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Tuesday, October 18, 2022

Togliere le foto di Mussolini è come nascondere il fascismo sotto il tappeto



Bersani si oppone al ritratto del duce per i novant’anni del Mise. Un po’ come Boldrini che voleva abbattere l’obelisco del Foro Italico. Toccherà chiedere consiglio agli islamisti di Palmira

di Mauro Suttora

HuffPost, 18 ottobre 2022  

Si chiamava Beneto Giraldon, il capo scalpellino incaricato da Napoleone di distruggere tutti i leoni alati di San Marco dopo la conquista di Venezia nel 1797. Così sparirono un migliaio di simboli della Serenissima che campeggiavano sulle porte e i palazzi pubblici di ogni città veneziana, da Bergamo a Zacinto. Fu uno scalpellamento metodico, da psicanalizzare: la neonata Repubblica francese si accaniva contro la millenaria Repubblica di San Marco, la più longeva, splendida e tollerante della storia. Quel che risparmiarono i francesi fu poi distrutto in Istria e Dalmazia da Tito, dopo la conquista jugoslava del 1945. 

Chi sarà ora il Giraldon che ci libererà da ogni ricordo mussoliniano? Perché dopo la rimozione della foto del duce dalla mostra per i 90 anni del palazzo del Ministero dello Sviluppo economico (fu anche lui ministro in quelle stanze), dopo la protesta di Pierluigi Bersani che non tollera di essere incorniciato e appeso sullo stesso muro, ci siamo improvvisamente accorti che il mascellone appare anche nella galleria dei ritratti degli ex presidenti del Consiglio a palazzo Chigi. Via.

E come mai sopravvive quell'obelisco all'entrata del Foro Italico con su scritto Dux? Vergogna.

Eppure con la fascioclastia del 1943-45 pensavamo di esserci totalmente purificati, cancellando da ogni marmo d'Italia scritte con le date in era fascista e fasci littori.

Lo aveva riscoperto solo Laura Boldrini nel 2015, l'obelisco ducesco sotto cui passano spensierati ogni domenica milioni di tifosi romanisti e laziali da tre quarti di secolo. Propose di abbatterlo subito, con l'ignara urgenza dei neofiti. La liquidò Walter Veltroni: "Mi sembra assurdo nascondere un ventennio che è parte tragica della nostra storia".

Parole profetiche.

Per incredibile coincidenza del destino, venerdì 28 ottobre rischia di essere votata la fiducia al governo Meloni. Cent'anni esatti dopo la marcia su Roma. Non vogliamo assolutamente addentrarci nella querelle su quanto sia fascista, post o neo il prossimo governo. Diciamo solo che comincia per M e finisce per i. Oppure che la fiamma arde ancora. 

In ogni caso, per fugare ogni sospetto la soluzione è semplice. Fra i suoi primi atti la nuova premier istituirà una commissione internazionale per la promozione della virtù antifascista e la prevenzione del vizio littorio. Inviteremo a farne parte i migliori iconoclasti del pianeta: i talebani dei Buddha di Bamiyan, gli islamisti dell'Isis di Palmira e gli statunitensi bonificatori di statue di Cristoforo Colombo. Essi dovranno individuare e distruggere ogni traccia di mussolinismo: quasi tutte le stazioni e i palazzi di giustizia, la Farnesina, il codice Rocco, la giornata del Risparmio, l'Inps, la Festa degli alberi.

Elimineremo da wikipedia qualsiasi riferimento al Ventennio, così Bersani non dovrà più sopportare Mussolini come ministro suo predecessore al Mise. E anche lo scalpellino leontoclasta Giraldon rischierà: quel suo nome Beneto meglio cambiarlo in Veneto. 

Sunday, May 02, 2021

Una politica appesa a Fedez

Il rapper dice che la Rai è lottizzata, e improvvisamente se lo ricordano tutti. Sul merito, il ddl Zan, soprattutto il centrosinistra sconta vent'anni di smemoratezze

di Mauro Suttora

HuffPost, 2 maggio 2021

Ricordavo la deliziosa Ilaria Capitani portavoce di Walter Veltroni nel 2007, quando intervistai l'allora sindaco di Roma. Mai avrei immaginato si trasformasse in feroce belva della censura contro tal Federico Lucia da Buccinasco, tatuatissimo cantante con faccia e voce attraenti quanto quelle di Morgan.

C'eravamo liberati da appena una settimana di Grillo, suicidatosi col video sugli stupri, mo ecco Fedez. L'ennesimo famoso solo per essere famoso (trovate qualcuno che sappia canticchiare qualche sua canzone) che pretende di comiziare di politica coi miei soldi (via Rai). Anche Celentano sproloquiava, ma almeno lui aveva all'attivo decenni di inni ecologisti.

Dato il mio cognome, ogni tanto qualcuno mi ammonisce: "Sutor, ne ultra crepidam!" Ciabattino, non (andare) oltre la scarpa. E gli inglesi chiamano "ultracrepidarian" i saccenti che dispensano giudizi su questioni che oltrepassano la loro competenza.

Invece noi, tramontato il comico a 5 stelle, abbiamo il rapper "tanta roba" come nuovo maître-à-penser.

Il quale ci rivela, in ritardo di mezzo secolo su Pannella, che la Rai è lottizzata. E che, essendo servizio pubblico, magari non può concedere proprio a tutti di vomitare insulti in diretta tv contro un politico davanti a milioni senza contraddittorio.

Ovviamente, poi, il populismo abbisogna di vittimismo. Quindi il povero rapper che si chiama come un corriere espresso lamenta di avete subìto una tentata castrazione verbale da parte dell'incantevole Capitani. Ma lo fa in modo simpatico, stile 'Le vite degli altri': registrando e pubblicando la loro telefonata privata. E, come nella Ddr, tagliandone gli spezzoni che non gli convengono.

Tuttavia l'avvenimento più stupefacente di queste ore è che si è scatenato il 'dibattito'. Letta e Zingaretti, di sinistra, se la prendono con una dirigente Rai di sinistra. L'inevitabile Di Maio loda Fedex: "Una persona che in tutto quello che fa ci mette il cuore", col 'ci' rafforzativo molto millennial. E ci mancherebbe: Fedez si esibiva sui palchi grillini quando loro erano arroganti come lui adesso, prima della ripulita.

Gli addetti ai social di tutti i politici li hanno costretti a esprimersi sull'argomento del giorno. Resistono solo Draghi, Cartabia e Mattarella.

Quanto al contenuto del "messaggio" del nuovo EmilioFedez progressista, ricordo che la prima proposta di legge contro l'omofobia porta la firma di Franco Grillini (cui i grillini con la minuscola hanno tagliato il vitalizio nonostante abbia un tumore). È del 2001: sono passati vent'anni, il Pd ha governato per dieci, nel frattempo Salvini ha fatto pure in tempo a cambiare idea ("Allora era d'accordo con me", dice Grillini).

La legge Zan merita sicuramente una discussione seria e approfondita: come proteggere gli lgbt, per esempio, senza ledere le libertà di parola e opinione?

Dilemmi importanti, mettere d'accordo gli eterni Capuleti e Montecchi della scena pubblica italiana sarà difficile.

Per carità, anche Jean-Paul Sartre era fazioso. Ma più cauto di Fedez: la sua compagna Simone De Beauvoir non possedeva decine di milioni di follower.

Mauro Suttora

Friday, November 20, 2020

Il nuovo Sassoli paragrillino


HuffPost, 20 novembre 2020

David Sassoli era un ottimo giornalista. Lo ricordo, lui al Giorno e io all'Europeo, mentre indagavamo più di trent' anni fa a Reggio Calabria sull'assassinio del presidente delle Ferrovie Ligato.

Da un po' di tempo però Sassoli (bravo anche come politico) si è messo a dire sciocchezze paragrilline. 

L'ultima: "Cancellare i debiti pubblici dovuti al virus".

Gli ha risposto seccamente ieri la governatrice Bce Lagarde: "Illegale, bisognerebbe cambiare i trattati Ue". 

Grave che il presidente dell'Europarlamento finga di ignorare l'abc del diritto europeo. Sassoli è improvvisamente impazzito? Assolutamente no. Si è soltanto messo in testa di candidarsi per il Quirinale fra un anno (il potere dà alla testa, la monta come la panna, d'altra parte se ce l'hanno fatta Mogherini o Di Maio, perché lui no? Cos'ha in meno di Veltroni, un altro che freme?) 

Perciò Sassoli ha bisogno dei voti grillini. Quindi li corteggia e segue nei loro deliri.

Questo dimostra la perniciosità di tenere in parlamento 300 cascami di un ex movimento che, nonostante quasi non esista più (3% alle regionali in Veneto due mesi fa, 7% a livello nazionale), condiziona ancora chi abbisogna dei loro favori.

Poiché, contrariamente all'adorabile poliglotta Von Der Leyen, Sassoli ha grosse difficoltà a parlare inglese e francese, quindi è inadatto alla sua attuale carica (l'ennesimo politico italiano che ci fa fare figuracce all'estero), sarebbe meglio, se vuole tornare a Roma, che si candidi sindaco. Quella sì che sarebbe una carica alla sua portata. E utile per il Pd.

Mauro Suttora 

Thursday, October 08, 2020

Ripristinati i vitalizi, staffilata ai demagoghi

PUBBLICATE LE MOTIVAZIONI, DIVENTA ESECUTIVA LA SENTENZA CHE ANNULLA I TAGLI AI PARLAMENTARI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 ottobre 2020

Gli ex senatori ai quali erano stati tagliati i vitalizi li riavranno tutti indietro, e con gli arretrati. Con il deposito delle motivazioni il 5 ottobre è diventata infatti esecutiva la sentenza di giugno che ha annullato il taglio del 60% dell'ottobre 2018. 

Il tribunale interno del senato, la cosiddetta 'commissione contenziosa' formata dal presidente Giacomo Caliendo (Forza Italia), Simone Pillon (Lega), Alessandra Riccardi (ex M5s, ora Lega) e da due giuristi, fra cui il relatore Giuseppe Dalla Torre, ha dovuto ammettere che il taglio voluto dai grillini (ma festeggiato ufficialmente da quasi tutti i partiti) "si discosta sensibilmente dai paradigmi costituzionali in materia di certezza del diritto, legalità, eguaglianza, solidarietà, laddove tocca retroattivamente i criteri di calcolo in base ai quali fu a suo tempo determinato, per ciascun parlamentare, il quantum della prestazione dovuta. Il provvedimento infatti incide sull’atto genetico costitutivo del diritto al vitalizio e non sul rapporto in essere, perché non interviene per giustificate esigenze a limitarne l’importo, ma modifica gli atti con cui furono predisposti i provvedimenti di liquidazione per i singoli parlamentari".

Una bella staffilata per i demagoghi che s'illudevano di poter toccare impunemente dei diritti acquisiti. La deliberazione cancellata, infatti, disponeva "con effetti retroattivi una nuova determinazione dell’importo dovuto a ciascun ex parlamentare, incidendo su un diritto soggettivo perfetto qual è quello derivante dal provvedimento di liquidazione a suo tempo prodotto". 

Il punto critico riguarda "la revisione dei coefficienti di trasformazione che hanno un effetto distorcente, laddove determinano sensibili riduzioni dei vitalizi negli importi di minore entità, mentre rimangono senza effetto per quelli di importo massimo. In questo modo si incide, talora accentuatamente, sulla qualità della vita dei percettori di vitalizi di minore consistenza, con l’effetto sul piano giuridico di intaccare principi costituzionali posti a garanzia della dignità della persona umana, della eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, e della solidarietà”.

La sentenza, insomma, stabilisce che la tesi degli "ex parlamentari ladri" è falsa e diffamatoria. E che il taglio dei vitalizi viola la Costituzione e l'abc dello stato di diritto. Intanto, però, in questi due anni un centinaio di ex parlamentari che attendevano il giudizio della corte sono defunti. Rossana Rossanda, per esempio, che aveva perso il 72% dei suoi 2.120 euro netti. La sua amica Luciana Castellina, 91 anni, altro volto storico della sinistra, ha subìto un taglio ancor più doloroso: l'84%, passando da 3.140 euro a 500.

Ora anche la Camera dovrà adeguarsi alla sberla del senato contro il provvedimento abborracciato di riduzione. Quindi l’ex ministro socialista Claudio Martelli, eletto per quattro legislature, tornerà a percepire 8.455 euro lordi rispetto agli attuali 3.400. Veltroni riavrà i suoi novemila euro mensili tagliati a seimila, Vendola risalirà da cinque a ottomila, Prodi ne recupererà mille. Felici anche Gino Paoli e Cicciolina, il cui vitalizio di 3.100 euro lordi per una sola legislatura era stato ridotto a mille.

Mauro Suttora


Friday, June 12, 2020

Conte cade al massimo a settembre

SCENARIO/ Ecco perché a Mattarella conviene una crisi non più tardi a settembre

intervista a Mauro Suttora

Il Sussidiario, 10 giugno 2020

Il piano Colao è fatto solo di buoni propositi. Conte? Se gli va bene resta in sella fino alle regionali di settembre. Anche a Pd e M5s fa comodo che cada

Il piano Colao per la rinascita dell’Italia rischia di oscurare gli Stati generali dell’economia su cui Conte intende investire con forza per rafforzare la propria figura e il proprio peso politico, anche in chiave elettorale. Il tempismo e il clamore con cui i 100 e passa punti messi nero su bianco dalla task force guidata da Colao sono stati rilanciati dai media italiani hanno fatto sorgere il sospetto che l’ex amministratore delegato di Vodafone – scelto, voluto e “imposto” da Mattarella nel pieno dell’emergenza coronavirus – potrebbe essere il candidato a sostituire l’attuale premier a palazzo Chigi.

“No, non penso – risponde il giornalista Mauro Suttora –, al massimo potrebbe fare il ministro, non credo che possa ambire a fare il presidente del Consiglio”. 
Più che da Colao, secondo Suttora, Conte deve guardarsi da Pd e M5s. E soprattutto deve guardare con preoccupazione a settembre, quando la bomba sociale potrebbe lasciare il paese nel vortice delle proteste e con le casse vuote: “Se gli va bene, Conte sopravviverà fino al 20 settembre, quando si voterà per le Regionali e il M5s affonderà ancora di più, mentre il Pd non riuscirà ad andare oltre il 20%”.

Partiamo dai contenuti della bozza Colao: è la vera road map per uscire dall’emergenza?
No, sono tanti buoni propositi, molto pragmatici, tipici di un manager di una multinazionale privata. Non hanno però nulla a che vedere con le dinamiche della politica. Inutile illudersi che i bocconiani, ottime persone, possano fare politica: abbiamo già avuto il disastro Monti. Vedo che sono 102 punti e che lo stesso Colao si è detto contento se ne dovessero accogliere 40. Già questa frase dimostra che non conosce la politica italiana. Secondo me, al massimo ne verranno realizzati quattro o cinque.

Il piano di Colao rende inutili o condiziona pesantemente gli Stati generali dell’economia?
Mi sembra inconcepibile che si possa organizzare in pochi giorni un appuntamento con cui si vuole addirittura ridisegnare il futuro o “trovare un nuovo modello di sviluppo” come ha scritto Veltroni sul Corriere della Sera. Siamo ai proclami ridondanti: si ciancia di nuovo modello di sviluppo, un tema che ricorre dalla crisi del Kippur del 1973, 47 anni fa. Già allora si parlava di nuovo modello di sviluppo e di stop al petrolio.

Ma poi, servono davvero gli Stati generali? Non è già abbastanza chiaro che cosa serve al paese?
Ma certo. È una barzelletta, che oltretutto sta mettendo nei guai Conte, perché giustamente il Pd si è risentito, visto che il premier ha fatto tutto da solo, a loro insaputa. E poi alla fine, che cosa sono gli Stati generali dell’economia: un convegno? Una passerella? Per preparare una cosa seria ci vogliono settimane.

Intanto Conte si ritrova in mano questo piano di Colao, che tra l’altro è frutto dello stesso metodo: ascolto e confronto con i soggetti economici. Sarà costretto a usarlo?
Lo agiterà come propaganda, ma finché non lo declinerà in leggi, e poi in decreti di attuazione – come si è già visto con i suoi precedenti decreti o Dpcm – campa cavallo. Se gli va bene, gli potrà servire per scavallare l’estate ancora in sella.

Se Conte dovesse farlo proprio e adottarlo come programma di governo, assumendosene la responsabilità politica, potrebbe tornargli utile ai suoi fini elettorali – i sondaggi lo accreditano di un elevato gradimento personale e di un 14% di consensi come capo di un eventuale partito – o rischia, una volta che si dovesse tornare alle urne, di fare la stessa fine di Monti?
Il 14% se gli va bene, ma penso che non supererebbe il 10%. Comunque una sua lista sarebbe doppiamente utile: in primo luogo, per arginare il disastro dei Cinquestelle, coagulando attorno a sé i grillini moderati, mentre gli altri andranno con i più movimentisti capeggiati da Di Battista. In secondo luogo, sarà un satellite del Pd e servirà come gamba per un ulteriore governo a guida dem.

Colao può aspirare a essere il successore di Conte proprio perché è l’unico che ha un piano disponibile, visto che il governo non ne ha uno, e quindi potrà tornare utile quando l’emergenza sanitaria sarà finita e ci sarà da affrontare solo e soprattutto l’emergenza economica?
No, penso che al massimo potrà aspirare a fare il ministro; il premier no, assolutamente.

Anche se Colao è stato chiamato nel pieno dell’emergenza da Mattarella? Anzi, c’è chi dice che il suo piano sia uscito sui media con questo timing e con questo clamore proprio come mossa di Mattarella contro Conte. Che ne pensa?
Leggo tutto e il contrario di tutto e non ho fonti dirette superiori a quelle dei retroscenisti.

Il Pd ha criticato Conte per gli Stati generali dell’economia, ma è vero che in questi tre mesi non ha saputo partorire un’idea di rilancio del paese. Anche il Pd sta deludendo Mattarella?
Dal punto di vista programmatico il Pd è nullo. E il M5s pure. Finora c’è stato da rattoppare una situazione che scoppierà a settembre, quando letteralmente non ci saranno più soldi per pagare gli stipendi degli statali e le pensioni.

Ma questo governo, caratterizzato finora da incertezze e tentennamenti, riuscirà a reggere un autunno caldo? Ha ancora lunga vita la maggioranza giallo-rossa?
Se gli va bene, Conte sopravviverà fino al 20 settembre, quando si voterà per le Regionali, il M5s affonderà ancora di più e il Pd non riuscirà ad andare oltre il 20%. A Zingaretti non è riuscita la stessa operazione condotta da Salvini: dissanguare i Cinquestelle. Salvini li ha dimezzati e Zingaretti sperava di indebolirli ancora di più, ma non è andata così: il M5s continua a galleggiare sul 15-16%.

E in questo avvicinarsi al redde rationem di settembre Renzi come si muoverà?
In maniera inversamente proporzionale ai sondaggi: più Italia Viva ha percentuali basse, più Renzi si dà da fare per cercare spazio e visibilità; se la dote dei consensi accreditati sarà più congrua, non avrà bisogno di agitarsi così tanto. Se fosse già accreditato anche solo del 10%, il governo Conte non ci sarebbe più.

Conte è sempre più debole e isolato, ma ha dichiarato di sentirsi sicuro che non cadrà. Non deve temere nessuno sgambetto?
Un politico che dice “non cadrò” è già un fantasma che cammina. Anche perché immagino che il Pd abbia accettato di tenerlo come premier lo scorso agosto dopo il ribaltone con l’implicito intendimento che sarebbe durato al massimo un anno. E che Conte cada fa comodo anche a Di Maio, che potrebbe diventare il vice di un premier targato Pd.

Pd e M5s stanno già lavorando al dopo Conte?
Certamente. Ma sono tutti giochi che non hanno contatto con la realtà.

Perché?
La realtà è quella di un paese che non produce, non guadagna e quindi non potrà pagare le tasse. Una delle grandi pensate di Colao è quella di spostare le scadenze fiscali da giugno a settembre. E poi a settembre?

Giusto. A settembre che succederà?
Penso che convenga anche a Mattarella una crisi di governo a settembre, prima che cominci la discussione sulla nuova Legge di bilancio. Meglio che a novembre. E prevedo che più che un autunno caldo sarà un autunno vuoto, nel senso che le casse dello Stato saranno vuote.

Ma non arriveranno i soldi del Mes e del Recovery Fund?
Arriveranno quelli del Mes, mentre non è detto che arrivi, soprattutto nei tempi necessari, il sostegno del Recovery Fund.

Se arriverà il Mes, su cui Conte e il M5s hanno più volte ribadito di essere fortemente contrari, potrebbe saltare la maggioranza giallo-rossa, visto che invece Pd e Italia Viva sono favorevoli?
No. I grillini hanno digerito perfino la Tav, e anche questa è solo una commedia. Il più lucido tra i grillini è proprio Grillo, che continua a invitare Di Maio e i suoi a stare attaccati come cozze al Pd, perché alle prossime elezioni il M5s rischia di dividersi o di sparire.

E in questo scenario che cosa farà il centrodestra, che appare meno coeso di qualche settimana fa?
Sono condannati a stare insieme, hanno il vento in poppa. E poi Salvini, Meloni e Berlusconi sono abbastanza intelligenti per non sciupare un’occasione storica come questa.
Marco Biscella 

Tuesday, June 09, 2020

Nessun governo determinerà il nostro futuro

ELOGIO DELLA SPONTANEITÀ

di Mauro Suttora

Huffington Post, 9 giugno 2020

articolo originale

Nessun politico ha mai pianificato il progresso con stati generali o caporali. Il “nuovo modello di sviluppo” resuscitato da Walter Veltroni arriva sempre per caso: negli ultimi 40 anni grazie alle invenzioni di Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple), Mark Zuckerberg (Facebook) o Jeff Bezos (Amazon).

Ricordate Altavista, Yahoo, Blackberry, Nokia? Erano il massimo dell’avanguardia, poi spontaneamente sono stati sepolti da Google e Samsung. Senza interferenze di governi.

Nessun ministro della musica ha mai deciso di passare dai 78 giri ai 33 e ai 45, dai registratori geloso alle cassette, dai mangiadischi ai cd, dai walkman agli ipod, dalle chiavette a spotify.

Nessun sottosegretario di cinema e tv ha mai programmato betamax e vhs, dvd e blu-ray, schermi piatti e curvi, satelliti e pay, streaming e ondemand.

Nessun gerarca minore grillino potrà mai immaginare come i nostri figli filmeranno i nostri nipoti fra cinque anni, dopo che abbiamo dovuto riversare in vhs i superotto dei nostri padri perché i proiettori erano finiti in soffitta, e poi digitalizzarli su dvd; e ora anche i dvd sono sorpassati.

Nessuna task force di Colao potrà mai ordinare a tir, aerei e navi di abbandonare gli inquinanti diesel e kerosene per elettricità, sole e vento. Al massimo, se desideriamo “sostenibilità”, toglieremo i miliardi che regaliamo ai camion come rimborso accise per la follia di trasportare acqua minerale da 10 cent al litro dalle Marche alla Sardegna e dalla Valtellina a Siracusa. Così magari il chilometro zero diventerà più conveniente del km mille.

Nessuna neostatalista Mariana Mazzucato potrà mai obbligarci a usare bici invece delle auto, e monopattini invece delle bici.

Nessun aeroporto di Malpensa accuratamente progettato da governi e costato miliardi potrà mai competere con Orio al Serio, diventato terzo scalo italiano gratis, senza che nessun burocrate lo inserisse in un piano quinquennale.

I primi a rendersi obsoleti sono i governanti che convocano grandiosi e ultimativi convegni per “disegnare il futuro”. Perché il nostro futuro non è di loro proprietà. Quindi sceglieremo noi se sarà green o grey, se l’impronta ecologica si alleggerirà, se la decrescita sarà felice, se il rientro nelle emissioni di vent’anni fa sarà dolce. E quando bus e treni torneranno a essere meno rischiosi per il virus e più per l’ambiente, li riempiremo di nuovo.

Faremo ogni giorno qualcosa che non è calcolabile da chi vuole dirci quel che vogliamo. Perché non ci fidiamo del governo, di nessun governo. E non c’è bisogno di essere libertari né anarchici per accogliere l’invito del filosofo verde Wendell Berry: “Quando vedi che i politicanti riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero, abbandonalo”.
Mauro Suttora

Wednesday, January 07, 2015

Presidenziabili 2014

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Chi sarà eletto presidente della Repubblica in febbraio, passati i 15 giorni previsti dalla Costituzione dopo le dimissioni quasi sicure di Giorgio Napolitano? ROMANO PRODI, 75 anni, dev’essere risarcito per i 101 traditori che gli votarono contro nel segreto dell’urna due anni fa. Però è un vecchio dc.

Se sarà donna, potrebbe essere EMMA BONINO, 66 anni. Apprezzatissima in Europa (fu commissaria Ue negli Anni 90, nominata da Berlusconi) e nel mondo (si batte contro la pena di morte e ha fatto nascere la Corte internazionale dell’Onu). È radicale, quindi né di destra né di sinistra. E papa Francesco ha fatto cadere il veto del Vaticano contro di lei.

Un altro bipartisan: WALTER VELTRONI, 59 anni. Il fondatore del Pd non è più parlamentare, è stato «rottamato» da Renzi. Ma tutti ne apprezzano il buon carattere, anche se lo scandalo sulla mafia a Roma lo ha danneggiato (Luca Odevaine, arrestato, era un collaboratore del Veltroni sindaco).
 
Fra le candidate donne sembra un po’ in ribasso Roberta Pinotti, ministro della Difesa. ANNA FINOCCHIARO, 59, senatrice Pd, resta invece a galla: affidabile, affascinante, posata, la ex magistrata siciliana ha un’unica macchia: quella foto all’Ikea in cui un agente della scorta la aiutava a trasportare pacchi.
  
È un personaggio mitico, inaffondabile. Direttore del quotidiano Il Tempo per 15 anni, GIANNI LETTA, 79, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio in tutti i governi Berlusconi. Zio di Enrico, il suo carattere felpato lo ha fatto apprezzare anche a sinistra. Se fosse eletto sarebbe il trionfo del «patto del Nazareno»: l’alleanza fra Renzi e Berlusconi nonostante i loro partiti siano uno al governo e l’altro all’opposizione. 
 
Sconosciuto al grande pubblico fino a due mesi fa, quando Renzi lo ha nominato ministro degli Esteri, il 60enne PAOLO GENTILONI andrebbe bene se il premier volesse un presidente che non gli faccia ombra. Passato dall’estrema sinistra (Manifesto) a quasi democristiano (Margherita), Gentiloni è amico degli Usa.
 
Fra i non politici di professione il più quotato sembra RENZO PIANO, 77. Il nostro architetto più famoso gode di fama mondiale e ha acquistato anche un po’ di esperienza istituzionale dopo la nomina a senatore a vita dell’agosto 2013. Un altro outsider di lusso è il senatore Nobel Carlo Rubbia, 80.

Monday, February 07, 2011

I radicali salvano Berlusconi

Pannella stangherà i pm per conto del Cav

Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier

di Mauro Suttora

Libero, 7 febbraio 2011

Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).

In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.

Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.

Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».

Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».

I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.

Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.

L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.

Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».

Wednesday, September 29, 2010

Roma: metro senza stazioni

Incredibile: nella futura linea C cancellate quasi tutte le fermate in centro 

Oggi, 22 settembre 2010

 di Mauro Suttora

Trenta chilometri di coda la scorsa settimana sul Raccordo anulare. Ma l’inferno, per chi vuole muoversi a Roma, è quotidiano. I pendolari non sanno più se rassegnarsi a passare ore in auto, o farsi schiacciare come sardine in metro e nei bus durante le ore di punta. Urgentissime, quindi, nuove linee di metro. 

Adesso però la capitale stabilisce un nuovo record da Guinness: una metropolitana senza stazioni. 
La nuova linea C, infatti, nel suo tratto centrale da piazza Venezia a Ottaviano (quartiere Prati), ha eliminato tre delle quattro fermate previste: Largo di Torre Argentina, Chiesa Nuova e piazza Risorgimento. 

 «Così per ben due chilometri da Piazza Venezia a San Pietro, lungo tutta via del Plebiscito e corso Vittorio, non ci saranno stazioni», dice Mario Staderini, segretario dei Radicali, il primo a denunciare la sparizione delle fermate dal progetto. «Proprio la zona più centrale di Roma, con piazza Navona, il Pantheon e Campo de’ Fiori, non sarà servita».

 Anche Beppe Grillo dieci giorni fa si è accorto della questione, e ha ospitato sul suo sito un’intervista all’architetto Paolo Gelsomini.
 
 Ma non è questione di destra o sinistra. Infatti la società Roma Metropolitane, che sta realizzando la terza linea, è controllata dal Comune. E questo nel 2008 è passato dalla sinistra del sindaco Walter Veltroni alla destra di Gianni Alemanno. 

Com’è potuto accadere questo svarione? E c’è possibilità di rimedio? La società Roma Metropolitane spiega che la fermata Argentina era saltata già due anni fa per il ritrovamento di reperti archeologici. E che la recente scomparsa della fermata Chiesa Nuova, un chilometro più avanti verso il Tevere, è dovuta all’instabilità del terreno, scoperta dopo sondaggi. 

 Il problema è che tutta Roma ha sottoterra qualche reperto archeologico. Quindi, se si rimane prigionieri della smania conservazionista, non si può scavare da nessuna parte. Addio metropolitane, anche la futura linea D. 
E chi se ne importa se i reperti rimarranno comunque sepolti, perché non si possono certo abbattere le case per «valorizzarli» come fece Mussolini con i Fori Imperiali.

 «Senza le fermate in centro la metro C serve a poco», dice Staderini, «sarebbe come se a Milano sparissero tutte le stazioni sulla linea rossa da Cadorna a Palestro. Sul prolungamento della linea B, poi, è stata abolita la fermata Nomentana, che serviva un quartiere popolatissimo. E nel progetto della linea D è già sparita quella di piazza San Silvestro, nodo fondamentale per i capolinea dei bus e perché serve tutta la zona di Montecitorio, piazza Colonna, fontana di Trevi e Tritone».

 «La linea C è l’opera pubblica più costosa attualmente in costruzione in Italia, dai due miliardi e messo previsti è passata a cinque miliardi, contro i quattro e mezzo del ponte di Messina. Ma senza quelle stazioni non ha senso», dice l’architetto Gelsomini sul blog di Grillo.

 «Nelle zone abitate la distanza fra le fermata delle metropolitane dev’essere al massimo un chilometro», conferma a Oggi Edoardo Croci, professore all’università Bocconi ed esperto di trasporti, «perché gli utenti non possono camminare più di mezzo chilometro per raggiungerle. E occorre che ci siano nodi di corrispondenza con tram e bus». 

 Proprio a questo servirebbe la fermata soppressa a largo Argentina, dove il capolinea del jumbotram 8 da Monteverde e Trastevere porta in centro decine di migliaia di persone. Che troverebbero agevole proseguire il viaggio con la metropolitana. 

 La linea C è in progetto dal 1992. Doveva essere pronta per il 2011, ma non lo sarà prima del 2018. Speriamo che almeno una fermata in centro venga ripristinata. 
 Mauro Suttora

Wednesday, June 23, 2010

Pensioni d'oro ai parlamentari

DONNE AL LAVORO FINO A 65 ANNI, MA GLI ONOREVOLI INCASSANO LA PENSIONE A 50

A LORO BASTANO 30 MESI DI CONTRIBUTI, INVECE DI 35 ANNI

Alcuni prendono 3 mila euro al mese dopo un giorno solo di presenza. Altri hanno avuto l'assegno a 42 anni. Per senatori e deputati è sempre festa. Camera e Senato ci costano 2,5 miliardi l'anno, di cui 219 milioni per le pensioni degli ex onorevoli

di Mauro Suttora

Oggi, 16 giugno 2010

Non ce la fanno. I nostri governanti ci stanno infliggendo tagli per 25 miliardi di euro. Avevano promesso di sacrificarsi un po' anche loro: diminuire il numero dei parlamentari, abolire le province, abbassarsi il superstipendio da 15 mila netti al mese. Niente. Le province rimangono tutte in piedi. I parlamentari restano 950, per un costo di due miliardi e mezzo annui. E sugli stipendi, mentre gli altri dipendenti pubblici che guadagnano oltre 90 mila euro subiscono un prelievo del cinque per cento, e quelli oltre i 150 mila del dieci per cento, loro non hanno ancora deciso nulla.
Il governo non interviene per rispettare la divisione dei poteri: l'esecutivo non può interferire con il legislativo (Parlamento). Dovrebbero essere quindi le Camere stesse ad autoridursi gli stipendi. Buonanotte.

C'è però un aspetto un po' vergognoso in questa manovra: le pensioni. Improvvisamente, le donne del settore pubblico devono lavorare cinque anni in più: smetteranno a 65 anni, e non a 60. Ma in questo campo il confronto con i parlamentari è imbarazzante. Gli ex deputati e senatori, infatti, incassano pensioni da nababbo che vanno da un minimo di 3 mila fino a quasi 10 mila euro lordi al mese. E godono di enormi privilegi: possono riscuoterle con appena due anni e mezzo di «lavoro» (contro i 35 di noi comuni mortali) e a 50 anni di età, se deputati eletti prima del '96, o senatori da prima del 2001. Per gli altri l'età sale a 60 (con almeno due legislature) e a 65 (con una sola legislatura).

203 MILIONI DI BUCO ANNUO

Sono oltre 2.200 gli ex parlamentari a cui lo Stato versa la pensione, più oltre mille assegni di reversibilità ai coniugi dei defunti. Ogni anno costano 219 milioni di euro, a fronte di entrate previdenziali per appena 15,6 milioni. Lo «sbilancio» è notevole: la trattenuta che gli onorevoli in carica devono versare è infatti di appena mille euro al mese. Con questi conti, qualsiasi ente previdenziale sarebbe già fallito. Ma il buco dei parlamentari è ripianato dallo Stato.

Il caso forse più eclatante è quello di Toni Negri, ex capo di Potere operaio condannato a 17 anni per reati di terrorismo. Nel 1983 i radicali lo fecero eleggere deputato per protesta contro i suoi quattro anni di carcere preventivo. Dopo nove sedute, temendo di finire di nuovo in cella, Negri fuggì in Francia. Dal '93, quando ha compiuto 60 anni, riscuote la pensione «minima», che oggi è di 3.108 euro.

Ma almeno Negri ha dovuto aspettare fino a 60 anni. Giuseppe Gambale , invece, è il baby-parlamentare-pensionato più giovane d'Italia. Con quattro legislature alle spalle e vent'anni di contributi versati, Gambale (ex Rete, oggi Pd) ha lasciato Montecitorio nel 2006 a soli 42 anni, riscuotendo un vitalizio di 8.455 euro al mese. Ai quali ha aggiunto 4 mila euro come assessore comunale a Napoli fino al 2008.

Prima del 1997, bastava essere in carica anche un giorno solo per maturare la pensione, versando cinque anni di contributi volontari. Questo record spetta ai radicali Angelo Pezzana, Piero Craveri, Luca Boneschi e René Andreani, andati in Parlamento soltanto per annunciare la rinuncia all'incarico, ma ai quali vanno egualmente i 3 mila euro mensili. Un'altra radicale, Cicciolina , maturerà la pensione l'anno prossimo, quando compirà 60 anni. Irene Pivetti deve invece aspettare il 2013: a 50 anni, i suoi nove a Montecitorio le frutteranno 6.203 euro mensili. Dal 2000 incassa il vitalizio (ridotto per reversibilità) la vedova di un uomo che non mise mai piede al Senato: Arturo Guatelli infatti subentrò a camere sciolte al senatore Morlino (morto per infarto).

VOLCIC E PAOLO PRODI

Fra i nomi celebri con vitalizio di 3.108 euro ci sono il regista Pasquale Squitieri (senatore An dal '94 al '96), il giornalista tv Demetrio Volcic (senatore Pds dal '97 al 2001) e Paolo Prodi, fratello di Romano, senatore della Rete nel '94 per soli cinque mesi, subentrato al magistrato Carlo Palermo.
A quota 6.200 euro mensili stanno Mauro Fabris (Udeur) e Franco Giordano (ex segretario di Rifondazione comunista) entrambi 50enni nel 2008 quando non furono rieletti; Oliviero Diliberto (segretario Comunisti italiani) e Stefano Boco (Verdi), 52, Gloria Buffo (Sd) 54, Marco Fumagalli (Sd), Maurizio Ronconi (Udc) e Dario Rivolta (FI), 55 anni, nonché i 57enni Salvatore Buglio (Rosa nel pugno), Tana de Zulueta (Verdi), Mauro del Bue (Psi) e Franco Monaco (Pd).

BOSELLI, SGARBI, FOLENA

Antonio Martusciello (Pdl) dal 2008 (aveva 46 anni) intasca 7.959 euro, come Rino Piscitello (Pd), 47, ed Enrico Boselli (ex capo dei socialisti), 51. Vittorio Sgarbi prende 8.455 euro da quando aveva 54 anni, come Marco Taradash (Pdl), 57, e Alfonso Gianni (Rifondazione), 58. Alfonso Pecoraro Scanio, ex capo dei Verdi, è andato in pensione a 49 anni con 8.836 euro, così come Pietro Folena (Pd), 50. Fra i baby-pensionati sotto i 60 anni o a 60 anni appena compiuti, troviamo l'ex magistrato di Mani Pulite Tiziana Parenti, Maura Cossutta (figlia del fondatore dei Comunisti italiani Armando), Anna Donati (Verdi) e Nando dalla Chiesa, (Pd). Poi gli ex senatori Edo Ronchi (Pd), 58 anni, e Willer Bordon, 59. Entrambi avranno, con i riscatti, il massimo del vitalizio senatoriale: 9.604 euro.

C'è infine il privilegio del cumulo pensionistico, che negli ultimi 36 anni è costato agli italiani oltre 5 miliardi di euro. La seconda pensione, cumulabile al 100% con quella di Montecitorio o Palazzo Madama, scatta per tutti i parlamentari che, prima di essere eletti, avevano già aperto una posizione previdenziale. Così qualsiasi lavoratore dipendente, una volta eletto, non solo conserva il posto in aspettativa, ma ha diritto anche ai contributi figurativi per la seconda pensione. Basta che paghi il 9% della quota. Il resto, dal 22 al 31%, è versata dagli enti previdenziali.

I NOMI PIÙ PRESTIGIOSI

Tra i beneficiari, i nomi più prestigiosi della politica italiana. Gli ex magistrati Oscar Luigi Scalfaro o Luciano Violante. L' ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, l'ex direttore generale Lamberto Dini. E fra gli ex giornalisti Gianfranco Fini, Massimo D'Alema, Maurizio Gasparri, Paolo Bonaiuti, Adolfo Urso, Marco Follini, Clemente Mastella, Walter Veltroni. Quest' ultimo riceve già una terza pensione, quella di eurodeputato: 5.200 euro netti al mese, che devolve in beneficenza.

In nome dei «diritti acquisiti», tutti questi privilegi sono intoccabili? «Neanche per sogno», sostiene Antonio Borghesi, deputato dell' Italia dei valori, «la Corte costituzionale ha stabilito che quelli dei parlamentari sono vitalizi e non pensioni. Quindi, si possono modificare in qualsiasi momento».

Mauro Suttora

Wednesday, July 08, 2009

Debora Serracchiani privata

Ha battuto Berlusconi, ma la temono anche i capi democratici

Oggi, 28 giugno 2009

dal nostro inviato a Udine Mauro Suttora

Mai, nella storia d’Italia, c’era stata un’ascesa politica più rapida. Fino al 2003 Debora Serracchiani di politica non si interessava, se non leggendo i giornali. Fino a cento giorni fa non era mai scesa a Roma per una riunione nazionale del suo partito, il Democratico.
Oggi, milioni di simpatizzanti sperano in questa 38enne romana-udinese per rinnovare il centrosinistra. In 144 mila l’hanno votata il 7 giugno, spedendola all’Europarlamento. «E in Friuli ho battuto anche “papi”», scherza lei: settemila preferenze più del premier Silvio Berlusconi.
Incontriamo il fenomeno con frangetta a casa sua, nella periferia estrema di Udine. Una casetta comprata col mutuo assieme al compagno Riccardo, 40 anni, romano pure lui, impiegato in un’impresa di telecomunicazioni. Debora, che da quindici anni fa l’avvocatessa specializzata in cause di lavoro, ci accoglie nel giardinetto di fronte al canale Ledra. Poco più in là il palasport della Snaidero basket e lo stadio dell’Udinese calcio: «Da qui sentiamo gratis i concerti: ottimi quelli di Vasco Rossi e Red Hot Chili Pepper, ora aspettiamo i Coldplay a fine agosto».

Debora ha appena scritto un libro: Il coraggio che manca (ed. Rizzoli). Sottotitolo: A un cittadino deluso dalla politica. Racconta le incredibili dieci settimane fra il suo primo discorso del 21 marzo a Roma e il trionfo alle Europee. Il giorno dell’equinozio primaverile 2009 «è stato forse il momento più basso nella storia della sinistra italiana». Il segretario del Pd Walter Veltroni si era dimesso. Sul tavolo del successore Dario Franceschini i sondaggi davano il partito al 20 per cento. Un disastro per gli eredi di Dc e Pci, attestati al 70 per cento per mezzo secolo.

La Serracchiani, con un discorso di pochi minuti, è riuscita a galvanizzare il pubblico democratico. Era arrivata in corriera di notte da Udine assieme ai colleghi di base del Pd, non aveva dormito, era a disagio per la scarsa eleganza del proprio vestito rispetto ai dirigenti romani: «Pensavo a un incontro di partito, mi sono ritrovata in una convention». Eppure ha attirato l’attenzione di tutti i delusi dalla nomenklatura democratica, che l’hanno applaudita 35 volte. Dal giorno dopo, migliaia di e-mail e sms.

Ma chi è la Serracchiani, da dove viene?
«Sono nata nel 1970 a Roma, quartiere Casetta Mattei, zona Portuense. Mio padre era impiegato Alitalia, mia madre ha smesso di lavorare quand’è nato mio fratello Emiliano. Scuola dalle suore fino alla terza media. Poi istituto tecnico commerciale, perché non volevo andare all’università: ragioneria con lingue, inglese e francese. Ci ho aggiunto lo spagnolo. Fino a 18 anni ho giocato a tennis a livello agonistico. Ma le ore d’allenamento erano troppe: entrata all’università, non ho più toccato la racchetta per dieci anni. Laureata in legge nel ‘94 con 110 e lode, tesi di diritto commerciale su una direttiva europea per le srl”.
E nel tempo libero?
«Musica: Bruce Sprigsteen, Zero Assoluto, Elisa. Libri: Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, l’ho letto dieci volte, anche in inglese. E i legal thriller di Grisham. Cinema: Il marchese del Grillo con Alberto Sordi, grandi dialoghi e senso civico».
Ha visto il film Mister Smith va a Washington di Frank Capra?
«No».
È proprio la sua storia: James Stewart, idealista digiuno di politica, viene eletto deputato.
«E poi?»
Non le rovino la sorpresa del finale. Ci dica lei piuttosto: com’è finita a Udine, e per di più in via Sondrio? Più a nord di così...
«Ricordo ancora il giorno del trasloco: 3 gennaio ‘95. Un freddo incredibile. Ho seguito Riccardo, che aveva trovato lavoro qui».
Lo ha trovato subito anche lei.
«Sì, lo studio Businello mi ha fatto fare il praticantato. Mi sono specializzata in cause di lavoro».
A proposito di lavoro. All’ultimo incontro nazionale del Pd, nel Lingotto di Torino domenica scorsa, lei ha affrontato un totem e tabù della sinistra: l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Che secondo alcuni tutela un po’ troppo i dipendenti, rendendoli quasi illicenziabili.
«Ho posto il problema, più in generale, sul mondo del lavoro. Il Pd deve dire chiaramente cosa pensa su alcuni temi fondamentali. Oggi purtroppo c’è troppa differenza fra lavoratori garantiti e precari. Anche per una questione di tempi: le cause di lavoro sono lunghissime».
Stia attenta: a sinistra chi tocca i fili (l’articolo 18) muore.
«La risposta è: migliorare gli ammortizzatori sociali. Che non devono proteggere settori improduttivi, ma accompagnare chi perde il posto a un nuovo lavoro».
L’avvocato Businello, prima suo principale e poi socio, mi ha parlato molto bene di lei. Dice che le sue grandi virtù, determinazione e capacità di lavoro, sono anche il suo unico difetto: qualche segretaria non rimpiange i suoi ritmi.
«Sono esigente soprattutto cone me stessa. Al sabato mattina lavoro. E anche in agosto, quando c’è più tempo e tranquillità per smaltire il lavoro arretrato».
Povero Riccardo.
«Ma no, anche a lui piace andare in vacanza a giugno o a fine estate, fuori dalla ressa».
Dove?
«Isole greche».
E i week-end azzoppati?
«Passiamo le domeniche pomeriggio qui sul divano a vedere le partite della Roma in tv».
Su Sky?
«Macché: digitale terrestre Mediaset. Pagando Berlusconi. Me ne vergogno...»
Non vi sposate?
«Non vogliamo svilire il matrimonio, istituto nel quale non crediamo fino in fondo, sposandoci solo per convenienza. Aspettiamo i Dico, i patti di convivenza».
Aspetta e spera. Anche nel Pd i cattolici fondamentalisti sembrano dettare la linea sulle questioni etiche.
«È ora di discutere, rispettando la sensibilità di tutti, ma prendendo una decisione. Magari lasciando a casa qualcuno. Anche perché nel 2020 le nuove convivenze in Italia supereranno i matrimoni».
Nel suo primo e ormai famoso discorso lei si è presentata così: «Vengo dalla città che ha accolto Eluana Englaro».
«Certo. Sono questioni di civiltà. Sto con Ignazio Marino, il medico cattolico fautore del testamento biologico».
E nel libro maltratta Francesco Rutelli.
«Ricandidarlo sindaco a Roma dopo quindici anni è stato un disastro. Ci voleva un volto nuovo. Abbiamo regalato la capitale alla destra».
Quattro a Rutelli, cinque a D’Alema e Di Pietro, sei a Franceschini, sei più a Veltroni: questa è la severa pagella Serracchiani ai capi del centrosinistra.
«Veramente secondo me Di Pietro non ha nulla a che fare col centrosinistra: nel suo partito personale ha riciclato di tutto».
Visto il voto a D’Alema, inutile chiederle se appoggerà il suo candidato Pierluigi Bersani al congresso d’autunno, contro Franceschini.
«Ci vogliono facce nuove».
«A destra sono capaci di tutto, a sinistra sono buoni a nulla»: all’inizio del libro lei cita questa tremenda frase di Marco Pannella contro i politici italiani. La condivide?
«Dobbiamo fare di tutto per smentirlo».

Mauro Suttora

Tuesday, October 14, 2008

Ponti inutili a Roma

VENTI MILIONI PER DUE PONTI CICLOPEDONALI
L'eredità folle di Rutelli e Veltroni

Libero, martedì 14 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Il Comune di Roma butta quasi venti milioni di euro per costruire due ponti che non servono a nulla. Oggi cominciano i lavori per il Ponte della Musica (11,8 milioni) e quello della Scienza (6,2 milioni). Dio solo sa quanto il traffico di Roma abbia bisogno di ponti sul Tevere per alleggerire la fiumana di auto che blocca la città. Soprattutto nelle zone dove i ponti sorgeranno: il primo a nord, fra il lungotevere Flaminio e il Foro Italico, il secondo a sud, fra i quartieri Ostiense e Portuense. Lì c’è veramente carenza di collegamenti fra le due rive, perché i ponti più vicini distano quasi due chilometri.

Ebbene, l’assessore all’Urbanistica Marco Corsini oggi inaugura invece due ponti «ciclopedonali». Sui quali le auto non possono passare, e men che meno tram e bus. Quindi inutili, perché da quelle parti pedoni e bici non si avventurano. Roma ha già tre bellissimi ponti pedonali antichi: il Milvio reso famoso dai lucchetti degli innamorati di Moccia, e in centro quelli di Castel Sant’Angelo e il Sisto, che da Trastevere porta a Campo dei Fiori. Servono a turisti e cittadini, sono stretti, vietarli alle auto è stato saggio.

Questi nuovi ponti, invece, sono una follia. Uno spreco di soldi pubblici. La colpa non è dello sventurato assessore Corsini: i progetti «ecologissimi» sono infatti un’eredità di Rutelli e Veltroni. Il bando di concorso risale al 2000, ben otto anni fa. E la nuova giunta Alemanno non può buttare nella pattumiera tutti i progetti del passato, come ha fatto col parcheggio del Pincio. Tuttavia, sfidiamo chiunque ad andare sul lungotevere Cadorna o sotto il gasometro Ostiense e contare le persone, i cani e le bici che vi transitano ogni giorno, non vedendo l’ora di attraversare il Tevere.

Il ponte della Musica è stato leggiadramente battezzato così perché, nei piani fantasmagorici di Rutelli e Veltroni, dovrebbe collegare l’Auditorium della Musica, il nuovo museo Maxxi e perfino il parco di Villa Glori (molto più indietro) al Foro Italico, attraverso via Guido Reni. Peccato che si tratti di un percorso lunghissimo perfino per i clienti con zaino dell’ostello della Gioventù, che infatti ci arrivano in bus.

Ma le vette della poesia si raggiungono per l’altro ponte, chiamato «della Scienza» perché in quelle aree industriali oggi dismesse, dove si rischia lo stupro, invece di utili case il Comune minaccia di costruire un ennesimo museo, della Scienza appunto.

Ecco come i tre progettisti dello studio APsT presentano il loro ponte, in puro stile «architettese»: «Il ponte metafora del collegamento, dell’unire, si pone come mezzo attraverso il quale tentare una “ricucitura” con le due parti della città, ma soprattutto con il tempo perduto. Il rapporto con il luogo viene, infatti, istituito mediante l’individuazione di corrispondenze atte a rivelare una percezione emotiva, un carattere, una presenza anziché un riferimento più o meno diretto. L’intenzione alla base della concezione del progetto è quella di cercare, di preservare e rendere evidente questo carattere negato, obliato. L’idea che il tempo si sia fermato e che quest’area custodisca un tempo “altro” da quello che si vive quotidianamente, attribuisce notevole interesse e valore al progetto del ponte della Scienza.

« (…) La strategia del progetto del ponte, mediante la concezione di una struttura portante “scarnificata” sin nei minimi termini, appesa ad un filo, vuole testimoniare non un atto d’intelligenza bensì una violenza subita che ci toglie la calma e ci induce alla ricerca di un significato che ristabilisca una condizione di equilibrio che procede per opposizioni e corrispondenze. L’interpretazione di questi segni, della loro realtà noumenica è come un alfabeto senza fine. L’obiettivo è quello della risemantizzazione della forma architettonica attraverso un vocabolario di dissonanze che sottolineano la complessità percettiva e costruttiva. Questa metodologia diacronica ed asimmetrica viene applicata dalla scala urbana a quella di progetto fin nei dettagli (…)»
Italiani popolo di poeti, più che di costruttori…

Mauro Suttora

Thursday, April 24, 2008

Il Baratto per Santoro

IL VELTRUSCONI DELL'84 CHE PORTO' SANTORO TRA LE BRACCIA DELLA RAI

Michele torna a cavalcare l'antiberlusconismo. In un libro la storia dello scambio Walter-Silvio che fece la sua fortuna

di Mauro Suttora

Libero, 24 aprile 2008

Questa sera Michele Santoro si occuperà di camorra. Non potrà quindi ripetere il clamoroso 4-1 della scorsa settimana, quando nel suo 'Anno Zero' invitò ben quattro ospiti per il centrosinistra (Di Pietro, l'architetto Fuksas, il professor Sartori e il fisso Travaglio) contro il povero Filippo Facci, unico simpatizzante del centrodestra e fra l’altro più bravo a scrivere che a interloquire in tv.

Ma certamente quanto ad antiberlusconismo Santoro si rifarà nelle prossime settimane. Peccato, perché invece il conduttore Rai dovrebbe essere immensamente grato a Silvio Berlusconi. E non solo ricordando il triennio passato alle sue dipendenze (1996-'99), godendo di assoluta libertà per il proprio programma 'Moby Dick' (Santoro, offeso perché il presidente Rai Enzo Siciliano fece finta di non conoscerlo pronunciando la memorabile domanda "Michele chi?", migrò a Mediaset da un giorno all'altro).

In realtà Santoro è una vera e propria "creatura" di Berlusconi. Infatti, se nell'86 Raitre non fosse stata data al Pci in cambio del via libera ai canali Fininvest, lui non sarebbe mai stato chiamato a fare 'Samarcanda'. Sarebbe rimasto un oscuro giornalista-funzionario del Pci.

Ce lo ricorda un bel libro appena pubblicato: 'Il Baratto' di Michele De Lucia (ed. Kaos). È il documentatissimo resoconto di come le intese più o meno larghe fra l'allora comunista Walter Veltroni e Berlusconi siano iniziate già 24 anni fa. Nell'autunno '84, infatti, mentre ufficialmente il Pci strepitava contro lo "strapotere del piduista", Achille Occhetto e Veltroni incontrarono segretamente Berlusconi. Da un anno l'appena 28enne Walter era stato nominato capo della sezione Comunicazioni di massa del Dipartimento propaganda e informazione, che per il Pci erano un tutt'uno. E Occhetto era il suo diretto superiore.
Nell'agosto '84 la Fininvest aveva comprato per 135 miliardi dalla Mondadori il terzo dei suoi canali, Retequattro, salvandola dal fallimento. E Veltroni aveva tuonato: "Stiamo assistendo a un pesante attacco che tende a consegnare l'intero settore dell'emittenza privata nelle mani di uomini implicati nella P2 come Berlusconi".

Indignazione pubblica, ma trattative private. De Lucia infatti ricorda che lo stesso Occhetto rivelerà, anni dopo, l'abboccamento segreto con Berlusconi: "L'incontro - un po' carbonaro - avviene in un'imprecisata 'sera settembrina' del 1984, in un salotto di piazza Navona non meglio specificato, né si sa chi sia l'organizzatore-padrone di casa". Lo staff di Berlusconi è al completo. "Bravi, svegli e manager", li definisce Occhetto.
Il Pci ha appena effettuato il suo primo (e ultimo) sorpasso sulla Dc alle europee: 33,3 per cento contro il 33. "Walter e io siamo gli esponenti del più forte gruppo politico d'opposizione", racconta Occhetto. "Non che non li conoscessimo. Walter ha avuto dei contatti con un esponente del gruppo Fininvest presente all'incontro, ma li ha interrotti perché diffidavamo".
La Fininvest propone: "Si potrebbe affidare alle reti pubbliche tutta l'informazione, mentre noi trasmetteremmo e produrremmo spettacolo. Ci interessa soprattutto la fiction". Occhetto guarda Veltroni e dice: "Ma questa, Walter, è la tua proposta o sbaglio?" "Sì, in realtà è proprio quella".

Nell’ottobre ’84 i pretori di Torino, Roma e Pescara ordinano il sequestro degli impianti Fininvest perché una norma del Codice postale vieta ai privati trasmissioni tv a livello nazionale. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi vara un decreto legge per autorizzare provvisoriamente le trasmissioni.

“Il Pci”, scrive De Lucia, “vuole approfittare della situazione per ottenere la Terza rete Rai, con annesso Tg3. (…) Nel gennaio 1985 viene raggiunto un accordo fra il governo e l’opposizione comunista sul decreto Berlusconi. Il 31 gennaio il decreto viene approvato con 262 voti favorevoli e 240 contrari. Il Pci, assicuratosi che il provvedimento avesse la maggioranza, vota no esercitando un’opposizione definita ‘duttile e morbida’.
Falce, martello, coltello, forchetta e bavaglino, nella più pura tradizione consociativa. Il 4 febbraio anche il Senato approva in extremis (il decreto sta per scadere) con 137 voti contro 15. Dopo avere garantito il numero legale durante la discussione, al momento del voto i senatori comunisti lasciano l’aula: una plateale sceneggiata per salvare le apparenze”.

Nel dicembre ’85 il Tribunale di Roma assolve in appello la Fininvest perché le trasmissioni nazionali tv non costituiscono reato. “Il 12 settembre ’86 a Milano, al Festival nazionale dell’Unità”, scrive De Lucia, “si svolge un dibattito cui partecipano Veltroni, Berlusconi, il presidente Rai Sergio Zavoli e l’editore Mario Formenton della Mondadori.
È un minuetto Pci-Fininvest, una corrispondenza di amorosi sensi. Il compagno Veltroni avverte: ‘Non ha giovato al gruppo Fininvest l’eccessivo padrinato politico dato da uno e un solo partito [il Psi, ndr]’”
Insomma: mollate Craxi, e smetteremo di attaccarvi. Berlusconi ringrazia: “Mi fa caldo al cuore l’idea che il Partito comunista, da tempo ormai, si apra alla considerazione di queste realtà con tanto senso concreto, con tanto senso pragmatico…”

Il 5 marzo ’87, infine, il nuovo consiglio d’amministrazione Rai (in cui siedono fra gli altri per la Dc Marco Follini e il futuro presidente Sergio Zaccaria) paga la cambiale promessa a Veltroni: consegna la Terza rete e il Tg3 al Pci, nominando direttore di Raitre Angelo Guglielmi e alla guida del Tg3 il comunista di lungo corso Alessandro Curzi.
Pochi mesi dopo Guglielmi affida a Santoro un programma di approfondimento: ‘Samarcanda’. L’ex maoista di Salerno, poi funzionario del Pci (“Ma litigava con tutti”, ricorda il dirigente Isaia Sales), poi giornalista del quindicinale comunista ‘La Voce della Campania’ (che dirige per un anno fino alla chiusura nell’80), poi redattore all’Unità (“Ma non ha mai scritto una riga”, ha raccontato l’ex collega Antonio Polito), infine rifugiatosi in Rai, ha successo e va avanti fino al ’92.
Poi cambia nome al programma: Rosso e Nero, Tempo Reale. Dopo la parentesi Mediaset ecco Circus, Sciuscià, ora Anno Zero. Si chiama “debrandizzazione”: un vortice di nomi, così alla fine tutti dicono: “da Santoro”. Lo stipendio lievita: 660 mila euro e rotti l’anno scorso. Ma se non ci fosse stato quel baratto Berlusconi-Veltroni 22 anni fa… Ingrato Michele.

Mauro Suttora

Monday, March 10, 2008

L'Economist scopre il 'nuovo'

Libero, 9 marzo 2008

di Mauro Suttora

Caro direttore,
dopo vent’anni devo darti ragione. «L’obiettività dei giornali anglosassoni non esiste», avevi detto quando arrivasti a dirigere il mio Europeo nel 1989. Non mi convincesti, e fino a giovedì sera sono rimasto anglofilo. Ma è bastata una sola parola di Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, per farmi crollare il mito. La parola è: «Nuovo». Così Emmott ha risposto alla domanda di un conduttore di Sky24: «Come definirebbe Walter Veltroni?»

Gelo in studio. Benedetto Della Vedova, radicale passato con Berlusconi, ha un attimo di smarrimento. Come può a un giornalista così prestigioso essere scappata una tale scivolata, che neanche Dida? Ripresosi dall’incredulità, replica: «Informo Emmott che Veltroni era responsabile della propaganda Pci già nel 1981». Salta su Furio Colombo, al quale ultimamente qualcuno ha consigliato l’isteria come arma per apparire efficaci in tv: «Lei offende Emmott! Un giornalista questo lo sa».

Si presume di sì. Anche perché Emmott è stato ingaggiato dal Corriere della Sera per commentare in prima pagina le cose italiane. Quindi un curriculum del politico numero due in Italia lo avrà scorso. E seguendo il dibattito di questi giorni avrà notato che proprio la presunta «novità» di Veltroni è il principale tema di discussione in questa campagna.

Il britannico tenta di rimediare: «Ho detto “nuovo” sulla scena nazionale...»
Della Vedova è uno dei politici più placidi d’Italia. L’aggressività non è il suo forte. Quindi si limita a sorridere indulgente, puntualizzando: «Veltroni è stato segretario nazionale Ds, e ministro, e vicepremier...» Niente da fare. L’accoppiata Emmott-Colombo continua a sostenere l’insostenibile, anche se il primo arretra fino all’estrema trincea aggrappandosi a un’altra parola fatale: «Veltroni “appare” nuovo...»

Ah, siamo alle apparenze. Domani disdico l’abbonamento all’Economist. Anche perché, confessiamolo: il settimanale più «obiettivo» del mondo è citato da tutti, rispettato da molti, comprato da pochi. E letto da quasi nessuno.

Thursday, February 28, 2008

Baget Bozzo: "Pannella è un profeta cristiano"

«PANNELLA E’ UN PROFETA CRISTIANO»
Don Baget Bozzo: «Marco ha una visione religiosa, è stato lui a introdurre Gandhi in Italia”

Libero, 28 febbraio 2008

di Mauro Suttora

«Marco Pannella in realtà è una figura interna alla cristianità italiana. Non è un politico. È un profeta». Così commenta con Libero, dalla sua casa di Genova, uno dei più acuti osservatori della politica: don Gianni Baget Bozzo, 82 anni (quattro più di Pannella).

È incredibile come un partitino con non più del due per cento dei voti, e che ha ottenuto da Walter Veltroni meno dell’uno per cento dei parlamentari (nove su 950), riesca a scatenare tante polemiche. Veti, proteste, addirittura paura che un così minuscolo embrione possa trasformare tutti i Democratici in un «partito radicale di massa». A meno che...

«A meno che non si capisca che la visione di Pannella non è solo politica. È una visione religiosa», spiega don Baget. «È stato lui a introdurre il digiuno, la nonviolenza e tutto l’universo di Gandhi in Italia. Pannella trascende la politica: castiga il corpo per elevare l’anima».

Proprio come la senatrice Paola Binetti col suo cilicio: ecco trovato un punto di contatto fra l’anziano anticlericale e la sua più accesa oppositrice nel partito democratico. Ma perfino sul termine «anticlericale» occorre specificare. Perché è sicuramente Pannella l’inventore del micidiale slogan «No Vatican, no taliban». Ma con la continua spiegazione che il «clericalismo» è un vizio della vera religione, che i radicali non hanno nulla di antireligioso, e che anzi pure loro sono «credenti», seppure in «altro».

E cosa sarebbe, quest’«altro»? Secondo don Baget, «Pannella è un impolitico, non guarda al governo: vuole, attraverso la politica, riformare l’orizzonte spirituale degli uomini». Addirittura? «Certo. Pannella punta da sempre a una riforma del cattolicesimo italiano, non inteso come appartenenza ecclesiastica ma come cultura di popolo. Il suo avversario è stata quella convergenza tra cattolicesimo e comunismo che ha avuto il suo massimo risultato nel compromesso storico fra Dc e Pci».

Don Baget si spinge ancora più indietro: «Il compromesso storico rappresenta il rovesciamento del Risorgimento, che voleva introdurre in Italia la laicità dello Stato e la libertà del cittadino. Il ‘libera Chiesa in libero Stato’ di Cavour era l’idea di una riforma del cattolicesimo italiano, la speranza che il mutamento dell’Italia avrebbe determinato il rinnovamento della Chiesa».

E qui si scopre uno dei grandi amori politici di Pannella: don Romolo Murri, il sacerdote che un secolo fa fondò assieme a Sturzo e Toniolo la Fuci e la Democrazia Cristiana, ma che nel 1909 fu deputato radicale. «Murri voleva riformare il cattolicesimo con l’accettazione della libertà di coscienza», spiega don Baget, «e anche Pannella negli anni ’70, quelli di Paolo VI, dà un profilo spirituale alla sua azione. Questa è la sua novità rispetto al liberalismo. Pannella vi introduce la dimensione individuale: la coscienza, il corpo, il sesso. Prima il divorzio, poi l’aborto. E riesce a imporre al Pci e al governo, Dc compresa, le sue proposte».

Baget Bozzo aveva sviluppato questa tesi una dozzina anni fa, su ‘Liberal’. E giungeva a questa conclusione: «I profeti non diventano mai re. I rapporti tra Pannella e gli altri politici sono conflittuali non per differenze di pensiero, ma per differenti vocazioni. Pannella è un profeta. Ma appartiene troppo alla cristianità per poter mai diventare un profeta re».

Non è più esatto definirlo un eretico? «Gli eretici sono dei grandi organizzatori. Nessuno pensa a Calvino come a un profeta, ma come a un grande organizzatore ecclesiastico. Gli eretici non sono profeti, sono vescovi alternativi per una Chiesa alternativa. Ma Pannella non vuole fondare un’istituzione. Non cerca il potere, vuole solo comunicare, quasi in modo ossessivo: è parola continua, un presenzialismo in tutte le sedi. Entra in conflitto con la Chiesa, ma ciò corrisponde alla dinamica della profezia».

Mauro Suttora

Monday, February 25, 2008

I radicali e il Pd

ACCORDO: NOVE PARLAMENTARI E TRE MILIONI DI EURO

di Mauro Suttora

Libero, 22 febbraio 2008

Tre milioni di euro. È l’incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l’uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi.

Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vucumprà da spiaggia. Eccezionali.

Pannella, d’altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, ‘Risorgimento liberale’, e s’innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel ’55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l’1,4. Nel ’60 si appiccicarono al Psi e andò un po’ meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi).

Poi ci fu un’alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell’89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto.

Nel ’63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato.

Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un’ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin.

Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente “galassia”, e vantano un sacco di associazioni collaterali: da ‘Nessuno tocchi Caino’ che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all’Onu alla ‘Luca Coscioni’ che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di ‘Rientro dolce’ agli umanitaristi internazionali di ‘Non c’è pace senza giustizia’.

Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni. Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari.

Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all’ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».

Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l’entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l’abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell’Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis.

Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all’ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal ’93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli.

Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Pro forma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all’interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l’exploit dell’otto per cento alla lista Bonino nel ’99 (con punte del 15% in alcune città del nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall’amore all’odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell’alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest’ultimo unico ex operaio eletto alla Camera.

Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina.

Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni ’70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po’ imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico ‘Mondo’ di Mario Pannunzio negli anni ’50 e ’60 è approdato al ‘Foglio’. Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della “dissenting opinion”.

Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c’è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un’altra bevuta di pipì, come quella che l’incorreggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.

Mauro Suttora

Saturday, February 23, 2008

La fantastica Marianna Madia

di Mauro Suttora

Libero, 23 febbraio 2008

“È urgente ritrovare il tempo delle idee e dell’amore”. C’è una poetessa nel posto di capolista più importante d’Italia per il partito democratico (precederà Walter Veltroni a Roma). Si chiama Marianna Madìa e ha 27 anni. 
Ieri si è presentata ai giornalisti e ha assicurato il suo impegno, oltre che per l’amore come promise Cicciolina vent’anni fa, anche per “fare uno scatto portando la femminilità in settori come l'economia senza inseguire modelli maschili”. 
Infine, la signorina si preoccuperà per “la Terra e il suo stato di salute”. Nientedimenoche. Infatti Marianna ha scoperto che è proprio questo “uno degli elementi di precarietà per le nuove generazioni”.

Altro che precarietà del lavoro: no, non è quella ad angustiare i giovani secondo Marianna. Anche perché lei un posto già ce l’ha. Anzi, tre. Il primo è presso un ente la cui inutilità è direttamente proporzionale alla lunghezza del nome: Segreteria tecnica dell’Osservatorio per la piccola e media impresa del Dipartimento per lo Sviluppo delle Economie Territoriali della Presidenza del Consiglio (uffici in centro a Roma, via della Mercede).

Il secondo lavoro di Marianna è conduttrice Rai: proprio la scorsa notte l’abbiamo potuta ammirare subito dopo Marzullo, come ogni venerdì da ottobre, per una mezz’oretta nel suo programma eCubo. 
Infine Marianna collabora con l’Arel, il centro studi economici democristiano fondato da Beniamino Andreatta.

Insomma, fra una consulenza e l’altra la ragazza appare già bene incistata nella nomenklatura pariolo-democratica: figlia dell’attore Stefano Madia, già consigliere comunale a Roma nella Lista per Veltroni (purtroppo deceduto tre anni fa), è protetta sia dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta (che dell’Arel è segretario generale), sia da Veltroni, il quale si dichiara pazzo di lei: «Marianna ha un’intensità e una luminosità interiore che considero una ricchezza», si è lanciato ieri.
  
Ma l'intensa Madia in fatto di pigmalioni incassa l'en plein: è stato infatti Giovanni Minoli, a sua volta leggendario biraccomandato (Psi come craxiano, Dc come marito della figlia del direttore generale Rai Bernabei), ad affidarle il programma su Raiuno. Lei li ha ringraziati tutti nella conferenza stampa, senza imbarazzo. 

Letta? “Mi ha preso che ero una ragazzina non ero ancora laureata”. Veltroni? “Ha accolto la dote che posso offrire, la mia straordinaria inesperienza”. Minoli? “Maestro di vita e di pensiero”.

Intimoriti da tante iperboli e litoti, ci inchiniamo di fronte alla nuova generazione di politici del centrosinistra. Dopo la conferenza stampa il sito Dagospia ha subito rilanciato un’indiscrezione messa in rete dal perfido blog ‘nullo.ilcannocchiale.it’:
“Nella sua disperata rincorsa dell’antipolitica, Veltroni cerca di contrastare il risentimento contro ‘i soliti noti’ candidando una ragazza qualunque. Peccato però che Marianna Madia Veltroni non l’abbia trovata in fila al supermercato: no, Marianna Madia è la figlia di Stefano Madia. Lei non è solo giovane, donna, figlia di un suo amico morto, collaboratrice di Minoli ed Enrico Letta (a proposito, dalle parti di Letta fanno sapere che la Madia non sarà un loro candidato: ci tengono a dire che è in quota Veltroni). Marianna Madia è anche la ex del figlio del presidente della Repubblica: sembra infatti che la storia con Giulio Napolitano, quarantenne professore di diritto pubblico all’Università della Tuscia, sia finita.”
Questi sono i giovani meritevoli secondo Veltroni. Viva il merito, abbasso le raccomandazioni.
Mauro Suttora 

Monday, November 26, 2007

Newsweek: Italy loves America

THE ITALIAN LOVE AFFAIR

The country appreciates everything about America: its cities, its celebrities and even its cowboy culture.

by Mauro Suttora

NEWSWEEK

Link all'articolo originale su Newsweek

November 26, 2007

This might come as a belated consolation to poor Karen Hughes, who is leaving her post as the U.S. head of public diplomacy after struggling for two years to advocate American ideas around the world: although Italians dislike aggression (81 percent opposed the Iraq War), Italy just loves the United States. In 2003, 30 percent of Italians had a positive image of the country, a 60-year low. But now, according to a Pew Research poll, America's image is positive among 53 percent and negative for 38. Italy beat everybody in the European Union but Poland: in Britain, 51 percent love the United States; in France, 39 percent; and in Germany, only 30 percent are pro-American, with 66 percent against.

Italians like America so much, they want to see the real thing. Due in part to the strong euro, more than 1 million Italian tourists headed to the United States this year, breaking the old record. In August, Italians defy the humidity and head to Florida, and while cheap fares to Britain still make London the most favored destination for Italian travelers, this year New York surpassed Paris for the No. 2 spot. A new Italian airline, Eurofly, now connects even minor cities like Bologna and Palermo to New York.

Among the visitors: Italian politicians, who come for art and fashion shows financed by Italian institutions, and to meet and greet with Italian-Americans who, since 2006, may vote in Italian elections if they still have their Italian passport. Former prime minister and now opposition leader Silvio Berlusconi just bought a house for his youngest daughter to attend university in New York City. And indeed Italians of every political stripe love U.S. politicians. John F. Kennedy and Bill Clinton inspire the left. Ronald Reagan is a mythic figure for the right. Walter Veltroni - Rome's mayor, and possibly Italy's next prime minister - says his political idols are Kennedy and Martin Luther King Jr. His new party: the "Democrats."

But let alone politics. Fashion designers Valentino, Cavalli, Prada and Armani all own homes and spend time in New York City. Donatella Versace and her daughter live there. Other positive indicators of pro-Americanism: nine out of the top 10 movies at the Italian box office in October were from the United States. In France, ticket proceeds from domestic films equal that of American movies. But in Italy, Hollywood films outgross Italian movies by a margin of 38 percent.
At the recent Rome Film Festival even American B-listers received celebrity treatment. George Clooney is a fixture, as well, in his villa on Lake Como, and Italians are proud that Tom Cruise got married here, that Brad and Angelina began loving each other while shooting in Amalfi and that Reese Witherspoon and Jake Gyllenhaal rekindled their romance in Rome. Eighty percent of the television series broadcast in Italy are also made in the U.S.A. "House" is the most successful series in a decade, with 22 percent of prime-time audience share. Music? Zucchero, Italy's biggest star, considers himself a Louisiana bluesman. Art? Larry Gagosian, the American dealer, will soon open his first continental gallery in Rome. Invitations to the opening are the hottest tickets in town.

Italians have adored America for 60 years, ever grateful for liberation from the Nazis and for introducing them to rock and roll, disco, "Sex and the City" and the iPod. Rome was once the world's capital, but Italians are happy to acknowledge that the power has shifted to America. "America is a big place where people like to chew problems and projects," says Beppe Severgnini, author of "La Bella Figura: A Guide to the Italian Mind." "Italy is a smaller country obsessed with people and with the past. To look at, read about, dream and talk of America is like taking a mental holiday for many of us."

This month, the most comprehensive exhibition of 19th-century American art will open in Brescia, near Milan. Works will come from Washington's National Gallery and lesser-known spots like the Buffalo Bill Historical Center in Cody, Wyoming. That museum also contributed to "The Mythology of the American West," an exhibition that opened in September in France. Yes, it seems all of Europe is back to admiring the cowboys. But, remember, the Italians were first.

Suttora is a senior editor at Oggi, Italy’s largest weekly magazine, and the author of “No Sex in the City: Adventures of an Italian Man in New York”

©2007 Newsweek, Inc.

Letters to the Editor


Newsweek, 26 novembre 2007

Storia d’amore italiana

All’Italia piace tutto dell’America: le città, le celebrità, e perfino la sua cultura cowboy.

di Mauro Suttora

Può consolarsi in extremis la povera Karen Hughes, che lascia la guida della ‘diplomazia pubblica’ statunitense dopo avere lottato due anni per propagandare gli ideali americani nel mondo: anche se agli italiani non piacciono le aggressioni (l’81 per cento era contro la guerra in Iraq), l’Italia ama gli Stati Uniti.

Nel 2003 solo trenta italiani su cento avevano un’idea positiva degli Usa, il risultato peggiore in 60 anni. Ma ora, secondo un sondaggio Pew Research, l’immagine dell’America è positiva per il 53 per cento, e negativa per il 38. L’Italia batte tutti nell’Unione Europea, tranne la Polonia: in Gran Bretagna infatti i filoamericani sono 51 su cento, in Francia 39 e in Germania solo 30, con il 66 per cento contro.

Gli italiani amano l’America, e vogliono andare a vederla di persona. Anche grazie all’euro forte, quest’anno più di un milione di italiani hanno visitato gli Usa, battendo ogni record. Perfino in agosto gli italiani sfidano l’umidità e vanno in Florida. Anche se grazie ai voli low-cost Londra è sempre la meta preferita dai viaggiatori italiani, quest’anno New York ha conquistato il secondo posto scavalcando Parigi. Una nuova compagnia italiana, Eurofly, ora collega direttamente a New York anche città minori come Bologna e Palermo.

Fra i visitatori più assidui: i politici italiani, che arrivano per eventi artistici e modaioli tutti finanziati da enti pubblici italiani, e anche per coltivare gli italoamericani che dal 2006 possono votare alle elezioni se conservano ancora il passaporto tricolore.
Silvio Berlusconi, ex premier e ora capo dell’opposizione, ha appena comprato una casa per la figlia più giovane che frequenta l’università a New York. Ma ogni fede politica ha la sua passione americana. John Kennedy e Bill Clinton ispirano la sinistra. Ronald Reagan è un mito per la destra. Walter Veltroni - sindaco di Roma e prossimo possibile premier - dice che i propri idoli sono Kennedy e Martin Luther King. Il suo nuovo partito: i “Democratici”.

Ma lasciamo la politica. Gli stilisti Valentino, Cavalli, Prada e Armani hanno tutti casa a New York, e ci stanno parecchio tempo. Donatella Versace ci abita con la figlia. Altri indicatori di filoamericanismo: nove fra i dieci film che hanno incassato di più in Italia in ottobre erano statunitensi. In Francia i film francesi sono visti quanto quelli americani. In Italia invece Hollywood batte il cinema italiano con un margine del 38 per cento. Alla recente Festa del cinema di Roma anche artisti americani di serie B hanno ricevuto un’accoglienza da star. George Clooney è ormai una presenza familiare nella sua villa sul lago di Como. Gli italiani sono orgogliosi che Tom Cruise si sia sposato qui, che Brad e Angelina abbiano cominciato ad amarsi mentre giravano un film ad Amalfi, e che Reese Witherspoon e Jake Gyllenhaal abbiano riannodato la loro love story proprio a Roma.

Anche l’ottanta per cento dei serial tv trasmessi in Italia sono made in Usa. “Dr. House” è la serie di maggiore successo da dieci anni, con uno share del 22 per cento in prima serata. Musica? Zucchero, il cantante più celebre d’Italia, si considera un bluesman della Louisiana. Arte? Larry Gagosian, il potente commerciante d’arte contemporanea americano, sta per aprire a Roma la sua prima galleria nell’Europa continentale. Gli inviti all’inaugurazione sono i più ambiti in città.

Gli italiani adorano l’America da 60 anni, eternamente grati per la liberazione dai nazisti - e per averli iniziati al rock and roll, la disco, “Sex and the City” e l’iPod. Roma fu un tempo la capitale del mondo, ma gli italiani sono felici di ammettere che oggi quel potere è passato agli Stati Uniti.
“L’America è un posto enorme dove alla gente piace masticare problemi e progetti”, dice Beppe Severgnini, autore del libro ‘La Bella Figura: Guida alla mente italiana’. “L’Italia è un Paese più piccolo, ossessionato dai personaggi e dal passato. Guardare, leggere, sognare e parlare dell’America per molti di noi è come prendersi una vacanza mentale”.

Questo mese apre a Brescia, vicino a Milano, la mostra più completa sull’arte americana del diciannovesimo secolo. Sono in arrivo quadri dalla National Gallery di Washington e da posti meno conosciuti come il Buffalo Bill Historical Center di Cody (Wyoming). Questo museo contribuisce anche alla “Mitologia del West americano”, mostra in corso da settembre in Francia. Sì, pare proprio che tutta l’Europa ami di nuovo i cowboys. Ma ricordatevi: gli italiani sono stati i primi.

© Newsweek

Wednesday, October 17, 2007

Walter Veltroni

Una giornata con il nuovo segretario del Partito democratico

di Mauro Suttora

Roma, 10 ottobre 2007

Mattiniero com’è, li stende tutti. Il sindaco di Roma Walter Veltroni si alza presto per i ritmi romani. È ancora un po’ buio quando esce dall’appartamento al primo piano dietro piazza Fiume dove vive con la moglie Flavia (figlia di un’ex senatrice del Pci) e le due figlie teenager Vittoria e Martina. Passa a prenderlo l’auto del Comune, e a quell’ora non c’è bisogno di sirene per farsi largo nel traffico.

Come Giulio Andreotti, ha il vezzo di dare appuntamenti anche prima delle otto a chi gli chiede udienza. «Ora poi il lavoro è raddoppiato: oltre che sindaco è anche candidato segretario del partito democratico», spiega un suo stretto collaboratore, «quindi non c’è altro modo per sbrigare tutti gli impegni».

Sperimentiamo anche noi un’alba frizzantina veltroniana quando, dopo aver chiesto di seguirlo per una giornata-tipo, ci propongono di trovarci alle otto sotto il Vittoriano. L’appuntamento sarebbe per le nove all’università Tor Vergata. Ma l’ufficio stampa offre ai giornalisti una navetta dal centro, perché il campus è all’estrema periferia sud, oltre il raccordo anulare, e il traffico è tremendo.

Quando arriviamo Veltroni è già lì, di fronte a un immenso buco fra i prati. «Qui fra due anni sorgerà la Città dello sport progettata dall’architetto Santiago Calatrava, con un nuovo palasport e lo stadio del nuoto per i mondiali del 2009», dice raggiante. «L’arco di Calatrava si vedrà dalle autostrade, sarà più alto del Colosseo, diventerà un nuovo simbolo di Roma. È l’intervento urbanistico più importante dai tempi dell’Eur».

Arriva trafelato in ritardo Giovanni Malagò, capo del comitato organizzatore dei mondiali (più famoso come padre delle figlie di Lucrezia Lante della Rovere): non ce l’ha fatta a rispettare il ritmo mattiniero di SuperWalter.

Più che una conferenza stampa è una chiacchierata fra amici, Veltroni distribuisce sorrisi e pacche sulle spalle a tutti. Nessun politico in Italia ha un rapporto migliore con i media, anche perché Walter ha una lunga dimestichezza personale con i giornalisti: nel 1984 divenne capo dell’ufficio stampa del Pci, e poi per quattro anni diresse il quotidiano del partito, L’Unità.

Ma si può dire che Veltroni sia nato in Rai, perché suo padre fu nel ’55 il primo direttore del Tg (una curiosità: nel ’38 curò la radiocronaca della visita di Hitler a Roma, quella del film Una giornata particolare con Sophia Loren e Marcello Mastroianni).

Purtroppo Vittorio Veltroni lascia orfano Walter ad appena un anno. La madre Ivanka, che era figlia dell’ambasciatore jugoslavo presso il Vaticano, divenne pure lei funzionaria Rai. E fu Walter, vent’anni fa, ad aprire la Rai al Pci, con l’assegnazione ai comunisti di Raitre, in cambio del via libera definitivo ai tre canali di Silvio Berlusconi patrocinati da Bettino Craxi.

Dopo la Città dello sport di Tor Vergata, che costerà 300 milioni, una puntatina nella vicina Tor Spaccata, dove il sindaco inaugura una casa per malati in «stato vegetativo persistente» (ovvero in coma), che grazie ad alcuni benefattori privati non costa nulla. E qui Veltroni, che ha scelto come motto l’I care (mi prendo a cuore) di don Milani, che va ogni anno a portare aiuti all’Africa (anzi, per la verità aveva improvvidamente annunciato che si sarebbe trasferito come volontario in quel continente dopo il mandato da sindaco), che ha fatto della solidarietà il suo distintivo e della mitezza il suo stile, si trova a suo agio fra la folla festante: «È importante che questo tipo di malati non debbano stare in ospedale, ma in una struttura dove possano essere accuditi dalle famiglie», dice.

Torniamo in Campidoglio, nel palazzo del Comune. Che si trova in posizione splendida, e infatti tutti gli ospiti internazionali di Veltroni spalancano gli occhi davanti alla vista del Foro Romano e del Colosseo.

Saliamo i gradini che portano alla piazza progettata da Michelangelo, passiamo davanti alla statua dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio, pensiamo che questo era il colle più sacro della città più carica di storia della Terra, e capiamo perché il sindaco di Roma non possa che aspirare a cariche più alte.

Come quella di segretario del Partito democratico, fusione di Ds e Margherita, che contenderà a Forza Italia di Berlusconi la palma di primo partito italiano. Domenica 14 ottobre si svolgono le primarie, e tutti i sondaggi danno certa l’elezione di Veltroni. Le uniche due incognite sono il numero dei votanti (due anni fa Romano Prodi fu plebiscitato da quattro milioni di ulivisti, ora i democratici si accontenterebbero di un milione) e la percentuale che otterrà Walter (attorno al 70 per cento, si prevede). Tra gli altri candidati, i maggiori contendenti sono accreditati del 15 per cento (Rosy Bindi) e dell’8 per cento (Enrico Letta, nipote di Gianni).

Ma SuperWalter alle maggioranze assolute è abituato: nel 2001 fu eletto sindaco con il 53 per cento, l’anno scorso è stato confermato con il 61. Per lui ha votato un vastissimo arco di forze, dagli estremisti di sinistra dei centri sociali ai moderatissimi cattolici di Alberto Michelini.

Pochi ricordano che il termine «buonismo» è stato inventato da Ernesto Galli della Loggia, ma tutti oggi associano questa filosofia a Veltroni. Che vorrebbe andare sempre d’accordo con tutti: era comunista ma gli piacevano i Kennedy, e ora è di sinistra ma si fonde con i democristiani, avversari per mezzo secolo. Unica resistenza, la vita privata. «Per favore lasciate fuori la mia famiglia», ci prega. Sta andando a pranzo al ristorante con una figlia, ma non ci concede neanche una foto di famiglia.

Nel pomeriggio Walter abbandona la casacca da sindaco e va nel Nord Italia per un comizio come candidato democratico. Prende la macchina, ci invita con lui. Decliniamo: sappiamo che passa i viaggi in auto ininterrottamente al telefono. Perché SuperWalter arriva dappertutto, di persona o con uno squillo. Presenzialista sempre.

Mauro Suttora