in questo momento è cambiare aria, fare pulizia, eliminare le clientele, avvicinare la Grecia all’Europa. Solo la destra ha i numeri per farlo. E poi Mitsotakis è un liberale, ha una grandissima esperienza, è deputato da quasi mezzo secolo, è stato ministro dell’Economia e degli Esteri. È lui, in Grecia, il più vicino al prototipo del politico europeo, deideologizzato, capace di garantire il funzionamento dei diritti democratici, senza demagogie. Certo, è per il libero mercato, fa gli interessi dei capitalisti. Ma è una cura che farà avanzare la Grecia, portandola al livello dell’economia europea. Invece i socialisti cercano ancora di sfruttare il ricatto della destra fascista, del fantasma della guerra civile”.

In politica estera la destra sarà fedelissima alla Nato. E potrebbe interrompere il disgelo con la Turchia iniziato da Papandreu negli ultimi anni.

“L’antiatlantismo di Andreas è sempre stato solo retorico. In realtà lui è un ottimo amico degli Stati Uniti, non ha mai pensato di chiudere le basi americane in Grecia come promette in ogni suo discorso. La sua ex moglie Margaret, americana, ha dichiarato in pubblico che Washington preferisce i socialisti alla destra, perché sono riusciti a mettere in un angolo i comunisti. Quanto alla Turchia, Andreas con la scusa della minaccia di Ankara impone alla Grecia la più alta percentuale di spese militari dell’Ovest: il 7,2 per cento del pil contro il 7 degli Stati Uniti, il 6,5 della Turchia o il 5 di potenze nucleari come Francia e Gran Bretagna”.


Sulla parete sopra la scrivania campeggia un poster che annuncia una tournée di Theodorakis in Turchia: il maestro ha sempre cercato di migliorare i rapporti con i vicini nemici.

E Melina Mercouri? Vent’anni fa, assieme, eravate il simbolo della lotta antifascista degli intellettuali greci. Oggi lei preferisce Papandreu: continua a essere ministro della Cultura.

“La sua è una situazione triste”, non infierisce Theodorakis, “Melina è vittima delle circostanze”.

Grecia culla della democrazia e della filosofia politica, ridotta oggi a un’operetta in cui lo stesso ministro dell’Interno ammette che ben 160mila cittadini, il due per cento dei votanti, sono iscritti due volte alle liste elettorali con stesso nome, cognome, data di nascita e nome di padre. Com’è possibile?

Theodorakis se la prende ancora con Papandreu: “Andreas era una grande personalità, carismatica. Ma, come tutti i motori, può usare la sua forza per andare sia avanti, sia indietro. E lui ha scelto la retromarcia”.  

Friday, June 16, 1989

La strage di piazza Tien anmen

Europeo, 16 giugno 1989

Guerra incivile

Il regime cinese stermina i ribelli

7000 morti, decine di migliaia di feriti . Cosi' e' stato abbattuto nel sangue il fantasma della liberta' evocato dagli studenti

dal nostro inviato a Pechino Mauro Suttora

Il biglietto per assistere in prima fila a una delle piu' bestiali stragi del secolo costa 390 yuan (150 mila lire) al giorno. E' il prezzo della stanza numero 1129 del Beijing Hotel , l' albergo di Pechino a poca distanza dalla piazza Tienanmen . Dal balcone all' undicesimo piano domino gli ultimi 200 metri della Changan , il vialone lungo 30 chilometri ormai tristemente famoso in tutto il mondo per i carri armati che vi scorrazzano dal 4 giugno .

Sono i tank del 27 corpo d' armata giunto dallo Shanxi agli ordini di Yang Baibing , fratello minore del presidente della Repubblica Yang Shangkun , un " duro " . Carri armati di famiglia , insomma . Il 38 corpo d' armata , invece , presidia la parte orientale di Pechino . Sembra che stia dalla parte dei riformisti di Zhao Ziyang , e che adesso le due armate si sparino fra loro . Nelle altre citta' della Cina , il caos . Shanghai e' in mano agli studenti . Tientsin ai riformisti . A Chengdu , capitale del Sezuan , 300 morti e mille feriti . Barricate a Xian .

I " signori della guerra " , triste eredita' della storia cinese , sono dunque tornati ? Si' , anche se oggi non agiscono piu' in proprio . A guidarli sono i " mandarini " del partito comunista , i capi delle varie correnti che si disputano il potere in Cina . Ed e' ai tre " mandarini " che hanno avuto la meglio nel regolamento di conti scatenato dalla protesta degli studenti , Deng Xiaoping , Yang e Li Peng , che la storia imputera' l' orrendo misfatto di questi tank con i cingoli macchiati di sangue . Tank che non hanno esitato a schiacciare i corpi dei civili inermi che tentavano di bloccarli a mani nude o con qualche sasso .

Alla fine della Changan , oltre l' incrocio dove era l' ombrellone per il vigile che incanalava i fiumi di bici , adesso c' e' un cimitero : gli sterminati 40 ettari del luogo sacro al comunismo cinese , la grigia Tienanmen , la piazza della Pace celeste . Ma non c' e' piu' pace in Cina . Settemila manifestanti per la democrazia massacrati dall' esercito dei " mandarini " . I soldati hanno bruciato i cadaveri degli studenti , martiri ventenni che hanno resistito fino all' ultimo sotto il monumento degli Eroi . La statua della Liberta' abbattuta : era stata per cinque giorni il monumento piu' fotografato del mondo . Una casta di gerontocrati assassini opprime un miliardo di persone solo grazie alla forza bruta . La nazione piu' popolata della Terra sull' orlo della guerra civile . E questo il dramma che si svolge sotto i nostri occhi , dai balconi del Beijing Hotel .

Venerdi' 2 giugno , sera . Dalla stanza 1129 il panorama era lo stesso delle precedenti sei settimane : un fiume di bici nere , tutte uguali (quelle pesanti coi freni a bacchetta) , guidate da cinesi di ogni eta' scamiciati , tricicli con intere famiglie a bordo , la solita folla che si recava fino alle due tre di notte nella piazza Tienanmen , per assieparsi attorno alla statua della Liberta' , diversa da quella di New York solo perche' reggeva la fiaccola con entrambe le braccia .

Ed ecco i soldati . I soldatini verdi , a vederli da quassu' . La troupe televisiva di Hong Kong si precipita a filmare : gran parte delle riprese di questi giorni sono loro , perche' ci mettono solo tre ore a spedirle in cassetta via aereo alla colonia britannica . Ma , esattamente come due settimane prima , anche questa volta la folla nonviolenta vince : si assiepa attorno alla colonna di soldati , parla , la convince , la avvolge , la inghiotte . I soldatini scompaiono , non sono armati , e non osano tirar fuori i manganelli . C' e' chi dice che siano stati gli strumenti di una calcolata manovra dei " mandarini " : li hanno mandati avanti per giustificare poi l' arrivo dei duri del 27 corpo d' armata .

La notte di sabato 3 giugno questi ultimi fanno le cose in grande . Si presentano in viale Changan con blindati , camion e carri armati . Lunghe colonne corazzate avanzano a notte fonda . Ormai e' domenica e nella piazza Tienanmen rimangono solo poche migliaia di persone . Il tam tam funziona egualmente : la marea umana disarmata si ricrea come d' incanto . Ma adesso , ecco dei botti secchi : partono i gas lacrimogeni . I soldati se ne stanno sui camion e dietro le camionette , questa volta non si lasciano avvicinare . La folla allora rimuove le barriere di cemento e metallo che separano le corsie per le auto da quelle per le bici e crea barricate . Vengono sacrificati anche qualche carretto dei gelati e qualche bici .

Ma nel fumo acre che sale , fra le urla di rabbia e di paura , e nel rumore dei blindati che copre quello degli slogan gridati , si compie il dramma : i soldati cominciano a sparare ad altezza d' uomo . Per qualche minuto la folla non indietreggia . Crede siano solo altri lacrimogeni . Poi invece sangue , corse verso le ambulanze coi carretti , assalti alle autoblindo piu' isolate . E altri spari . La nonviolenza e' finita . Adesso incomincia la guerra .

Nella hall dell' albergo i turisti americani sono spariti . Anche taxi e riscio' non ci sono piu' . Un poliziotto in borghese blocca i giornalisti e i fotografi che vogliono raggiungere la Tienanmen : " C' e' il coprifuoco , se andate fuori vi sparano " . Usciamo lo stesso , con un fazzoletto bagnato di limone sul naso per respirare nonostante i lacrimogeni .

Chissa' se Liu e Bao , i due universitari che ho conosciuto bene in questi giorni , sono sulla Tienanmen , sotto le tende con le bandiere rosse dei loro college , o all' universita' , o a casa . O gia' morti . Non lo sapro' mai . C' e' un ingorgo umano che impedisce di raggiungere la piazza . Molti studenti , eccitati , si stanno lanciando a gruppetti di dieci venti verso i blindati . Ma piano piano i militari avanzano nel centro della strada e noi scappiamo a rifugiarci dentro la hall dell' albergo .

Quando usciamo di nuovo e' troppo tardi : siamo dall' altra parte della " trincea mobile " , in zona " liberata " dall' esercito del popolo . Verso le quattro di domenica mattina rinasce la battaglia , ma questa volta a situazione invertita : la folla di civili preme sui militari che adesso presidiano , sigillandola , la piazza .

Risaliamo sui balconi a luci spente : ci hanno avvertiti che l' esercito spara anche su chi si affaccia alla finestra . Inutile . Non si vede quasi piu' niente , a causa del fumo dei lacrimogeni , dei roghi di alcune barricate e del fuoco appiccato a un camion a duecento metri di distanza . Ma in fondo , sulla piazza , distinguiamo ancora la sagoma bianca della statua della Liberta' . Ogni ora , in parecchie stanze , le radio a onde corte si sintonizzano su Bbc e Voice of America per sapere quel che succede nel resto di Pechino . Giungono infatti notizie di scontri ovunque . Ma anche i corrispondenti delle radio ne sanno quanto noi .

Al mattino , ci dicono che la piazza e' stata " ripulita " . La statua della Liberta' non c' e' piu' . E certamente non ci sara' piu' quel poster satirico , nel sottopasso pedonale della Changan Jie , che raffigurava Deng Xiaoping , Li Peng e il presidente Yang Shangkun alla guida di lussuose Mercedes Benz , e attorno al quale si formavano sempre capannelli curiosi e divertiti . " Le tende le hanno bruciate , ma i ragazzi si sono arresi e li hanno lasciati andare . Cantavano l' Internazionale " , racconta un giovane sul marciapiede .

Ma poi di nuovo , improvvisamente , l' isolato della Changan di fronte al Beijing Hotel ridiventa una trincea di guerra . E questa volta , anche se dai balconi si riesce a distinguere poco di quel che succede sotto le folte chiome degli alberi , i morti sono almeno una decina , tutti civili . Suonano le sirene delle ambulanze " dono del governo italiano " (l' Italia da' alla Cina una fetta degli aiuti per i paesi sottosviluppati) .

Il Beijing Hotel e ' un albergo pieno di spie , a cui gli studenti cinesi non volevano avvicinarsi troppo neanche nei giorni in cui la loro primavera sembrava trionfare : " Ci sono poliziotti in borghese che fotografano tutti i cinesi che entrano per parlare con occidentali " , mi aveva avvertito Liu Dong , l' universitario ventunenne di ingegneria tessile che avrei preferito intervistare davanti a un te ' al gelsomino nel bar dell' albergo invece che nei 35 gradi del " camping per la democrazia " sulla Tienanmen . Un albergo di regime , dove negli anni Cinquanta Mao Zedong e Ciu Enlai venivano a incontrare ospiti eccellenti come Voroscilov e Nasser , e in cui ancor oggi gli impiegati della reception parlano un inglese assai scadente . E' per questo, oltre che per i suoi pessimi ristoranti, che i giornalisti occidentali stavano lontani dal Beijing Hotel , preferendogli lo Sheraton vicino all' aeroporto e alle ambasciate , o lo Shangri La , ultimamente impreziosito dalla sua vicinanza alle universita' .

Gli unici ad assaporare appieno il grosso pregio dell ' hotel la vicinanza alla Tienanmen erano i fotografi e i giornalisti della Tv , che per un mese e mezzo hanno potuto lavorare dietro l' angolo , andando sulla piazza a piedi per immortalare la voglia di democrazia della Cina , e poi la strage . " Abbiamo amici in tutto il mondo " : lo slogan " rivoluzionario solidarieta' internazionale " che campeggia nella hall non e' mai stato piu' vero che nelle ultime settimane , quando tutto il mondo ha seguito col fiato sospeso l' incredibile sfida degli studenti al regime di Pechino .

E anche l' anticipo di un' ora con cui gli inservienti dell' hotel Beijing cambiano , ogni sera alle undici , i tappeti dei sei ascensori con su scritto il nome del giorno in corso , mai e' sembrato piu' appropriato : simbolizza la tremenda voglia che il tempo passi in fretta , che questi giorni della loro vergogna finiscano , l' impazienza senile dei gerarchi comunisti che alla fine li ha traditi , facendoli somigliare a Hitler .

Il gerontocomio era gia' ripiombato a Stalin e a Mao giovedi' primo giugno quando aveva ordinato , come ai tempi eroici , che dalle finestre del Beijing Hotel e di tutti gli altri alberghi e uffici pubblici venissero srotolati i vecchi striscioni rossi con su scritto " Vigiliamo contro il liberalismo borghese " . In quali scantinati , con quanta naftalina sono stati conservati questi datati inviti alle masse ? O forse erano inviti per i bambini , visto che proprio il primo giugno il regime cinese festeggiava in pompa magna la " Giornata internazionale del bambino " , in commovente sintonia con le direttive dell' Unicef .

Peccato che Deng , cosi' sollecito verso gli infanti , spari loro addosso non appena essi crescono e diventano studenti . Ma la maschera di buon nonno di Deng e' caduta in pochi giorni . E mentre il China Daily , il quotidiano in lingua inglese di Pechino , la scorsa settimana copriva la realta' della rivolta studentesca con notizie sul raccolto del grano e sulle leggi antifumo , lunedi' 5 giugno e venuto il secchissimo comunicato del governo : "Abbiamo cominciato a regolare i conti con la controrivoluzione, e andremo fino in fondo" .

I toni liliali del surreale " stato di legge marziale " che il premier Li Peng aveva avventatamente decretato su Pechino il 20 maggio sono lontani . Nessuno pero' - diplomatici , giornalisti , studenti - venerdi' prevedeva un attacco cosi' duro da parte dei " signori della guerra " . Adesso invece tutti dicono tutto e il contrario di tutto : Deng e' morente , Deng sta benissimo e comanda lui in persona i soldati , Deng e' stato esautorato da Yang Shangkun e dai militari , i militari sono uniti , i militari sono divisi .

Una certezza : i morti sono migliaia . E una quasi certezza : la tragedia di Pechino non finisce qui . Venti carri T 59 sul cavalcavia Jianguomenwai , infatti , sono girati in direzione opposta alla piazza Tienanmen : aspettano l' arrivo di altre unita' fedeli ad altri e diversi " mandarini " da Tientsin . I conti si salderanno tra " signori della guerra " ?

A un chilometro dal Beijing Hotel , oltre la Tienanmen , c' e' la nuova Citta' Proibita dove i dirigenti comunisti lavorano e vivono , uscendone raramente . Questo asilo geriatrico, chiamato Zhongnanhai , e' uno splendido parco di 1 . 500 ettari dai prati verdi e rosa . Per uscire dal loro Eden i gerontocrati hanno 18 tunnel segreti . Uno porta direttamente all' aeroporto . Verra' usato presto ? Ma un altro tunnel passa sotto il viale Changan e li collega al Palazzo del popolo , quello sulla Tienanmen dove gli studenti per un mese e mezzo chiedevano si riunisse il Congresso nazionale del popolo .

Richieste ragionevoli , rispettose , patriottiche . Assai poco " controrivoluzionarie " : solo un po' piu' liberta' e un po' meno corruzione . Nel Palazzo del popolo pare che domenica un giovane soldato abbia sparato a Li Peng . Lo ha mancato . Ed e' stato subito trucidato , come i suoi coetanei sulla piazza.

Mauro Suttora

Friday, June 09, 1989

Tien an men, gli studenti

Europeo, 2 giugno 1989

Mal di Cina

55 giorni a Pechino: perche' gli studenti vogliono restare in piazza

Democrazia e diritti umani e' il ritornello di tutti a Tien an men. Ma dietro slogan e cartelli si cela l'amara realta' di un paese povero e di una partitocrazia corrotta. Che i giovani vorrebbero cambiare con la non violenza per credere ad un futuro

dal nostro inviato Mauro Suttora

La signorina Wu Mei Li ha 18 anni e ne dimostra 13. Porta un vestitino rosa, ha un fioccone sui capelli, e per venire a Pechino si e' messa le scarpe di vernice nere col tacco. Frequenta il primo anno di universita' a Xian, l'antica capitale dell'impero cinese a 900 chilometri da Pechino. Facolta': lingue straniere. Da grande fara' la traduttrice, studia l'inglese da un anno e lo parla gia' piuttosto bene. Sa anche il giapponese.

Adesso Wu si aggira in piazza Tienanmen con gli occhi sgranati per la felicita', la stanchezza e la meraviglia, tenendo per mano la sua compagna di classe Chen Hong Moi. Ci hanno messo due giorni per arrivare in treno , lei e altri trenta universitari della sua facolta' . Ma ne valeva la pena : l' ultimo week end di questo " maggio rivoluzionario " cinese rimarra' a lungo per la piccola Wu quello piu' eccitante della sua vita . E la prima volta che viene a Pechino . " Siamo scappate giovedi' , senza dire niente ne' alle nostre famiglie , ne' al preside di facolta' . Se no , non ci avrebbero permesso di venire " . Sono arrivate venerdi' sera e hanno dormito in piazza , per terra.

La notte e' tiepida a Pechino , non fa freddo , non c' e' umido . Sacchi a pelo e stuoie le distribuisce Chai Lin , studentessa ventenne che in questo mese di lotte si e' conquistata sul campo il pomposo titolo ufficiale di " Presidente della protezione della Tienanmen " . E lei a organizzare i 10 mila ragazzi che continuano imperterriti a occupare l' immensa piazza sacra della capitale cinese . Cibo , soldi , acqua , tende , pulizia , megafoni , gabinetti , servizio d' ordine : Chai Lin si occupa di tutto , e per questo adesso e' ricercata dalla polizia , che arresterebbe volentieri i leader per decapitare il movimento.

Il regime ha gia' bloccato i conti bancari su cui finivano i soldi per la solidarieta' agli studenti , assegni provenienti da tutto il mondo . Non e' mai echeggiata finora , pero' , l' accusa di ricevere soldi dall' estero . Quella di Chai Lin e' , comunque , una clandestinita' relativa . La sera di sabato 27 maggio e' riapparsa al comizio sotto il monumento agli eroi della Rivoluzione (quella comunista di 40 anni fa) e , dall' alto del suo metro e mezzo di statura , ha arringato gli studenti con un discorso calmo e ragionato , del tutto privo di retorica .

C' erano anche gli altri due leader piu' in vista della rivolta studentesca : i pallidissimi e glabri Wan Dan (con i suoi occhialoni panorama alla Spike Lee e i capelli alla Beatles) e Wuercaixi (diventato famoso quando ha osato rimproverare al premier Li Peng di essersi presentato in ritardo a uno dei pochi incontri che l'establishment ha concesso agli studenti) . Lo slogan degli studenti di Berkeley, un quarto di secolo fa , era : " Non fidatevi di nessuno oltre i trent' anni". I contestatori cinesi di oggi sono molto piu' giovani : quasi tutti sulla carta d' identita' esibiscono il ' 68 e dintorni come data di nascita.

La rivoluzione di Wu Mei Li e' durata poco . E dovuta tornare a Xian gia' domenica sera, " e speriamo che il preside non si accorga della nostra assenza " . Altre venti ore di treno filate , con i controllori ferroviari ufficialmente redarguiti dal governo perche' non fanno pagare il biglietto ai ragazzi che accorrono a Pechino . Wu ha fatto in tempo , comunque , a visitare un po' dei viali della metropoli , sfilando con il corteo di domenica 28 .

Ti piace Pechino , Wu ? " Si' , perche' e' la capitale del mio paese " . Perche' hai voluto anche tu venire fin qui a protestare , patriottica Wu ? " Perche' voglio democrazia , diritti umani e giustizia " . Cos' e' la democrazia ? " Riformare il governo " . E i diritti umani ? " Poter andare dove si vuole . Io , per esempio , vorrei venire a lavorare come guida turistica a Pechino , ma so gia ' che non potro' farlo . Troppi raccomandati , da padri potenti , dal partito . . . Ma tu piuttosto , e' vero che vieni dall' Italia ? Ah , e' il paese della moda , tutti quei bei vestiti . . . Me lo fai un autografo , mi dai il tuo indirizzo ? " .

Tutti chiedono autografi a tutti , in piazza Tienanmen . Ragazzi e ragazze fanno amicizia offrendosi a vicenda quaderni aperti e penne per firmare . Poi , quando cala il fresco della sera , da qualche tenda si leva il suono della chitarra ; canzoni pop cinesi , ma con melodie che sembrano estratte di peso dai successi di Al bano e Romina.

Forse questa e' la rivoluzione piu' dolce della storia . In un mese e mezzo di manifestazioni , con la terza superpotenza della Terra sbeffeggiata da ragazzi digiuni di politica , solo qualche contuso in una lite periferica con un gruppetto di soldati . Dove hanno imparato la nonviolenza i ragazzi della Tienanmen ? " Gandhi ? Ah , si' , il padre dell' indipendenza dell' India " , borbotta Liu Dong , 21 anni , secondo anno di ingegneria tessile all' universita' di Pechino , vicino alla bandiera rossa con su scritto il nome della sua facolta' . " Martin Luther King ? L' abbiamo studiato anche lui al liceo . Grandi uomini entrambi , hanno lottato per la democrazia e i diritti umani . . . Ammiro tutti quelli che lottano per la giustizia " , sentenzia definitivo .

Inutile cercare di parlare troppo di politica con i giovani cinesi dell' 89 : idee poche , semplici e senza fronzoli . Il ritornello " democrazia e diritti umani " . Un " no al comunismo " dato quasi per scontato ma mai gridato apertamente : tanto quello economico si va sgretolando da dieci anni . E poi perche' pestare inutilmente i calli a ideologi ottantenni ? Questi studenti sono pragmatici e astuti . " Che facciamo se l' esercito viene a sgomberarci ? Ce ne andiamo noi via per primi " , ride Liu , " e poi torniamo in piazza quando se ne vanno i soldati " . Non opporrete resistenza ? " No " , e ridiventa serio , " per la democrazia si puo' lottare solo pacificamente . Anche i soldati devono capire quello che vogliamo " .

Forse aveva ragione Gandhi : la nonviolenza e' antica come le montagne . Ma insomma , il maggio cinese dell' 89 ( " Le 1789 de la Chine " , in francese su un cartello al corteo del 28 maggio) ha vinto o ha perso ? Il detestato premier Li Peng e' sempre li' nella cittadella segreta dove i gerarchi comunisti vivono e lavorano , senza uscirne mai . Anzi , si e' rafforzato . Pero' sono sempre li' anche gli studenti , dopo ben dieci giorni di legge marziale inapplicata . In teoria , l' esercito dovrebbe controllare la citta' . In pratica , Pechino in questi giorni e' una delle citta' piu' smilitarizzate del mondo : non si vede in giro ne' un poliziotto ne' un soldato .

Le uniche dieci divise in piazza Tienanmen sono quelle delle guardie al mausoleo di Mao , alla bandiera e al Palazzo del popolo . I 150 mila soldati chiamati dal dittatore Deng Xiaoping per " fermare il caos " non sono ancora riusciti a entrare in citta' . E in citta' il caos non c' e' : a parte Tienanmen , la vita scorre tranquilla , la gente lavora e riempie come sempre di bici le strade .

Ecco un comico resoconto apparso sul quotidiano dell' esercito : " I soldati e gli ufficiali trasferiti a Pechino per imporre la legge marziale dicono che prima o poi riusciranno a convincere i residenti . . . Tutte le truppe hanno aggiunto capitoli gloriosi agli annali dell' esercito popolare " . Ora , se e' certamente glorioso per un esercito il non sparare sui propri concittadini , e' vero anche che esso e' stato bloccato da una marea umana . Esattamente come capito ' ai militari pro Marcos nell' 86 a Manila .

Il Tg del 29 maggio ha informato che i soldati , dopo essere stati costretti a dormire sui camion per diversi giorni , si sono anche loro sistemati in tenda . Ma molto lontano dalle tende degli studenti in Tienanmen . Il Tg non ha detto , pero' , che il comandante del 38 corpo d' armata , proveniente da Baoding , si e' rifiutato di muoversi perche' tra i manifestanti c' e' sua figlia . E pare che anche il ministro della Difesa stia con gli studenti.

Che strano esercito , che simpatica legge marziale , che buffo dittatore ! L' unica carica attuale di Deng e' , ufficialmente , quella di presidente della commissione forze armate . Ma e' lui il solo , vero padrone della Cina . " Possiamo soltanto aspettare che muoia " , commenta fatalista Bao Gang , 22 anni , studente di relazioni internazionali assoldato in questi giorni come interprete da una Tv americana . Altri sono piu' cattivi : " Deng , ti si e' atrofizzato il cervello , vattene in pensione a giocare a bridge ", intima un poster sulla piazza .

Minuscolo , malfatto e macerato dai suoi 84 anni , il grande vecchio non vuole ritirarsi . Gorbaciov e Raissa , nel loro storico incontro di due settimane fa , lo hanno quasi preso in braccio , stringendolo affettuosamente come un bambolotto . Ma il vecchietto ha ancora una tempra d' acciaio . Il suo passatempo preferito e' mangiarsi i propri attempati delfini ogni volta che questi simpatizzano con gli studenti : Hu Yaoban due anni fa , Zhao Zyang adesso .

Zhao , 70 anni , segretario del partito comunista , lo ha liquidato cosi' : " Ho tre milioni di soldati dietro di me " . L' incauto Zhao gli ha risposto : " Io ho tutto il popolo cinese " . E lui gli ha spiegato : " Allora non hai nulla " . E invece il " nulla " durante questo maggio ha dimostrato di poter contare qualcosa , in Cina .

Gli studenti sulla Tienanmen sono uno schiaffo permanente in faccia a Deng . La loro primavera sembra adesso avere come avversario piu' temibile l' estate , che a Pechino e' gia' arrivata : con il suo caldo , i suoi 35 gradi , la tortura di stare seduti per terra sotto tende di cellophane tenute in piedi da canne di bambu' , o al riparo di qualche ombrellone .

Nell' afa , nelle lunghe ore di attesa , le notizie , vere e false , arrivano e si diffondono come cerchi di pietre buttate in uno stagno . Lunedi' 29 si e' alzata altezzosa l' ennesima sfida al regime : una statua della Liberta' di ben 20 metri , costruita in una sola notte dagli studenti con un' impalcatura di tubi . Naturalmente , l' hanno dedicata " alla democrazia , ai diritti umani e alla legalita " .

Martedi' 30 un improvviso thriller . C' e' chi giura che il governo sta per mandare i soldati all' assalto della statua . Immediatamente torna l' atmosfera di mobilitazione . Le fonti divergono , però c' e' chi valuta in un milione i pechinesi tornati sulla Tienanmen per difendere la Liberta' . Ma i soldati non si fanno vivi e la statua resta li' . Come Mitterrand con la sua piramide del cinese Pei al Louvre , piazzata sulla verticale dell' Etoile , anche gli studenti di Pechino hanno intaccato una storica prospettiva : quella fra il ritratto del presidente Mao e il mausoleo che lo fronteggia , un chilometro piu' in la' .

Adesso la maggioranza degli studenti (o forse una minoranza di arrabbiati , comunque la maggioranza di quelli che occupano Tienanmen) ha deciso di prolungare il sit in fino al 20 giugno . La proposta dei loro capi Wuercaixi e Wan Dan , di levare le tende alla fine del mese e di limitarsi a occupare la piazza ogni domenica , non e' passata . " Staremo qui fino alla vittoria " , annuncia Liu , fiero e inesausto . Quale vittoria , Liu ? Volete le dimissioni di Li Peng e Deng ? " No , ci basta la convocazione del Congresso nazionale del popolo " . Che e' quanto di piu' simile esista in Cina ai nostri Parlamenti : naturalmente non e' eletto , ma non e' neanche controllato totalmente dal partito . Si dovrebbe riunire nel palazzo in cui Gorbaciov e' dovuto entrare dalla porta di servizio , per non inciampare negli studenti . Il suo segretario e' convocato per il 20 giugno , e per questo i ragazzi della Tienanmen hanno scelto quella data come nuovo obiettivo .

Adesso pero' , giorno dopo giorno , aumentano le probabilita' di un intervento dell' esercito . Deng finora ha intelligentemente evitato la prova di forza , e ha usato i militari solo per purgare i liberali di Zhao . Ma se gli studenti in piazza diminuiranno , sara ' piu' facile sgomberarli . I segni di stanchezza ci sono . Non e' uno scherzo tenere occupata la piazza piu' grande del mondo . Dopotutto , gli studenti del maggio ' 68 a Parigi non si sognarono certo di occupare per un mese place de la Concorde , ne' gli italiani piazza del Popolo o gli americani Times square .

Nel " camping " studentesco rifiuti e cartacce svolazzano dappertutto e fermentano sotto il sole di mezzogiorno . Negli ultimi giorni sono arrivati nella piazza migliaia di studenti dalle altre citta' cinesi , accampandosi in permanenza . Gli universitari che abitano a Pechino , invece , in famiglia o nei college , possono andare a turno a dormire e a darsi una lavata a casa .

Liu ci mette un quarto d' ora in bici per raggiungere il suo appartamento : sono 40 metri quadrati dove si affollano in cinque . Oltre al fratello e ai genitori c' e' la nonna . " Mio padre e' d' accordo con me . Anche lui , dal ' 47 al ' 49 , fece parte di un movimento : quello di Mao contro il Kuomintang . E combatte' la guerra civile . Ma non e' iscritto al partito : allora i comunisti stavano dalla parte del popolo , adesso non piu' . Molti leader del Pc sono ricchi e corrotti . E anche i loro figli " .

Fra due anni , quando comincera ' a lavorare come ingegnere , Liu prendera' 55 yuan (15 mila lire) al mese , come tutti i giovani al primo impiego . Unico vantaggio : la leva non e' obbligatoria , e gli universitari sono troppo preziosi per non lavorare . Suo padre , pensionato , guadagna 200 yuan (60 mila lire) , che e' lo stipendio medio di professori e impiegati . E vero che un chilo di riso costa solo cento lire , e il biglietto del bus dieci . Ma e' comunque miseria nera , Terzo mondo , anche se nessuno muore di fame . Perfino la bici e' un lusso . L' auto , neanche parlarne : 20 mila yuan . Solo una famiglia su cinque ha il frigo .

Le ragioni della rivolta sono gia' tutte qui . Forza Wu , coraggio Liu ! Avrete trent' anni nel Duemila : il prossimo secolo sara' tutto vostro . E forse , con un po' di fortuna , riuscirete a farlo cominciare con qualche anno d' anticipo. Senza ammazzare nessuno, questa volta.

Mauro Suttora

Friday, May 12, 1989

I Verdi alle Europee 1989

L' Europa delle fronde

Contro corrente i verdi alle elezioni di giugno

Non hanno un' ideologia comune , se non abbattere il mercato unico , la Nato , il nucleare. Fra poco , quando probabilmente triplicheranno i seggi di Strasburgo, cosa faranno ? Per cominciare, litigheranno tra loro

di Mauro Suttora

Europeo, 12 maggio 1989

A Strasburgo sara' un'esplosione. Alle europee di giugno i Verdi triplicheranno i loro seggi e potranno formare un gruppo di una trentina di eurodeputati. I sondaggi sono unanimi. In Germania Ovest i Gruenen dovrebbero mantenere l'8 per cento e i sette eletti conquistati nell' 84, cosi' come i belgi confermeranno i loro due parlamentari. Ma fra un mese e mezzo, a dar loro man forte , piombera' a Strasburgo la valanga dei Verdi francesi: almeno dieci nuovi eurodeputati. E poi gli italiani (cinque, sei, anche di piu) , qualche spagnolo. Mancheranno solo i britannici , vittime del sistema elettorale maggioritario.

Quella dei Verdi sara', probabilmente, l'unica grande novita' del Parlamento che accompagnera' l' Europa all' appuntamento con il mercato unico del 1992 . " E noi siamo pronti ad approfittare del piccolo terremoto che provocheremo " , annuncia battagliero Antoine Waechter , capo dei Verdi francesi , " per batterci contro l' Europa dei mercanti , dei militari , del delirio automobilistico e dell' energia atomica " . Vediamo quindi , paese per paese , chi sono e che cosa vogliono questi nuovi protagonisti della politica continentale che , in nome della natura , stanno togliendo consenso e potere ai partiti tradizionali .

FRANCIA
Pochi lo sanno , ma e' stata la Francia, e non la Germania , la culla dell' ecologia politica in Europa . Nel '72 , quando in Italia Adriano Buzzatti Traverso e Aurelio Peccei venivano considerati poco meno che simpatici pazzi se parlavano di " limiti dello sviluppo " , a Parigi le " bicifestazioni " verdi contro le autostrade urbane del presidente Georges Pompidou gia' attiravano migliaia di persone . La Bretagna era in fiamme per l' opposizione alle centrali atomiche in costruzione , e sull' altopiano del Larzac venivano combattute epiche battaglie nonviolente tra militari e contadini che resistevano agli espropri . Il giornalista Andre' Gorz , uno dei fondatori del Nouvel Observateur nel ' 64 , teorizzava l' " addio al proletariato " in polemica con i sessantottini , e proponeva le sue " tesi per cambiare la vita " : consumare meno , produrre meno , conservare di piu' . Nel ' 73 agli ecopacifisti si uni' perfino un generale , Jacques de la Bollardiere , che su una barca di Greenpeace ando' a disturbare gli esperimenti atomici francesi a Mururoa , nel Pacifico . Riviste gioiosamente anarchiche come Gueule ouverte e Charlie Hebdo vendevano centomila copie . E nel ' 74 300 mila francesi votarono per il candidato presidenziale verde René Dumont , agronomo terzomondista . L' opposizione al massiccio programma nucleare dei tecnocrati parigini si ingrossava , e nel ' 77 i Verdi ottennero il 12 per cento a Nizza , il 20 per cento a Chambery . A Parigi l' " amico della terra " , Brice Lalonde , ebbe il 10 per cento , piu' che alle municipali di due mesi fa .

Insomma , " veniamo da lontano " , puo' dire oggi con orgoglio Waechter , 40 anni , ingegnere di Strasburgo che gia' nel ' 65 lottava contro un' autostrada in Alsazia ( " E vincemmo " , precisa) . Poi pero' , nell' estate ' 77 , lo choc : una manifestazione contro il Superphenix di Malville (la centrale al plutonio posseduta per il 30 per cento anche dall' Italia) viene caricata duramente dai Crs , la celere francese , e ci scappa il morto . Il riflusso oltralpe ha le tinte della paura , e cosi' lo " Stato atomico " descritto minuziosamente dal futurologo austriaco Robert Jungk riesce a portare a termine il piu' massiccio programma di centrali nucleari del mondo .

Negli anni Ottanta il consenso elettorale rimane (un milione di voti nell' 81 per il candidato verde Lalonde , altrettanti l' anno scorso per Waechter) , ma la ghigliottina che elimina i partiti sotto il 5 per cento causa parecchi danni . Alle europee dell' 84 , per esempio , il quorum non viene raggiunto , e incominciano i primi dissapori con i Verdi tedeschi che non vedono tornare indietro i soldi prestati per la campagna elettorale . Ma il fossato fra i Verdi francesi e tedeschi si allarga anche sul pacifismo : la Francia resta allergica al grande movimento contro i Cruise che invade le piazze europee fino all' 84 .

L' anno scorso , il fattaccio : i Gruenen tradiscono i fratelli d' oltre Reno , considerati non abbastanza di sinistra , e appoggiano il candidato presidenziale Pierre Juquin , comunista dissidente . Nessuna meraviglia , quindi , che all' annuale congresso dei Verdi europei , a Parigi un mese fa , non si sia fatto vivo nessun deputato verde di Bonn , tranne Petra Kelly . Gia' nei mesi scorsi i francesi hanno messo bene in chiaro le cose : " A Strasburgo vogliamo formare un gruppo verde , senza Verdi rossi " . Sara' burrasca con i tedeschi , molti dei quali si professano apertamente marxisti e di sinistra . Waechter e' un tipo molto concreto , preciso , di poche parole , privo di carisma e di senso dell' humour .

Insomma , l'esatto contrario di Marco Pannella e di certi retorici Verdi italiani . I suoi ispiratori : Ivan Illich (il filosofo che vuole semplificare e deprofessionalizzare la societa) e Gorz . I suoi chiodi fissi : l' energia nucleare ( " deve sparire " ) , l' auto ( " limitarla , fa piu' perdere tempo che guadagnarlo " ) , il mercato unico ( " distruggera' le regioni piu' deboli con la concorrenza selvaggia " ) . Antieuropeista ? " No " , spiega all'Europeo , " pero' siamo contro questa Cee , che vuole fare l' Europa unita solo con una sfrenata circolazione dei capitali e delle merci . Il tanto decantato 1992 e' una fregatura : per la gente normale non migliorera' nulla . Un esempio ? La politica agricola della Cee , che causa abbandono delle campagne , sovrappopolazione nelle citta' , inquinamento . Nel 2000 ben 15 milioni di ettari verranno ' ' congelati' ' in Europa , perche' produciamo troppo " . Voi cosa proponete ? " L' Europa e' un prezioso mosaico di differenze . Bisogna salvaguardarle : e' questa la nostra ricchezza . Con uno slogan : Europa delle regioni " . Non solo uno slogan , per i Verdi francesi : al terzo posto in lista c' e' Max Simeoni , leader nazionalista corso .

I candidati sono alternati : un uomo e una donna . Tutti si sono impegnati per scritto alla rotazione a meta' mandato . Nessuna apertura ai Verdi rossi di Juquin . Ma il loro programma , nonostante le accuse tedesche , non sembra affatto moderato . Vogliono che l' Europa mandi in pezzi la Nato , il disarmo unilaterale atomico negoziato con lo sviluppo delle liberta ' all' Est , alternative di difesa non armata . Tutt' altro che succubi del tabu' della " force de frappe " francese , insomma . Waechter gia' si presenta , sicuro di se' , come il leader di tutti i Verdi europei . Puo' farlo : dopo un decennio di vacche magre , infatti , i Verdi francesi hanno trionfato alle amministrative dello scorso marzo . Alcuni sondaggi li accreditano perfino del 15-18 per cento . " Il polo europeo dei Verdi si spostera' a sud " , propetizza l' ambizioso ingegnere .

GERMANIA OVEST
Petra Kelly , 41 anni, resta sempre la verde tedesca piu' ispirata. Ma e' come Danton: amata dal popolo , odiata da molti burocrati del suo stesso partito . E la burocrazia , anche fra i Gruenen , avanza : 50 mila iscritti , 5 mila eletti , milioni di marchi incassati dallo Stato per le " fondazioni " culturali amiche (l' ipocrita sostituto tedesco al finanziamento diretto ai partiti , che in Germania non esiste) , 44 deputati a Bonn e ben 250 impiegati nel gruppo parlamentare . Da cinque mesi i " realisti " , favorevoli ad allearsi ovunque con i socialdemocratici , hanno sconfitto i " fondamentalisti " . Questi ultimi non vogliono " sacrificare i principi ecologisti , femministi ed emancipatori al carrierismo politico " , come avverte Jutta Ditfurth , la ex segretaria che minaccia di abbandonare i Gruenen se , dopo le elezioni del ' 90 , questi accetteranno di andare al governo nazionale assieme alla Spd . La Kelly sta in mezzo : ne' con i fondamentalisti marxisti ex sessantottini , ne' con i realisti , " che stanno perfino per accettare la Nato " .

La bionda Petra , con il suo carismatico torrente di parole , ha affascinato anche i guardinghi Verdi francesi al congresso europeo di Parigi . E li ha mandati letteralmente in sollucchero quando ha attaccato i socialisti , bestia nera dei Verdi sia in Francia sia in Germania . A Parigi l' ex leader verde Lalonde e' passato direttamente a Mitterrand , che lo ha nominato ministro per l' Ambiente . " E in Germania , per raccattare voti " , avverte la Kelly , " certi Verdi si stanno socialdemocratizzando . I nostri veri partner non devono essere i socialisti , ma Solidarnosc , Greenpeace , Amensty . Non dobbiamo fare politica , ma antipolitica . Solo cosi' riusciremo a cambiare la politica , come ha fatto Solidarnosc in Polonia " . Anche la Kelly si proclama contraria alla Cee . Ma allora perche' accettate di entrare nel suo Parlamento ? " Per utilizzarlo come megafono per le nostre idee " , risponde Petra all'Europeo .

" Ma per me l' Europa e' anche quella dell' Est . Solo che , proprio mentre l' Ungheria vuole uscire dal Patto di Varsavia , alcuni nostri Verdi ' ' riscoprono' ' la Nato e addirittura rivalutano Adenauer " . E giu ' una bacchettata sulle mani agli europarlamentari Gruenen , che hanno pubblicato una cartina dell' Europa senza l' Est . " E nostra responsabilita' occuparci di quello che sta succedendo li' , dei tremila gruppi ecologici e antimilitaristi nati in Polonia , intrometterci negli affari interni di Germania Est , Romania , Cecoslovacchia che , come la Turchia in campo Nato , violano i diritti umani e gli accordi di Helsinki . Molte delle tanto lodate joint venture con cui Gorbaciov si sta aprendo all' Ovest sono antiecologiche . La Cee d' altra parte non si deve chiudere in se stessa ne' dove minacciare la neutralita' di paesi come Austria , Svizzera , Svezia , Finlandia . L' Europa unita dovra' comprendere l'Est ed essere tutta neutrale e smilitarizzata " .

Ma per ora l' unica solidarieta' internazionale dei Verdi europei e' andata all' Olp , con un documento assai squilibrato e violentemente antisraeliano proposto da un europarlamentare tedesco . Anche su questi temi di politica estera , probabilmente , ci saranno differenze nel nuovo Parlamento europeo fra Verdi di sinistra e Verdi nonviolenti . Per ora , fra i Verdi tedeschi c' e' tregua : all' ultimo congresso di Duisburg , in marzo , i tre nuovi cosegretari eletti rappresentano tutte le correnti . C' e' la " realista " Ruth Hammerbacher , 36 anni , la femminista radicale Verena Krieger , 28 anni , e il " centrista " Ralf Fucks , 37 anni . Ma la Kelly insiste : " Se diventiamo come i socialdemocratici , perche' mai ci dovrebbero votare ? " . Eterno dilemma di ogni minoranza .

BELGIO
Europa unita , Belgio diviso. Ci sono i Verdi valloni (Ecolo) e quelli fiamminghi (Agelv) , rigorosamente separati . Un eurodeputato ciascuno , fin dal 1984 . E nel Parlamento uscente i Verdi belgi hanno sofferto , perche' rappresentavano l' ala destra del gruppo Arcobaleno , che comprende anche ecologisti di sinistra come gli italiani di Dp e molti tedeschi . Paul Staes e Paul Lannoye aspettano quindi con sollievo l' arrivo dei francesi . Loro dovrebbero mantenere il 7 per cento dei voti , ma con uno stratagemma gli eurodeputati belgi saranno quattro invece che due : raddoppiano grazie alla rotazione e al " deputato supplente " .

OLANDA
L' attuale eurodeputato Bram Van der Lek , 58 anni , fa parte del gruppo Arcobaleno ma proviene dal Psp (Partito socialista pacifista) , che assieme al Partito radicale olandese occupa da decenni lo spazio dei Verdi . Cio' non ha impedito la nascita dei Groenen , che pero' hanno ottenuto risultati scarsi (1 , 3 per cento dei voti) . Grazie al sistema proporzionale , comunque , i Groenen hanno eletti all' Aja e ad Amsterdam.

LUSSEMBURGO
Dein Greng Alternatif ha due deputati e ottiene regolarmente dal 10 al 20% dei voti nelle municipali . Alle europee , pero' , dovrebbero avere il 16 per cento per conquistare uno dei sei seggi riservati al piu' piccolo paese della Comunita' : impossibile .

GRAN BRETAGNA
Il Green party e' letteralmente cancellato dal sistema elettorale uninominale ( " a causa del quale siedono a Strasburgo molti piu' conservatori di quelli che dovrebbero esserci " , denuncia la signora Jean Lambert) . Tuttavia , continuano imperterriti a presentarsi e presumibilmente a rubare voti ai laburisti . Il 18 giugno saranno presenti in tutti i 78 collegi del Regno Unito , spendendo un bel po' di soldi : un deposito di mille sterline per ogni collegio , in totale quasi 200 milioni di lire . Ma e' sicuro che non raggiungeranno la maggioranza in alcun collegio . E questa e' l' unica dura regola per essere eletti , sotto il sistema maggioritario . In totale , alle scorse europee i Verdi avevano comunque raccolto il 4 , 6 per cento . Va un po' meglio nelle elezioni locali : i Greens hanno cento consiglieri municipali e otto distrettuali : uno di loro ha avuto addirittura il 61 per cento dei voti , ed e' certamente il Verde piu' votato del mondo .

IRLANDA
Comhaontas Glas in gaelico significa Alleanza verde . Fondata nell' 81 , finora e' riuscita a conquistare soltanto un consigliere locale . Il capolista a Dublino per le europee e' Trevor Sargent , ma per essere eletto dovrebbe raggiungere il 15 per cento . Invece i Verdi irlandesi non hanno mai superato il 9.

DANIMARCA
In questo paese perfino la regina e i ministri si proclamano ecologisti . Nell' 85 ci fu addirittura un ex ministro della Difesa che ando' a protestare contro gli esperimenti atomici francesi di Mururoa a bordo della nave di Greenpeace . I Gronne hanno qualche eletto locale , ma nazionalmente sia nell' 83 sia nell' 87 hanno raccolto appena l' 1 , 3 per cento . I quattro deputati del Movimento anti Cee sono stati finora accolti nel gruppo Arcobaleno , a Strasburgo , ma e' difficile che la collaborazione con i Verdi continui nel nuovo Parlamento , quando gli ecologisti saranno abbastanza per formare un gruppo autonomo.

SPAGNA
Il primo partito ecologista , Alternativa verda , e' nato a Barcellona nell' 83 . Poi sono venuti Los Verdes e infine , nell' 85 , e' apparsa la Confederacion de los Verdes , capitanata da Santiago Vilanova . Come tutti i Verdi latini , litigano molto fra loro . Scarsissimi i risultati : 0 , 6 per cento Los verdes , 0 , 3 per cento la Confederacion . A complicare il panorama ci sono le rivalita' regionali fra Catalogna e Castiglia , e la concorrenza di ex comunisti e umanisti : anche loro alle elezioni si dicono Verdi . Non si sa , quindi , se alle europee ci sara' una sola lista.

PORTOGALLO
Una bella e bellicosa signora , Maria Santos , e' deputata a Lisbona per Os Verdes . E stata eletta nelle liste del Partito comunista : una specie di indipendente di sinistra , insomma . Solo che il Pc portoghese brilla per il suo stalinismo. I Verdi europei hanno allora accolto nel loro coordinamento una seconda formazione : il Mdp (Movimento democratico portoghese) .

GRECIA
E' il caos totale. Nella miriade di gruppuscoli e movimenti ecologisti, il coordinamento europeo non ha ancora scelto un interlocutore nazionale . Anche perche' molte organizzazioni Verdi greche sono controllate dal partito socialista o dai due partiti comunisti.

Mauro Suttora

Stilisti al verde

SNATURATI

Operazione ambiente. L’incontro “Natura e impresa" organizzato dalla Regione Lombardia


di Mauro Suttora


Europeo, 12 maggio 1989


Salvatore Giannella e Ruggero Leonardi, direttori di Airone e Natura Oggi (le due maggiori riviste verdi), erano andati speranzosi all'incontro "Natura e impresa", organizzato dalla Regione Lombardia. Scopo della riunione: spingere le industrie a sponsorizzare progetti ecologici. 

Ma quando Carlo Peretti, vicepresidente dell'Assolombarda, ha preso la parola, agli ambientalisti presenti sono cascate le braccia. "L'inquinamento industriale è inferiore a quello di altre attività… Non si può ritornare a una civiltà arcaica e bucolica… L'uomo si è sempre dovuto difendere dalla natura", ha tuonato il rappresentante degli industriali.


"Che faccia tosta", commenta la deputata verde Gloria Grosso. "Certi vecchi pescecani prima si sono arricchiti inquinando, e adesso vogliono arricchirsi anche disinquinando". Ultimamente, però, gli industriali desiderosi di costruirsi un'immagine "ecologica" hanno trovato una buona sponda nelle associazioni verdi. 

Così la Lipu si è fatta sponsorizzare dalla Piaggio, Lega ambiente dai petrolieri Monteshell per la campagna "Auto sicura”, e il semisconosciuto gruppo Mare Vivo ha pensato bene di invitare all'assaggio del tonno Riomare. Così sono sistemati i verdi contrari a motori e caccia. Gli Amici della terra sono anche amici di Italstat e Italimprese, che oltre a finanziare un convegno sull'ambiente hanno cementificato mezza Italia.


Ma il simbolo più ambito è il panda del Wwf, associazione prestigiosa quanto la Croce Rossa o Amnesty international. Cominciate con uno scivolone (il connubio verde etilico con Vecchia Romagna), le sponsorizzazioni proseguono intensamente. Anche perché, nonostante i suoi 200mila soci, il Wwf copre solo un terzo del proprio bilancio annuo di dieci miliardi con le quote degli iscritti.

Quindi, ecco il Wwf raccomandare la Zurigo Assicurazioni, le pile "verdi" Mazda (senza mercurio, ma con l'altrettanto inquinante cadmio) e le fotocopiatrici Minolta (come se la carta riciclata non potesse essere usata su tutte le fotocopiatrici).

Ma lo sponsor più scomodo è stato certamente il sarto socialista Trussardi: il suo Palatrussardi a Milano, infatti, è un abuso edilizio, sorto illegalmente su un'area tutelata a verde dalla legge Galasso.

Friday, May 05, 1989

Nella Siria cacciata dal Libano

Perché Hafez Assad non vuole ritirarsi dal Libano

IL LEONE DI DAMASCO

Ha saputo giostrare contro 1000 avversari. Ha fatto della Siria la maggior caserma del Medio Oriente. Ma oggi che le sue folli spese militari hanno dissanguato il Paese, tutto il mondo arabo lo sta isolando. E l'Irak pensa già alla vendetta

dal nostro inviato a Damasco Mauro Suttora

Europeo, 5 maggio 1989

Il tassista ferma la sua grande e scassata Chrysler gialla anni Sessanta, si volta e sorride. Fa quel gesto, con le dita della mano riunite all'insù, che da noi significa "che vuoi?" e fra gli arabi "aspetta". Apre la portiera, esce dalla macchina e se ne va a contrattare il prezzo di due caschi di banane da un ambulante lungo la strada. 

Siamo a Chtaura, nella verde vallata libanese della Bekaa. Stiamo fuggendo da Beirut insanguinata in quattro, io e tre musulmani libanesi, su un taxi collettivo. Andiamo verso Damasco, verso un tetto sicuro, insieme a centinaia di altri profughi di Beirut ovest, stanchi della roulette russa dei bombardamenti. 

Anche Chtaura viene bombardata dai cannoni del generale cristiano Michel Aoun, che da un mese e mezzo osa sfidare i 40 mila soldati siriani in Libano. I missili e le bombe dei mortai da Beirut est, superato il monte Libano, piombano anche qui, nella speranza di colpire le postazioni siriane che da 13 anni controllano la grande vallata, la Bekaa di fatto annessa alla Siria: mezzo Libano. Chtaura ne porta i segni. Muri sfondati attraverso cui occhieggia il cielo, sacchetti di sabbia davanti alle vetrine, nastri di scotch che cercano di impedire che i vetri cadano a pezzi. 

Il tassista siriano torna indietro con le sue banane Dole, "product of Ecuador", molto più grosse delle banane locali. Forse le bananine mediorientali rimangono così rachitiche perché non sono trattate con tiabendazolo, come indicato sulle Dole. Fatto sta che queste ultime finiscono nel bagagliaio del taxi, confondendosi con i nostri bagagli. 

Prima della frontiera, nello spazio di 20 chilometri, il tassista ci pregherà di aspettare altre quattro volte: per comprare due taniche metalliche d'olio, una confezione gigante di fazzoletti di carta, altre banane, una stecca di sigarette. Smette solo quando nel bagagliaio non sta più neppure uno spillo. Proprio questa sua spesa forsennata spiega molte cose: le ragioni per cui la Siria si è impadronita del Libano (il 70 per cento del territorio e tutte le città più importanti: Beirut ovest, Tripoli, Tiro, Sidone), come mai non voglia andarsene e anche perché sia in perenne crisi economica. I beni di consumo che il tassista si è assicurato, infatti, sono un po' un simbolo: quello di una Siria per cui era insopportabile avere, tra sé e il mare, un paese piccolo, libero e ricco come il Libano. 

I soldati siriani, calati dalle montagne del Jebel Ansarié (la patria alauita del dittatore di Damasco , Hafez Assad), o arruolati fra i beduini del deserto, si sono impadroniti del raffinato Libano con la stessa fame, la stessa rabbia, lo stesso complesso di inferiorità di un barbaro di fronte a Roma. Beirut, ex emporio miliardario, dopo 14 anni di martirio riesce ancora ad offrire ben più della Siria. 

Una conferma mi verrà, arrivato a Damasco, da una visita al suk nella città vecchia. Quello che un tempo era il bazar più ricco e sfavillante del Medio Oriente dopo il Gran Bazar di Istanbul è ridotto a due misere gallerie maleodoranti. Poca e povera la merce esposta. Solo i tessuti di cotone e gli abiti tradizionali vi portano una nota multicolore. Già: è grazie all'industria tessile che la Siria può assicurarsi ancora le forniture di armi sovietiche; Mosca gliele dà in cambio di prodotti di cotone, mentre considera la valuta siriana carta straccia. Come il resto del mondo. 

Nella galleria principale del suk, quella che porta alla grande moschea degli Ommayadi, i commercianti disponibili a scambiare quattro chiacchiere sono pochi. La polizia politica di Assad è assai occhiuta, i militari sono dappertutto. Il regime non tollera critiche e lamentele. Ha dovuto risparmiare di malavoglia il comico Duraid Laham che lo mette alla berlina, perché è protetto da una popolarità a prova di bomba. Finalmente, mentre compro di che radermi in una misera bottega di chincaglieria, il negoziante sibila in francese: "Il nostro problema? Che buttiamo il 65 per cento delle spese di bilancio nella difesa". 

Sono forze armate ipertrofiche, quelle siriane: mezzo milione di soldati su nove milioni di abitanti. Un modo per impiegare disoccupati che sarebbero cronici, ma anche un grande serbatoio di popolarità e un cuscinetto di sicurezza per Assad. "Questa gente", spiega un diplomatico occidentale, "Assad doveva pure impiegarla. Non potendo farlo contro Israele, dopo le batoste del '67 e dell'82, ha pensato bene di offrire 'un aiuto fraterno' al Libano".

La Siria ha sempre considerato il Libano parte della "Grande Siria": non ha mai aperto ambasciate a Beirut, né richiesto passaporti per passare la frontiera. Lo stesso Assad ha goduto dell'ospitalità libanese ai tempi in cui era un giovane militante del partito Baas che complottava per impadronirsi del potere a Damasco. All'indomani del golpe fallito, nel marzo del '62, fu però arrestato a Tripoli, tenuto in prigione 9 giorni e infine estradato.

C'è chi dice che questa disavventura gli abbia messo in corpo il desiderio di vendetta. Ma sono voci, interpretazioni che filtrano attraverso la pesante cortina di un culto della personalità da antico satrapo d'Oriente. "In realtà", lo descrive Karim Pakraduni, un dirigente libanese che ha negoziato a lungo con lui, "Assad è molto razionale. Da buon pilota militare abbraccia le cose dall'alto: con un colpo d'occhio individua dettagli e bersagli. E dopo aver colpito, si ferma a riflettere, negoziare, esplorare. Fino al colpo successivo". 

Proprio grazie a questa tecnica, otto secoli dopo Saladino, Damasco ha ritrovato un padrone assoluto. Nato nel 1928 sulle aride montagne della regione alauita, allora autonoma dalla Siria e governata dai francesi, Assad scende a studiare sulla costa, a Latachia. A 24 anni, come molti altri membri della minoranza alauita, fulcro dell'esercito siriano, entra all'accademia militare di Homs. Stages in Urss, espulsione dall'esercito, esilio al Cairo dove vive il suo idolo, Nasser. 

Nel '66, dopo un colpo di Stato, torna e viene nominato ministro della Difesa. E nel 1970, "grazie" ai palestinesi, diventa presidente: rifiuta infatti di difendere i fedayn sterminati dalla Giordania durante il Settembre Nero, e ciò offre al presidente Salah Jedid il destro di sostituirlo; ma Assad è più rapido e sostituisce lui il presidente. 

"C'e' da stupirsi?", si chiede il diplomatico con cui parliamo di tutto ciò. "Il Medio Oriente abbonda di questi colpi di scena… Certo, nella vita di Assad ce ne sono più che nella media. Basta pensare allo scherzo che il destino ha fatto al Libano, dove nel 1976 furono i cristiani a chiamare Assad perché eliminasse i fortini costruiti dall'Olp intorno a Beirut, dopo l'espulsione dalla Giordania. Assad distrusse il campo profughi palestinese di Tall el Zataar, ma subito dopo tradì i cristiani libanesi. Fece anche eliminare il capo dei drusi, Kamal Jumblatt. E non è vero che oggi il figlio di Kamal, Walid, è il miglior alleato di Assad? Assad vuol dire leone in arabo".

La parte del leone si attaglia perfettamente alla Siria, che è oggi, dopo la dichiarata intenzione del Vietnam di andarsene dalla Cambogia, l'unico Paese al mondo ad occupare un altro Paese: appunto il Libano, preda che non intende mollare. Naturalmente questo ha isolato la Siria anche nel contesto arabo. 

Se si considerano i complicati rituali che regolano la cosiddetta "nazione araba", non è senza significato che Damasco non faccia parte di alcuna organizzazione economica. Passi per il Magreb, per cui valgono considerazioni territoriali (ne fanno parte Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania) e passi, per analoghe ragioni, il Consiglio di cooperazione del Golfo nato nel 1980 (Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Bahrein, Emirati e Qatar). Ma la Siria non è stata neppure chiamata a far parte del Mashrek , l'organizzazione nata nel febbraio 1989 tra Irak, Egitto, Giordania e Yemen del Nord. 

L'accordo di formazione è stato siglato a Bagdad e si dice che l'Irak l'abbia condizionato alla non partecipazione della Siria. Il che è comprensibile, data l'inimicizia tra i due partiti Baas. Ma è abbastanza grave per il regime di Assad (ormai legato solo all'Iran, musulmano ma non arabo e di volubili alleanze). Infatti, attraverso le anodine alleanze economiche passano sotterranee correnti politiche: per esempio l'Irak ha fornito alla Giordania 150 carri armati per mantenere l'ordine interno, e dire Giordania vuol dire Arabia Saudita. Non solo: sempre in Irak ci sono molti campi militari di Fatah, la corrente dell'Olp che fa capo ad Arafat. Il che vuol dire, per Assad, trovarsi contro anche l'Egitto. 

Ma il regime non sembra preoccuparsene. Damasco, dopo l'inferno di Beirut, è un'oasi di calma. Passeggiare per i suoi verdi giardini è un piacere. All'Hadykat Zanoubie, sulla riva del laghetto nel parco, un gruppo di soldatesse scherza. Altre ragazze, nessuna porta il chador in un momento di fervore islamico, camminano a braccetto. Sono un altro indice dell'abilità di Assad: qui la donna ha gli stessi diritti, almeno sulla carta, dell'uomo.

I radicali musulmani sono solo un ricordo (Assad provvide a farne eliminare migliaia in una sanguinosa purga ad Hama, nel 1982). La libertà di culto è assicurata. Perfino la minoranza cristiana, il 12% della popolazione, vive in pace. Tanto che quando vado, di domenica, a cercare un funzionario cristiano amico al ministero degli Esteri, sicuro di trovarlo (la giornata di festa canonica dei musulmani è il venerdi), mi dicono che non c'è: è a messa. 

Parlo con un suo collega musulmano e gli chiedo provocatoriamente come mai dappertutto a Damasco si incontrino militari. "È solo perché siamo in zona di confine", mi spiega un po' confuso. Comunque è vero. Israele è lì, sul Golan occupato dal 1967 e annesso nel 1981, ad appena 90 chilometri. Nel 1982 ha distrutto in pochi minuti tutte le postazioni di missili sovietici installate dai siriani nella Bekaa. E ancor oggi lancia indisturbato, ogni due-tre settimane, raid chirurgici punitivi contro le basi militari palestinesi che i siriani tollerano nel Libano del sud. "Da qui", mi dice un cameriere in un bar sul monte Cassiun che domina Damasco (dove Assad vorrebbe farsi costruire un faraonico palazzo presidenziale, bloccato dall'86 per mancanza di fondi), "ogni tanto si vedono bagliori lontani. I razzi israeliani". 

Sono 41 anni che la Siria combatte Israele. E questo perfino per uno Stato caserma, privo degli elementari diritti civili (parola, stampa, riunione, associazione, da tutte le copie dei giornali stranieri venduti negli hotel vengono sforbiciati gli articoli sulla Siria), è troppo. "Se non fossimo in guerra con Israele", s'era lasciato sfuggire al ministero degli Esteri il funzionario musulmano, "il mio stipendio sarebbe cinque volte superiore". 

È un altro elemento per capire la determinazione della Siria a non andarsene dal Libano, pompa d'ossigeno per dare un po' di respiro a un moribondo economico. "S'e' mai chiesto", mi domanda un diplomatico francese, "come mai la causa scatenante dell'ultima guerra in Libano, l'8 marzo, sia stato il tentativo di Aoun di ripristinare il controllo statale sui porti? Significava il blocco del contrabbando, dell'import-export illegale. Ha fatto infuriare un po' tutti, ma specialmente drusi e siriani. Probabilmente perché sono proprio loro ad esercitare il traffico di droga e armi. Secondo la polizia inglese, i due terzi della droga sequestrata in Gran Bretagna vengono dai porti turco ciprioti, proprio di fronte a Tripoli, controllata dai siriani. Del resto, a fine marzo è stata sequestrata in Mediterraneo una nave siriana carica di stupefacenti. Veniva dal Libano? Sa, la Bekaa è piena di coltivazioni di hashish e papavero". 

Una storiaccia. Non peggiore, però, di tante altre che circolano qui a Damasco. Dove si è addirittura calcolato che la metà della produzione annuale di grano siriana viene venduta illegalmente in Turchia, invece di affluire nei magazzini dello Stato "socialista". La gente così fa la coda per accaparrarsi beni di consumo primario e la valuta al mercato nero ha valore di un quarto rispetto al cambio ufficiale. 

Per soffocare il malcontento, lo spettro del grande nemico, Israele, serve a meraviglia. Perfino ad Assad, che non viene certo da una famiglia antisionista. Ecco infatti quel che scriveva il nonno di Assad, Solimano, il 15 giugno 1936 in un appello al premier francese Leon Blum: "I bravi ebrei hanno portato civiltà e pace agli arabi musulmani". 

Solimano cercava di convincere i francesi a proteggere le minoranze presenti in Siria e Palestina sotto l'occupazione franco-inglese. E fra le minoranze, oltre agli ebrei, c'era allora anche la famiglia del piccolo Assad: gli alauiti, l' 11 per cento dei siriani, che avrebbero voluto anche loro l'indipendenza dalla Siria o, al massimo, l'inclusione nel Libano. Ma in questo modo la Siria avrebbe perso ogni sbocco al mare. 

Dispute storiche che gettano la propria ombra anche sulle vicende di oggi. Per quanto tempo la minoranza alauita di Assad riuscirà a tenere in pugno la Siria con la sua maggioranza sunnita? L'uomo forte di Damasco è al potere da 19 anni, ma oggi tutto sembra congiurare contro di lui: il mondo intero si commuove alla tragedia di Beirut, la diplomazia è in movimento, perfino la Lega araba sembra rinnegare Damasco. 

E la Siria, per di più, appoggia gruppi palestinesi come quello di Ahmed Jibril sospettato di aver fatto esplodere l'aereo Pan Am a Natale. I rapporti con la Gran Bretagna sono ancora interrotti dopo l'"affare Hindaui" dell' 86 (attentato fallito contro un aereo El Al a Londra, commissionato dal capo dei servizi segreti siriani). Soprattutto, adesso a Mosca c'è Gorbaciov. E se i sovietici hanno bisogno della base navale siriana di Tortosa (Tartus), non è detto che vogliano continuare per sempre ad armare la caserma più bellicosa del Medio Oriente. 

Nella hall del mio albergo, lo Sham, c'è una carta geografica. Il nome di Israele non compare neppure. Vi compare invece quello dell'Irak, con il quale è molto più probabile che la Siria si trovi a fare presto i conti. Saddam Hussein non ha dimenticato che Assad è stato l'unico alleato arabo dell'Iran nella guerra del Golfo, né che tra l'80 e l'81 una decina di diplomatici iracheni nella zona musulmana di Beirut hanno subito attentati; il 15 dicembre '81 veniva addirittura ucciso l'ambasciatore Razzak Lafta. 

"Allora", mi ha detto a Beirut un comandante cristiano, "Saddam Hussein era impelagato nella guerra del Golfo. Oggi non più. E ha già cominciato a saldare i conti mandando ai falangisti cristiani di Samir Geagea un centinaio di carri sottratti agli iraniani". "Se i siriani non se ne andranno, chiameremo gli iracheni", aveva avvertito il generale Aoun. C'è da chiedersi se la questione libanese non verrà regolata da Bagdad dall'altro "ragazzo terribile" del Baas, capo di un'altra grande caserma del Medio Oriente.
Mauro Suttora

Friday, April 14, 1989

Guerre senza fine: la violenza torna a divampare a Beirut

L’ultima crociata


“Liberare il Libano dai siriani”: è lo slogan di Michel Aoun, premier cristiano della zona est della città. Ma nasconde anche uno dei tanti regolamenti di conti tra opposte fazioni. E intanto nel tiro incrociato finiscono i civili


dall’inviato a Beirut Mauro Suttora


Europeo, 14 aprile 1989

 

“Cosa pensano di noi i cristiani d'Europa?", mi domanda Bassam Kafrouni, 23 anni, sottotenente delle forze libanesi, gli occhi azzurri assetati di solidarietà internazionale. "Assolutamente nulla", gli rispondo sincero, "indifferenza totale. L'unica cosa che si pensa è che forse siete un po' tutti stufi di farvi guerra in Libano dopo 14 anni, no?" I baffetti neri di Bassam si irrigidiscono sulla bocca chiusa. 

È Pasquetta. Sono le due del pomeriggio. Stiamo attraversando piazza dei Martiri. Era il centro di Beirut: negozi, uffici, ristoranti e sfavillanti night club. Adesso di colorato è rimasto solo lo scheletro di una grande pubblicità luminosa: orologi Orient. Tutto il resto sono solo palazzi abbandonati. Diroccati, bruciacchiati, forati soprattutto. Basta con il cedro: il nuovo simbolo del Libano anni Ottanta è il foro del proiettile. Sventagliate di mitra o colpi di fucile di cecchini isolati. E poi i buchi più grandi: quelli di bazooka, obici, cannoni. Dei missili. Non c’è casa a Beirut, anche nei quartieri residenziali più chic, che non esibisca qualche foro sui muri.

"Sono come le cuvées", scherza il fotografo Karim Daher. "Si possono riconoscere le annate. Queste sono le tracce dei combattimenti del '76 , queste dell'82 , queste dell'86… I più esperti riescono perfino a distinguere i buchi fatti dai vari eserciti: siriani, israeliani, palestinesi, falangisti, sciiti…” 


Pasqua a Beirut. La guerra del Libano compie 14 anni. Fu una scaramuccia fra i palestinesi e la scorta del presidente cristiano ad accendere la miccia, nell'aprile 1975. In quegli stessi giorni i nordvietnamiti conquistavano Saigon. Beirut invece era la "Parigi del Medio Oriente": la città più ricca, elegante e cosmopolita del Mediterraneo. Nessuno poteva immaginare che il Libano proprio in quel momento stesse ereditando dal Vietnam l'orrendo ruolo di guerra più lunga ed estenuante del secolo.

Da allora, nell'unica democrazia del mondo arabo sono morti in 120 mila. Calcolando che il Libano ha appena tre milioni di abitanti, in proporzione sarebbe come se in Italia una guerra facesse due milioni e mezzo di vittime. E la mattanza continua. 

In marzo a Beirut è scoppiata la terza guerra del 1989. Quest'anno il ritmo è infernale: ogni mese una nuova guerra. In gennaio c’è stato il conflitto fra sciiti prosiriani del partito Amal, "Speranza" in arabo, e quelli pro iraniani di Hezbollah, il "partito di Dio". In febbraio, a san Valentino, un rapido ma sanguinoso regolamento di conti in campo cristiano: le forze libanesi del falangista Samir Geagea contro l'esercito regolare libanese del generale Michel Aoun. Il quale poi, arrivata la primavera, ha lanciato l'ultima, temeraria sfida: "Comincia la guerra di liberazione, via gli invasori siriani dal Libano". 


Ci sono 30mila soldati siriani attualmente in Libano. Occupano i due terzi del paese: la valle della Bekaa, il nord, tutto il sud tranne la striscia dei filo israeliani e quella dell'Onu. E Beirut ovest, quella prevalentemente musulmana. Ai libanesi cristiani rimangono solo 1.500 chilometri quadrati, una striscia costiera lunga una cinquantina di chilometri e larga 30 che si stende da Beirut est su verso il nord. Niente di più. 

Da sette mesi, ormai, il paese non è più unito. Neanche formalmente. Alla scadenza del mandato del presidente Amin Gemayel, infatti, si sono formati due governi. A Beirut est c’è quello guidato dal capo dell'esercito Aoun. L'altro, a Beirut ovest e nel Libano occupato dalla Siria, è presieduto dall'ex premier musulmano Selim Hoss. I libanesi cristiani però sottolineano che la guerra d’indipendenza è rivolta solo ed esclusivamente contro gli invasori siriani . E che non si può quindi parlare di "guerra civile fra libanesi". Nessuna accusa di collaborazionismo sfugge mai contro Hoss, gli sciiti, i sunniti o i drusi. 

Fatto sta che i cannoni di Beirut est stanno bombardando le case dei civili a Beirut ovest, e viceversa.


Anche i pretesti, naturalmente, sono simmetrici ed equivalenti. "Colpiamo solo le postazioni siriane. Sono loro, per proteggersi, che si mettono in mezzo ai civili", dice il generale Aoun. "Colpiamo solo obiettivi strategici come la sede presidenziale dove Aoun si è installato illegalmente", si giustificano dall'altra parte. Anzi, a Beirut ovest nessuno si giustifica, perché ufficialmente nessuno spara . Però, chissà come, ogni giorno dalle quattro del pomeriggio alle due di notte anche da lì piovono bombe. 

Ne hanno fatto le spese soprattutto i quartieri residenziali attorno al palazzo del presidente Aoun, a Baabda. Ma anche piazza Sassine, nel cuore del quartiere cristiano di Achrafie, zona considerata sicurissima, ha ricevuto la sua dose di obici da 155 a 240 millimetri che hanno perforato i muri dei condomini, entrando ed esplodendo in piena notte nelle camere da letto. Il risultato finale è sempre lo stesso, da 14 anni: per ogni soldato morto, da una parte o dall'altra, venti sono i civili innocenti ammazzati.


L'immoralità delle guerre moderne, bomba atomica o no, è contenuta tutta in questo semplice ma tragico rapporto di proporzione: uno a venti. Fino alla prima guerra mondiale erano soprattutto i soldati a morire in battaglia. Adesso invece i militari sparano e i civili muoiono. In Libano è successo tante di quelle volte: a Tall El Zatar nel '76 i soldati siriani massacrarono donne e bimbi palestinesi perché nei sotterranei del campo profughi i fedayn avevano nascosto i loro carri armati; lo stesso fecero i falangisti a Sabra e Chatila nell'82; o gli sciiti nel campo di Bourj El Barainj nell'87; o i palestinesi filosiriani di Abu Mussa contro altri palestinesi nell'estate ' 88 . Eccetera.

Ma almeno questi nomi di stragi rimarranno in qualche modo nella storia degli orrori libanesi. Chi si ricorderà, invece, dei signori Tanios Dumit, Elias Dumit o Suad Kassaifi, tre delle vittime dei bombardamenti di questa Pasquetta '89, colpiti solo perché la loro casa era troppo vicina al palazzo presidenziale di Baabda?

A Beirut non ci sono più giornalisti. Sette anni fa erano in duemila ad affollare gli alberghi; oggi siamo in tre ad aggirarci nell'atrio vuoto dell'hotel Alexandre. Peccato, generale libanese Michel Aoun, la tua guerra di liberazione contro gli invasori siriani non interessa il mondo: eppure l'hai sparata grossa venerdì santo, quando hai dichiarato: "Se per liberare il Libano Beirut dovrà essere distrutta, che lo sia: è già stata ricostruita otto volte nella sua storia, la ricostruiremo ancora".

E il giorno dopo hai rischiato grosso: mentre ti intervistava un giornalista di Zurigo, nel tuo studio sotterraneo, è caduta una pioggia di obici sul palazzo di Baabda, dove lo scorso settembre l'ultimo presidente Amin Gemayel ti nominò presidente del Consiglio solo tre minuti prima che gli scadesse il mandato, dopo averti odiato per anni. Il tassista del giornalista zurighese, che aspettava nel parcheggio, si è preso le schegge. Ma tu, presidente, saresti morto se fossi stato alla tua scrivania normale: un missile si è piantato proprio in mezzo alla sedia.


"Nous tiendrons jusqu'au bout", grida durante la messa di Pasqua una donna dal fondo della chiesa cattolica di Nostra Signora dell'Assunzione. "Resisteremo fino in fondo": se lo giurano in molti, fra il milione di cristiani assediati nell'enclave libanese. Di mattina i bombardamenti cessano, e così a Pasqua a Beirut est tutte le chiese erano piene zeppe. In quella di Nostra Signora dell'Assunzione vengo coinvolto in una scena incredibile assieme al fotografo francese Alain Nogués, fondatore dell’agenzia Sygma. È in corso la messa, in arabo. Diciamo al sacrestano che alla fine vorremmo parlare con il prete. Ma questi, avvertito immediatamente della presenza di due giornalisti europei, ci convoca sull'altare in piena messa. Ci bisbiglia in francese: "Dopo la predica dirò qualcosa su di voi". Lo farà, rivolto ai fedeli: "Fratelli, sono fra noi due rappresentanti dell'opinione pubblica cristiana europea. Che Dio li illumini e possa far descrivere loro la nostra situazione e la nostra continua lotta in difesa della cristianità”.

Alé, abili e arruolati sul campo, mille anni dopo la partenza della prima crociata contro gli infedeli! Ma è esattamente questo il clima in cui vivono centinaia di migliaia di cristiani libanesi oggi. E non capiscono perche', invece di aiutarli a cacciare via i siriani dal Libano, il presidente francese Francois Mitterrand abbia accolto proprio durante la settimana santa il ministro degli Esteri siriano a Parigi. E si sia addirittura impegnato a incontrare presto il presidente della Siria Hafez Assad.

 

Esattamente come i Pieds Noirs algerini trent'anni fa, i cristiani di Beirut, tutti arabi ma francofoni, considerano la Francia la loro protettrice e madrepatria. Anche gli armeni cilici di Antelias, sulla strada verso il porto di Junie, discutono e commentano i bombardamenti che non li hanno fatti dormire la notte precedente. Sotto la cipria, profonde occhiaie: siamo andati nei rifugi, ci siamo addormentati solo verso le tre, si lamentano le mamme.

A ogni incrocio di Beirut est c’è un altarino alla Madonna. Ogni due incroci, un murale con il ritratto del vecchio Pierre Gemayel. Ogni tre, quello del figlio Bechir, il leader della falange fatto saltare in aria poco dopo essere stato eletto presidente nell'82. Il fratello Amin, che ne ha preso il posto ed è sopravvissuto per sei anni, invece non è più popolare: "Troppi compromessi con i siriani", gli rimproverano. 

Anche Amin, assieme ad altri sei ex presidenti e primi ministri del Libano (la costituzione lasciata nel '43 dai francesi stabilisce che i presidenti siano cristiani e i primi ministri musulmani), è volato a Tunisi la scorsa settimana per i negoziati condotti, in nome della Lega Araba, dall'ambasciatore del Kuwait in Siria. Ma diversi cristiani accusano l'ultimo dei Gemayel di essersi arricchito illecitamente durante la presidenza. E poi ormai vive a Parigi, ha chiesto il divorzio dalla moglie, convive con un'amante… e i maroniti storcono il naso.


Riuscirà il generale Aoun a diventare il nuovo eroe nazionale dei cristiani del Libano? Sta facendo del suo meglio. A nord dell'enclave il territorio controllato dal cristiano Suleiman Frangie, ottuagenario ex presidente, è sotto dominio siriano. Anche Pierre Hobeika, capo dei falangisti fino al 1986 e tristemente famoso per la strage di Sabra e Chatila, è passato con Damasco. Ma, a parte questi due "Giuda", il fronte cristiano ha ritrovato la sua compattezza contro la Siria. I due risultati più concreti degli scontri intercristiani di febbraio sono stati il ritorno del controllo dell'intero porto di Beirut nelle mani dell'esercito regolare, quindi dello Stato, e la chiusura del quotidiano Le Reveil. Era l'organo delle forze libanesi (falangisti più i liberali di Eddy Chamoun più i Guardiani del Cedro) e ha sospeso le pubblicazioni per un motivo molto semplice: l'edificio dove veniva stampato è passato sotto il controllo fisico dell'esercito.

Una disavventura simile, del resto, è toccata anche al principale quotidiano libanese scritto in francese, L'Orient Le Jour: ha la redazione a Beirut est, ma la tipografia all'ovest. Così, per essere venduto anche nell'enclave cristiana, viene spedito via telefax ogni notte.


Ma le Forze libanesi continuano a essere un potentissimo stato nello stato , nel Libano cristiano. Il traghetto che collega di notte Cipro al Libano (unico modo di arrivare a Beirut se l'aeroporto è chiuso) è di loro proprietà. Appena salito a bordo, sabato santo, mi sono accorto che il potere anche nel Libano cristiano è diviso in due: accanto al funzionario statale che controllava i passaporti c'era quello delle Forze Libanesi. 

Il traghetto viene spesso bombardato da drusi e siriani quando arriva al porto di Junie, 15 km a nord di Beirut, ma rimane l'unico contatto dell'enclave cristiana col mondo esterno. Infatti i siriani dal 20 marzo hanno bloccato tutti i passaggi fra Beirut est ed ovest. La linea verde, il confine fra le due Beirut, con quella specie di muro di Berlino improvvisato fatto di container che ostruiscono ogni via di accesso tranne i pochi passaggi ufficiali, è anch'essa spartita, dalla parte cristiana, fra esercito e miliziani delle Forze Libanesi. Queste ultime controllano la parte nord, vicina al mare. E qui, da 40 giorni ininterrottamente è stazionato il sottotenente Kafrouni. La milizia gli dà tutto: mangiare, dormire, vestiti e 200 dollari al mese. "Mi bastano, perchè non sono sposato". "Sei fidanzato?". "Sì". " E lei è contenta che non ritorni a casa da 40 giorni?". “È normale, è la guerra". " È più brutta questa guerra contro i siriani o quella del mese scorso contro l'esercito regolare?". "Con l'esercito c'è stato solo un piccolo problema. Con i siriani il problema è molto più profondo".