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Wednesday, December 06, 2023

In sessanta giorni, Israele non ne ha azzeccata una





















Il 7 ottobre è stato un dramma, il seguito pure: l’azione militare non è servita a liberare un ostaggio, a catturare un terrorista. Le bombe su Gaza paiono una vendetta furiosa condotta alla cieca. Che fine hanno fatto i leggendari servizi segreti israeliani? Domande sul futuro.

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2023

Diciamoci la verità: è in corso un secondo dramma per gli israeliani, dopo la strage del 7 ottobre. In questi due mesi non sono riusciti a liberare un solo ostaggio, a catturare un solo terrorista fra quelli individuati nei video della mattanza, a scoprire il quartier generale di Hamas, che non era sotto l’ospedale Shifa. E neppure a fermare i lanci di razzi palestinesi da Gaza, che costringono ancora centinaia di migliaia di israeliani a nascondersi nei rifugi di giorno e di notte.

Per non parlare del crollo di reputazione provocato dai 15mila palestinesi ammazzati a Gaza: anche togliendo uno zero alla cifra sparata dalla propaganda Hamas, si insinua l'impressione di un disperato replay del “Muoia Sansone con tutti i filistei!” antico tre millenni: una vendetta furiosa condotta abbastanza alla cieca, lontana dall’abituale precisione chirurgica israeliana che minimizzava i “danni collaterali”. 

Per ironia della sorte, i philistin del 2000 a.C. abitavano proprio la zona di Gaza. Oggi le immagini della Striscia rasa al suolo si sovrappongono fatalmente a quelle degli sgozzamenti medievali nei kibbutz, facendole sbiadire.

Insomma, in questi 60 giorni Mossad e Shin Bet hanno continuato a perdere la loro leggendaria aura di servizi segreti più efficienti del mondo: un’ulteriore drammatica sconfitta, dopo quella del 7 ottobre. I loro informatori palestinesi vengono torturati, uccisi e appesi ai lampioni se scoperti o anche solo sospettati da Hamas, Jihad o Hezbollah. La rete di spie arabe non può più garantire l’invincibilità di Israele.

Perciò ora la domanda cruciale è: questo nuovo, inedito senso di insicurezza che gli israeliani provano per la prima volta dal 1948 provocherà un loro indurimento o ammorbidimento? Di solito soltanto i vincitori possono permettersi di essere magnanimi e generosi, mentre gli sconfitti covano frustrazione e voglia di vendetta. Ma la forza può anche trasformarsi in arroganza, mentre una consapevole debolezza spinge a compromessi.

Quindi, prosaicamente: alle prossime elezioni vinceranno i falchi o le colombe, la destra o la sinistra? Israele continuerà a imbottire la Cisgiordania di propri coloni che vaneggiano di Giudea e Samaria, o permetterà sul serio, 30 anni dopo Oslo, uno stato di Palestina indipendente, e quindi non à pois?

Idem per i palestinesi. I massacri di Gaza li renderanno più aggressivi o ragionevoli? Le scene di giubilo bellicoso per la liberazione dei loro prigionieri in cambio degli ostaggi ebrei non promettono bene. I fanatici di Hamas si rafforzeranno, o prevarrà la ragionevolezza di Anp e Fatah?

La banale risposta è: come in ogni conflitto, gli estremisti di entrambe le parti sono i migliori alleati reciproci. Si rinforzano a vicenda, nel convincersi che gli avversari capiscano solo il linguaggio della violenza.

Due mesi di guerra in Israele/Palestina, e quasi due anni in Ucraina. Purtroppo le dinamiche psicologiche collettive sono simili. Senza voler parificare aggressori e aggrediti: i primi restano Putin e Hamas, nonostante le recriminazioni su torti veri o presunti che possono aver subìto in passato Russia e palestinesi, di cui queste due escrescenze cancerose si spacciano rappresentanti e paladini.

Ma il fallimento della troppo annunciata controffensiva ucraina risulta deprimente quanto il disastro israeliano di queste otto settimane. Ci aggrappiamo ancora alla speranza che Vladimir Putin e Hamas si logorino fino a spezzarsi. Ipotizziamo nuovi leader a Gaza, Ramallah, Gerusalemme, Mosca: dotati, se non della lungimiranza di un Nelson Mandela, almeno del realismo dei vari Sadat, Begin, Rabin, Peres, o degli ultimi Sharon e Arafat in versione illuminata.

Il palestinese Marwan Barghouti (lo incontrai 35 anni fa, grande carisma) e l’israeliano Benjamin Gantz sono coetanei, nati a tre giorni e 40 chilometri di distanza nel giugno 1959: riusciranno a vincere anch’essi un Nobel della pace fra qualche anno?

Forse è solo la speranza di un disperato. Ma, come canta l’artista ebreo più famoso al mondo, Bob Dylan: “L’ora più buia è proprio quella prima dell’alba”. 

Thursday, August 13, 2020

Israele-Emirati, pace storica


DA 26 ANNI SI ASPETTAVA UNA GIORNATA COSÌ. CON L'ACCORDO VINCONO TRUMP, NETANYAHU E GLI ARABI SUNNITI. 
A PERDERE SONO GLI AYATOLLAH IRANIANI E I LORO PROTETTI DI HAMAS.
TEMPI DURI PER GLI SCIITI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 13 agosto 2020

Oggi è una bellissima giornata per la pace in Medio Oriente. La aspettavamo da 26 anni, da quel 1994 quando re Hussein di Giordania fu il secondo capo arabo a riconoscere l'esistenza di Israele. Il primo era stato il presidente egiziano Anwar Sadat nel 1979, dopo gli accordi di Camp David con il premier israeliano Menachem Begin: guadagnò il premio Nobel per la pace, ma due anni dopo fu ammazzato dagli estremisti islamici.

Per capire quanto rischino i leader arabi che fanno la pace con Israele, basta un particolare: ai funerali di Sadat non partecipò nessuno di loro, tranne il sudanese Nimeiri.

Ora sono gli emiri Zayed di Abu Dhabi e Maktoum di Dubai a tendere una mano a Israele. Stabiliscono relazioni diplomatiche e annunciano accordi in campo scientifico, turistico ed economico, in cambio del congelamento "per ora" dell'annunciata annessione israeliana di larghe parti della Cisgiordania.

Il progetto 'Vision for peace', illustrato otto mesi fa dal presidente Usa Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu senza il coinvolgimento dei palestinesi, prevedeva infatti una Palestina privata della valle del Giordano, con tutti gli insediamenti dei coloni ebraici confermati e la capitale palestinese situata non a Gerusalemme Est, ma in una periferia della città.

Piano rifiutato non solo da Hamas, ma anche dal presidente palestinese Mahmud Abbas e dall'intero mondo musulmano. Ora gli Emirati Arabi Uniti possono sventolare il ritiro provvisorio del piano come una vittoria.

I principali sventolatori però sono Trump e il suo genero ebreo Jared Kushner, marito di Ivanka, che hanno annunciato al mondo lo storico accordo Israele-Emirati di cui sono mallevadori.

Non che il ruolo di garante porti una gran fortuna ai presidenti statunitensi: Jimmy Carter non fu rieletto nel 1980 nonostante Camp David, e Bill Clinton non è certo passato alla storia per gli abortiti accordi di Oslo 1993 fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.

Viene invece confermata una costante della storia israeliana: sono i premier "duri" quelli che ottengono accordi con gli ex nemici. Così Begin del Likud con l'Egitto, il falco laburista Rabin più della colomba Shimon Peres con Palestina e Giordania, Ariel Sharon che nel 2005 seppe rinunciare alle costose colonie di Gaza, e oggi Netanyahu con gli Emirati.

Gli unici perdenti di questa storica giornata del 13 agosto 2020 sono gli ayatollah iraniani e i loro protetti di Hamas, che infatti gridano al "tradimento". Sono stati nove giorni tremendi per gli sciiti: prima l'esplosione di Beirut del 4 agosto, che ha provocato la bruciatura in effigie in piazza di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, da parte dei giovani libanesi; oggi l'accordo di Israele con gli Emirati, seconda potenza economica sunnita dopo l'Arabia Saudita.
Trump riesce così a emarginare l'Iran sciita, appoggiandosi agli arabi sunniti storici alleati degli americani.

Quanto alla Turchia, che nel 1949 fu il primo stato musulmano a riconoscere Israele, è dal 2011 che il neosultano Recep Erdogan ha innestato la marcia indietro con Tel Aviv. Prima ha rotto i rapporti diplomatici quando Israele ammazzò dieci cittadini turchi della cosiddetta Flotta della pace; e due anni fa, dopo un parziale riavvicinamento, ha di nuovo richiamato il proprio ambasciatore per protesta contro lo spostamento di quello Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale israeliana accettata da pochi.
Mauro Suttora

Wednesday, August 27, 2014

Gaza: vero e falso

di Mauro Suttora

Oggi, 20 agosto 2014

Le propagande contrapposte di Israele e Palestina usano argomenti a effetto. Verifichiamone alcuni.

1) «Lo statuto di Hamas vuole la distruzione di Israele». Vero. Ma al voto del 2006 questa parte venne tolta. I suoi capi hanno detto che riconoscerebbero Israele a determinate condizioni (ritorno dei profughi, capitale palestinese a Gerusalemme Est). In ogni caso, anche Al Fatah voleva distruggere Israele. Il che non impedì al suo leader, Yasser Arafat, di firmare gli accordi di Oslo (1993) che prevedono due popoli in due Stati.
  
2) «Missili e tunnel palestinesi minacciano Israele». Falso. I razzi sono poco più di scaldabagni sgangherati che hanno provocato in tutto tre morti. Vengono neutralizzati dallo scudo aereo israeliano. E anche le uscite dei tunnel sono facilmente scopribili dall’avanzatissima tecnologia di Tel Aviv.

3) «Genocidio: Israele ha ucciso 500 bambini». Falso. I «bambini» sono minorenni, quindi anche bellicosi 17enni caduti con le armi in pugno o morti perché non sgomberati da zone che gli israeliani avvertivano con anticipo di voler bombardare.

4) «Gaza è bloccata da Israele». Falso. Gaza confina anche con l’Egitto, Stato «fratello arabo», il quale potrebbe permettere il transito.

5) «I palestinesi capiscono e rispettano solo il linguaggio della forza». Falso. Israele si è accordata con tutti i suoi vicini: Egitto, Giordania e, di fatto, perfino con la Siria degli Assad. 
Quanto ai palestinesi, Abu Mazen e la Cisgiordania rispettano gli accordi di Oslo e vorrebbero reciprocità da Israele.

6) «Il muro e le colonie ebraiche impediscono la pace». Falso. Il muro ha eliminato gli attacchi suicidi. E le colonie potrebbero sopravvivere se nascesse un clima di fiducia reciproca.
Mauro Suttora

Wednesday, February 07, 2001

I coloni israeliani a Gaza

I COLONI ISRAELIANI A GAZA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2001

Gaza. Se non stesse lì, ma appena cinque chilometri più a Est, o quindici a Nord, sarebbe un posto bellissimo: una location ideale per un qualsiasi club Mediterranée o Valtur. Invece, è l’inferno dentro all’inferno. Nezarim, infatti, è uno dei 140 insediamenti ebraici in territorio palestinese, e sopravvive soltanto perché è sorvegliato giorno e notte da blindati e carri armati dell’esercito d’Israele.

Morire per Nezarim? È quello che si chiedono gli israeliani dopo il voto. Nezarim è una «goccia» di tre chilometri quadri in riva al Mediterraneo, ficcata proprio in mezzo alla striscia di Gaza. Fino al 1984 era una base militare. Poi, dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, ci arrivarono i coloni religiosi sfrattati dai kibbutz che avevano impiantato nella penisola desertica. Oggi sono in 170: lavorano come insegnanti, fanno gli agricoltori, hanno una cava di ghiaia. Coltivano mango, vite, patate dolci e pomodori. Ma vivono assediati dal nemico. 

Ai professori e agli altri pendolari che lavorano in Israele tocca infatti passare ogni giorno per sei chilometri di strada in territorio palestinese, che da quattro mesi sono diventati un incubo. Devono attraversare l’unica superstrada che collega la striscia di Gaza da Nord a Sud, e lì stazionano le autoblindo israeliane. Ma ad ogni metro potrebbe partire l’attacco improvviso, con le pietre e i proiettili.

Per rendere sicure le strade che conducono gli insediamenti, a Gaza come in Cisgiordania, i soldati non hanno esitato a far tabula rasa: hanno abbattuto tutti gli alberi e le case circostanti, dalle quali potrebbero partire gli agguati. Risultato: gli israeliani, un tempo famosi per piantare alberi (la forestazione era diventata quasi una religione civile), ora li sradicano. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, sono ben 400 gli ettari di campi coltivati con alberi da frutta rasati a zero accanto alle strade, da quando è scoppiata la seconda intifada.

L’ultimo piano di pace Clinton, abortito in gennaio, prevedeva il ritiro da tutti gli insediamenti ebraici a Gaza. In Cisgiordania, invece, gli israeliani speravano di poterne salvare parecchi. Ma adesso, con la vittoria di Ariel Sharon, i 200 mila coloni si sentono al sicuro. La destra, infatti, è disposta a tutto per difendere gli insediamenti. Anche quelli situati nelle posizioni meno difendibili, come Nezarim. 

Ma, paradossalmente, ora è proprio l’esercito ad avanzare le perplessità più solide contro l’abbarbicarsi a oltranza nelle enclaves in territorio palestinese. La domanda, assai concreta, è: «Quanto ci costa, in termini di soldi e di vite umane, assecondare l’orgoglio messianico e spesso fanatico dei coloni?»

In realtà, la situazione degli insediamenti in Palestina è assai diversificata fra loro. A Gaza, per esempio, ce ne sono di tre tipi. All’estremo nord i tre villaggi di Dugit, Alei Sinai e Nissanit sono in continuità territoriale con Israele. I coloni, quasi mille, hanno a disposizione una dozzina di chilometri quadri con tanto di stabilimento balneare (la spiaggia di Shikma, tranquilla e affollata di ombrelloni fino all’estate scorsa), un porticciolo per le barche da pesca, un allevamento di ostriche. 

Si raggiunge facilmente la città israeliana di Ashkelon, i pendolari vanno e vengono liberamente. Non sarà difficile praticare uno scambio territoriale: questi dodici chilometri quadri a Israele in cambio di una superficie analoga ai palestinesi, magari per farci scorrere quella famosa strada-corridoio fra Gaza e la Cisgiordania che gli uomini di Yasser Arafat reclamano dal ‘93.

Ci sono poi i quasi trenta chilometri quadri di Gush Katif, all’estremo Sud della striscia di Gaza, proprio al confine con l’Egitto. Qui vivono seimila coloni suddivisi in una dozzina di paesi, due stazioni balneari, un villaggio turistico, una pista d’aeroporto, decine di ettari di serre che esportano primizie in Israele, a Cipro e (clandestinamente) perfino nelle capitali arabe. 

L’insalata di Gush Katif è famosa in tutta Israele perché è garantita l’assenza di vermi, grazie a sapienti incroci genetici. I fiori vengono spediti in tutta Europa, soprattutto in Olanda. Un allevamento modello in mezzo alle dune del deserto ricava tonnellate di latte da un centinaio di mucche, anche queste trasportate ogni mattina a Tel Aviv in autobotte (e di nascosto anche al Cairo). Nel capoluogo, Neve Dekalim, ci sono asili, scuole elementari e medie, licei, due sinagoghe (una sefardita, l’altra aschenazita), officine industriali.
 
I coloni di Gush Katif, che dal 1970 a oggi hanno trasformato il deserto in una specie di Beverly Hills con palme, prati all’inglese e villette in stile Lego, hanno subìto duri colpi dall’intifada-bis, con tanto di attentati agli autobus, bombe, agguati e vendette. Da ottobre i pendolari palestinesi sono stati licenziati, e per sostituire la manodopera arrivano in turni da una settimana studenti da altri insediamenti in zone più tranquille. 

È il caso delle sedicenni Netta Dahari, che viene da Hadera (vicino a Netanya), Avital Moscovich e Leah Meller, provenienti da Ramat Golan: «Ci ospitano nei cottage del villaggio turistico che d’inverno è chiuso, ma per andare a lavorare nelle serre dobbiamo usare gli autoblindo dell’esercito».

A poche decine di metri, dall’altra parte di un muro di cemento, ci sono infatti i campi profughi palestinesi di Khan Yunis e Rafah. Da lì arrivano periodicamente sassi e pallottole, e sarebbe perfino strano che ciò non accadesse. È troppo stridente, infatti, la differenza fra il tenore di vita californiano di questi insediamenti e la povertà da terzo mondo dei palestinesi che li circondano. Ma almeno l’insediamento di Gush Katif possiede una stazza territoriale tale che per i soldati è relativamente semplice difenderlo.

Diverso e disperato è invece il futuro per il terzo tipo di colonie ebraiche che punteggiano il martoriato territorio palestinese di Gaza: le «gocce» come Nezarim, appunto, e altri isolatissimi microinsediamenti come Kefar Darom (200 membri) e Morag (100). Questi sembrano veramente «un insulto al buon senso e alla giustizia», come ha scritto il corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme, Guido Olimpio, due settimane fa. 

Per arrivare a Kefar Darom, per esempio, i soldati israeliani hanno dovuto subire l’umiliazione di dividere in due con un muro di cemento vari chilometri dell’unica autostrada di Gaza: una carreggiata agli israeliani, l’altra ai palestinesi. È un apartheid insensato e onerosissimo: perfino Arafat, ogni volta che deve prendere l’aereo, è costretto a passare attraverso queste forche caudine per raggiungere il suo aeroporto. Per di più, gli israeliani bloccano la circolazione civile durante giorni interi come rappresaglia dopo ogni attacco palestinese. 

Quindi la striscia di Gaza, lunga neanche 50 chilometri, risulta divisa ulteriormente in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro: lavoratori impediti dal tornare a casa la sera e costretti a dormire da amici, ambulanze bloccate, perfino i convogli dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu non possono circolare. Sarebbe come se venisse bloccato tutto il traffico fra Milano e Monza, o fra Roma e Fiumicino.

I coloni, tuttavia, sono riusciti in questi ultimi mesi a togliersi di dosso la nomea di provocatori, perlomeno agli occhi di fette consistenti dell’opinione pubblica israeliana. Il punto di svolta è stata l’imponente manifestazione dell’8 gennaio a Gerusalemme, organizzata dall’ex dissidente russo Nathan Sharanski (anni di gulag comunista sulle spalle). 

Con i loro canti e balli e la loro solidarietà tranquilla e gioiosa, i coloni accorsi in massa hanno incantato perfino alcune fasce della sinistra, che vedono in loro gli eredi dello spirito socialista e pionieristico dei kibbutz. Così oggi, nella nuova Israele di Sharon, i coloni hanno smesso di essere un problema da risolvere, e qualcuno li considera una bandiera da sventolare.

Gli insediamenti nel deserto di Samaria e Giudea hanno almeno una giustificazione storica, perché coprono a pois il territorio di quello che tremila anni fa era il regno di Davide. Ma le mini-enclaves ebraiche dentro a Gaza saranno difficili da difendere perfino per Sharon, che quando era ministro della Difesa e poi dei Lavori pubblici ne favorì la costruzione. In ogni caso, dalle poche centinaia di metri di Nezarim, oltre che da quelle del monte del Tempio a Gerusalemme, dipende la pace in Medio Oriente.
Mauro Suttora  

Friday, December 30, 1988

Israele e Palestina, intifada

ORA SPARIAMO

I territori occupati di Israele 

dal nostro inviato Mauro Suttora

Europeo, 30 dicembre1988

Gerusalemme ovest (Israele)
Yerushalaim, anno 5749 dell' era ebraica. 

Per il signor Edoardo Recanati, 54 anni, la strada che da Gerusalemme porta a Bet Lehem e poi giu' fino a Hebron e' la "strada dei patriarchi". La percorre due volte al giorno, per andare al lavoro al mattino e per ritornare a casa la sera: in tutto, cinquanta chilometri.
Ma giovedi' 15 dicembre questo metodico pendolare ha trovato la strada bloccata: i ragazzi palestinesi dell'intifada hanno ricominciato a tirar pietre, e allora il signor Recanati ha dovuto fare un lungo giro con la sua Lancia Delta bianca per evitare i posti di blocco .

Il 15 dicembre 1988 è una data che Recanati si ricorderà per un pezzo: "Siamo tutti sotto shock, anche se ce l'aspettavamo".
La svolta degli Stati Uniti, che accettano Arafat come interlocutore, avra' un impatto concreto molto maggiore sulla vita di Recanati che su quella degli altri tre milioni di israeliani .
Lui , infatti , e' uno dei 70 mila " coloni " ebrei che dal 1977 in poi (cioe' da quando e' salita al potere la destra del Likud) sono andati a stabilirsi in Cisgiordania .

Questi coloni rappresenteranno la piu' grossa spina nel fianco del futuro Stato palestinese , che si dovrebbe creare nei territori occupati per vent' anni da Israele .
"Arafat e' solo un terrorista criminale " , accusa Recanati . Difficile , quindi , che lo possa accettare come suo presidente . E allora ? Andarsene , profughi cacciati da altri profughi ? " Non ci pensiamo nemmeno " , sorride calmo , " siamo qui per restare " . 
Recanati vive a Tkoa , un villaggio di 400 persone in cima a una montagna spelacchiata . Da lassu' , una vista impareggiabile : da una parte i campanili e i minareti di Betlemme e Gerusalemme , dall' altra la valle del Mar Morto . In fondo , quando l' aria e' tersa , le luci di Amman , la capitale della Giordania .

Recanati e' arrivato qui una decina d' anni fa da Roma , dove faceva il manager , e dove ha lasciato cinque figli . Si e' risposato con una sudafricana e adesso ha due piccoli nella bella casetta di Tkoa . Alle elezioni di novembre ha votato per il partito di estrema destra Moledet , guidato dal generale della riserva Abramo Zeevi (soprannominato ironicamente 'Gandhi' perche' assomiglia , solo fisicamente , al leader della nonviolenza ) . Parola d' ordine di Moledet , che ha avuto il 2% dei voti e due deputati : " Trasferimento " . Tutti i palestinesi di Cisgiordania e Gaza non disposti a riconoscere l' annessione a Israele dovrebbero essere mandati via . Con le buone o con le cattive ? " Pagandoli , pagandoli " , propone Recanati . " Ma lo sa che una volta il rabbino Meir Kahane fece pubblicare su un giornale arabo una finta inserzione in cui offriva viaggio pagato e una certa cifra per i palestinesi che avessero voluto emigrare nel mondo ? La casella postale fu cosi' ingolfata di risposte che Kahane venne denunciato per disturbo di servizio pubblico " .

Insomma , comprare un milione e mezzo di palestinesi . Oppure deportarli . Eppure Recanati non e' un fascista . Anzi : anche lui , come tanti ebrei italiani , piange molti parenti morti nei lager nazisti . E proprio per fuggire dai fascisti suo padre da Roma si stabili' per dieci anni a Tunisi .
"Nel 1967 ero nel Psiup , estrema sinistra, progressista , laico , terzomondista , Vietnam e tutto quanto... Pochi giorni prima della guerra dei Sei giorni un mio amico , giornalista dell'Unità , mi propose di scrivere un articolo , in quanto ebreo , spiegando perche' Israele non aveva diritto di esistere , e come i paesi arabi lo avrebbero spazzato via . . . " . 

Non era neppure religioso , Recanati . Poi , d' improvviso , il colpo di fulmine . Il richiamo della Terra Promessa . Della terra dei patriarchi . " Qui , su questa stessa strada , quattromila anni fa camminavano Giuseppe e Giacobbe . Proprio qui , sullo spartiacque fra la valle del Giordano e il mare " , dice entusiasta mentre mi porta sulla sua auto da Gerusalemme a Tkoa .
Posto di blocco dell' esercito israeliano : " Qui c' e' la linea verde , il vecchio confine del' 67 . Non mi piace , non capisco perche' Israele continui a fare questa differenza . Ormai non esiste piu' la Cisgiordania " . Quella che tutto il mondo chiama Cisgiordania o " territori occupati " , infatti , per lui sono solo Giudea e Samaria : " Le regioni bibliche che fanno parte di Israele , da sempre " .

A un certo punto Recanati accosta a destra e si ferma . Siamo all' altezza della tomba di Rachele , la seconda moglie di Giacobbe . Va dietro , apre il cofano , tira fuori un mitra , torna al volante e posa il mitra fra i due sedili : " E proibito sparare , ma farlo vedere serve . Una volta due coloni che erano rimasti bloccati fra due barricate di palestinesi hanno sparato in aria e loro sono scappati . Il bilancio di un anno di intifada pero' , Recanati , e' di 400 morti palestinesi contro otto ebrei : ammettera' che il vostro esercito vi difende spargendo troppo sangue ? " Per me la vita e' sacra , anche un solo morto e' sempre troppo . Ma le pietre sono proiettili . Magari non ammazzano ma feriscono , mutilano , accecano . Davide con una pietra conquisto' un regno , no ? " .

E qui si scopre il tremendo affronto che , piu' sul piano simbolico che su quello concreto , i palestinesi hanno fatto agli israeliani in quest' anno di intifada : si sono impossessati dei sassi, dell' arma dei poveri , di quella stessa arma con la quale il massimo eroe d' Israele elimino' il gigante Golia . Per i palestinesi passare dalle bombe alle pietre e ' stato un segnale di buona volonta' ; per molti israeliani , al contrario , un simbolo di perfidia estrema . " E di vigliaccheria , anche " , aggiunge Recanati , " visto che mandano avanti i bambini " .

Come tutti i pomeriggi , i negozi palestinesi della disordinata periferia di Gerusalemme sono chiusi per sciopero. Aperti solo i venditori di souvenir per i torpedoni di turisti cristiani in pellegrinaggio verso Betlemme. D' improvviso Recanati riconosce un passante arabo , si ferma e gli da un passaggio per due chilometri: "E' Hassan , da quando l'Olp ha ordinato lo sciopero ha dovuto chiudere il suo negozio di fruttivendolo e adesso lavora come autista dei bus della societa' Egged . Peccato , da lui compravamo ottima frutta . Veramente una brava persona " . 
Lei non odia i palestinesi , signor Recanati ? " Assolutamente no . E neanche loro odierebbero noi , se non ci fosse l' Olp a istigarli . Crede che Hassan adesso sia contento di fare l' autista ? Solo che non puo' dire nulla , altrimenti l' Olp lo ammazza per collaborazionismo " . 

Oltrepassiamo Betlemme , arriviamo a Beit Sahur. Sulla strada, sassi. Qualche resto di copertone bruciato.
"Ahi, qui sta succedendo qualcosa", mormora Recanati preoccupato. D'improvviso, dietro una curva, dei ragazzini. Qui ragazzi arabi per le macchine con targa israeliana significano pietre, bombe molotov. Come minimo vetri rotti, se non peggio. Freniamo. Recanati alza il mitra. I ragazzi scappano dietro il ciglio. Ho le gambe dure per la paura : tirare pietre sarà forse "nonviolento" ma far da bersaglio non è piacevole. Anzi, è terrorizzante .

Recanati mi guarda soddisfatto: "Così anche lei ha avuto un assaggio di intifada".
Arriviamo a Tkoa, in cima alla collina. Recanati e sua moglie mi accolgono cordialmente nella loro casa, mostrano la terra che coltivano, i radar dei militari israeliani che li proteggono. Loro non ci credono proprio che su questa terra nascera' lo Stato di Palestina.

E allora , continuerete per l'eternità a demolire case palestinesi, come li' , sulla collina di fronte, a Kissan ?
"La punizione collettiva è l'unica che gli arabi capiscono . Fa parte della loro cultura".
E l'opinione pubblica mondiale?
"Cosa ha fatto l'opinione pubblica per Auschwitz ? Nulla, così abbiamo imparato a difenderci da soli". 
Shalom, pace, signor Recanati.

Mauro Suttora