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Monday, September 28, 2020

Donald Trump, uomo di successo sempre sull'orlo del baratro

Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto. Idem nella sua incredibile carriera politica, al bivio del 3 novembre

di Mauro Suttora

Huffington Post, 28 settembre 2020
 

Nel 2017 un lavoratore single senza figli negli Usa con salario di 18mila dollari ne ha pagati 760 in imposte federali sul reddito. Più del suo presidente miliardario, Donald Trump, che in quell’anno ne ha versati 750. E che, stando ai documenti pubblicati dal New York Times, ha evaso o eluso ben 400 milioni di dollari negli ultimi vent’anni.

A stabilire se Trump abbia commesso reati e scorrettezze sanzionabili (con 200 milioni, stima il NYTimes) sarà il temibile Irs (Internal revenue service), l’Equitalia statunitense. Famoso per la sua velocità: negli Usa si dichiarano i redditi entro il 15 aprile, e dopo soli due mesi arriva a casa l’assegno se si risulta a credito, o la cifra da pagare se i controlli decidono che si è in debito. In Italia occorre un tempo trenta volte superiore: cinque anni. 

L’Irs è anche severo: gli evasori negli Usa finiscono in carcere, con condanne medie di 3-5 anni. Ogni anno sono circa 1.500 gli incriminati. Ma la via preferita è il patteggiamento (con multa). Su 3.500 miliardi di entrate, infatti, 14 milioni di furbetti ne evadono 130, un terzo rispetto all’Italia. Però quasi tutti preferiscono comporre amichevolmente.  

Trump invece, come al solito, preferisce la guerra. Il suo ‘audit’ (contenzioso) col fisco Usa dura da anni. Strano, data la rapidità che abbiamo illustrato. Un occhio di riguardo per il presidente? Il risultato dei favori fiscali repubblicani ai ricchi nell’era Bush junior?  

In ogni caso, è incredibile che il presidente abbia finora usato come scusa l’ispezione in corso per non rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi. È la prima volta in mezzo secolo (dai tempi del gentiluomo Richard Nixon) che un presidente Usa si sottrae a questo elementare obbligo di trasparenza.

 “Ora si capisce perché”, è stato il commento quasi unanime ieri negli Usa, dopo le rivelazioni del NYTimes: per ben dieci anni su quindici prima di essere eletto, infatti, Trump non avrebbe pagato neanche un cent di imposte. E se lo si fosse saputo, non sarebbe stato eletto.

Può anche darsi che sia permesso spacciare 75mila dollari di parrucchiere per spese detraibili, perché Donald doveva apparire nel suo show tv “The Apprentice”. Ma come farà sua figlia Ivanka a giustificare i 747.622 dollari incassati da una società del padre, quando esattamente la stessa cifra risulta pagata a un consulente anonimo per il progetto di hotel a Vancouver e nelle Hawaii?

La verità è che per tutta la vita Trump è sempre stato in bilico fra successo e fallimento. Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto, anche perché fallire negli Usa non è così grave come in Europa. 

Idem nella sua incredibile carriera politica, cominciata cinque anni fa. Sembra sempre sull’orlo del baratro, dell’impeachment, dello sputtanamento irreversibile. Invece poi rimbalza, e ce la fa a liquidare qualsiasi accusa come “fake news”. Anche perché non è escluso che quell’operaio o commessa single che paga più tasse di Trump nonostante guadagni in un anno 18mila dollari, ovvero quanto lui consuma in una sola settimana per il carburante del suo jet privato, fra un mese non voti di nuovo per lui.

Mauro Suttora

Sunday, August 16, 2020

Nembo kid a Nembro? Quel maledetto 5 marzo



TUTTO QUEL CHE NON TORNA NEL RACCONTO DI CONTE SULLA MANCATA ZONA ROSSA A NEMBRO E ALZANO (BERGAMO)  

di Mauro Suttora

Huffington Post, 16 agosto 2020

Il premier Conte dice la verità su quel maledetto 5 marzo, sulle poche cruciali ore in cui lui afferma di avere appena saputo che i suoi scienziati gli chiedevano la zona rossa alla periferia di Bergamo, ma contemporaneamente a Bergamo già arrivavano 370 fra carabinieri, poliziotti, finanzieri e soldati per sigillarla?

Lo decideranno i magistrati. Paolo Mieli, nel suo pur rispettoso editoriale sul Corriere della Sera del 13 agosto, gli crede poco. Gabriella Cerami sull’Huffington Post dell′8 agosto ha già rilevato le contraddizioni in cui è caduto il premier dopo essere stato costretto a desecretare i verbali del Cts (Comitato tecnico scientifico).

Ha smentito le sue stesse parole. Quattro mesi fa, infatti, dichiarò al Fatto Quotidiano: “Il 3 marzo il Cts propone una zona rossa per Alzano e Nembro. Chiedo agli esperti di formulare un parere più articolato. Mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo decidiamo di imporla a tutta la Lombardia. Il 7 arriva il decreto”.
Invece l′8 agosto, dopo la pubblicazione obtorto collo del verbale Cts, Conte dichiara: “Del verbale del 3 marzo sono venuto a conoscenza il giorno 5”.
Gli fa eco il ministro della Salute Roberto Speranza: “Ho saputo del verbale il giorno successivo. E il 5 l’ho trasmesso a Conte”.

Se fosse vero, sarebbe una illustrazione agghiacciante della lentezza della nostra burocrazia. Tutte le agenzie di stampa, i siti giornalistici e le tv riferirono la proposta del Cts sulla zona rossa di Bergamo già la stessa sera del 3 marzo. Gli unici ignari in Italia erano Conte e Speranza? Il dinamico Casalino non avvertì il suo premier?

Ma che le date non combacino lo dimostrano soprattutto gli avvenimenti in loco. Nella giornata del 5 marzo infatti arrivano ad Alzano e Nembro numerosi reparti di forze dell’ordine da tutta la Lombardia. In certi casi, gli stessi uomini che hanno già isolato con successo la zona rossa di Codogno (Lodi).
Nel primo pomeriggio cominciano i sopralluoghi. Tutti danno per scontato il blocco di Alzano e Nembro. L’unica incertezza riguarda il quando. Quella sera stessa? L’indomani mattina?
È stabilita perfino l’ora esatta e il posto del concentramento da dove partiranno le pattuglie per il blocco simultaneo delle strade in entrata e uscita della zona rossa: le 19 dal comando provinciale dei carabinieri nella circonvallazione delle Valli a Bergamo.
Contemporaneamente, i reparti prendono alloggio in due alberghi, a Osio Sotto e Verdellino.

Tutto a insaputa del premier, che adesso postdata la propria cognizione della richiesta di zona rossa al 5 marzo? Oppure la ministra dell’Interno e il prefetto di Bergamo stanno cinturando a sua insaputa Alzano e Nembro (che non sono paesini in mezzo al nulla come Vo’ Euganeo, ma una delle zone industriali più antropizzate d’Europa)?
Oppure ancora, prendendo per buona la sua seconda versione: Conte sa da Speranza del verbale soltanto  il 5 mattina, ma veloce come Nembo Kid riesce a spedire un intero gruppo interforze a Bergamo in poche ore, nonostante la lentezza della nostra burocrazia di cui sopra?

Poi c’è il mistero su chi e quando riuscì a far fare marcia indietro a Conte. La zona rossa di Bergamo abortì, probabilmente perché i bergamaschi - tutti, non solo i padroni - preferiscono rischiare di morire piuttosto che non lavorare.

Ma poiché il contagio si espande con una velocità di accelerazione al quadrato, se il 3 bastava isolare Nembro e Alzano, il 6 era necessario farlo con tutta la Lombardia (come ha giustamente detto Conte1, prima versione). E alla fine, il 9 marzo, l’intera Italia si ritrovò in lockdown proprio perché erano state persi sei giorni preziosi.
Sull’eventuale numero di infetti e morti in meno a Bergamo sorvoliamo, per buon gusto.

Il presidente Usa Nixon non dovette dimettersi per il Watergate (una piccola, insignificante effrazione), ma perché disse il falso sul Watergate. Clinton passò i guai non per quel che gli fece Monica, ma perché lo negò.
Le parole del gentile e flautato premier Conte svolazzano nell’aria. Inafferrabili come un virus.
Mauro Suttora

Saturday, July 25, 2020

Cina-Usa, è fredda ma è guerra

Il discorso di Pompeo è storico, non si sentivano parole così dai tempi di Reagan. E le spese militari di Pechino sono quasi raddoppiate in dieci anni


Mauro Suttora

Huffington Post, 24 luglio 2020

Martedì 21 luglio a Roma sono ricomparsi i Falun Gong. Hanno manifestato davanti a Montecitorio contro la Cina, che accusano dal 1999 di far sparire i loro adepti per espiantarne gli organi. Denunce incredibili, quelle della setta spiritual-ginnica cinese. Ma confermate il 1 marzo da una sentenza del China Tribunal di Londra, organismo indipendente presieduto da Geoffrey Nice, già accusatore di Slobodan Milosevic alla Corte internazionale dell’Aia. Non hanno raccolto grande solidarietà dai nostri deputati, i Falun Gong: soltanto quella del forzista Lucio Malan e del leghista Vito Comencini, oltre che dei radicali Giulio Terzi, ex ministro degli Esteri, ed Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino.

Falun Gong è il tipico esempio della fine che fanno anche in occidente i perseguitati di Pechino, che siano uiguri, buddisti tibetani o studenti di Hong Kong: quasi nessuno crede loro, non fanno notizia, qualcuno li considera impostori. Eppure il giudizio del China Tribunal è stato onesto. Ha rigettato, ad esempio, l’accusa di espianto di organi anche sugli uiguri, per mancanza di prove.
 
Le stesse prove ritenute insufficienti anchee per i Falun Gong da Amnesty International. La quale però li difende dalle migliaia di carcerazioni arbitrarie con tortura. L’ultima, quella della professoressa di chimica Chen Yan, colpevole solo di aver distribuito materiale propagandistico in una strada di Pechino.

Il governo cinese ammette soltanto che siano stati espiantati organi dai corpi di condannati a morte giustiziati, ma che l’orrenda pratica sia terminata nel 2015. E dal 2013 ufficialmente sarebbero stati chiusi anche i famigerati laogai, campi di concentramento per la “rieducazione attraverso il lavoro”. 

Peccato che questi sinistri eredi di lager nazisti e gulag stalinisti siano stati riaperti ultimamente per disciplinare i musulmani uiguri dello Xinjiang. Ma ogni volta che una tv libera nel mondo trasmette le prove video e fotografiche della pulizia etnica, con tanto di sterilizzazione forzata per le donne, ecco che il locale ambasciatore cinese (poche sere fa quello a Londra, invitato al contraddittorio dalla Bbc) nega tutto.

È esattamente questa asimmetria informativa fra democrazie e dittature il punto sollevato dal segretario di stato Usa Mike Pompeo giovedì 23 in un discorso che rischia di diventare storico, nella biblioteca californiana di Yorba Linda dedicata a Nixon. Il presidente che quasi mezzo secolo fa aprì alla Cina, nella speranza che la distensione economica avrebbe prodotto anche diritti civili e politici per i cinesi.
“Ma Nixon stesso avvertì che il mondo non poteva essere sicuro finché la Cina non fosse cambiata”, ha detto Pompeo, “e che il nostro obiettivo era provocare questo cambiamento”.

Missione fallita, ammette oggi il capo della diplomazia Usa: “Abbiamo accolto i cittadini cinesi, ma solo per vedere il loro partito comunista sfruttare la nostra società libera e aperta. Hanno mandato propagandisti nelle nostre conferenze stampa, centri di ricerca, licei, università. Il prezzo dell’entrata in Cina per le società occidentali è il silenzio sui loro abusi contro i diritti umani. Perfino Hollywood si autocensura: nessun minimo riferimento sfavorevole alla Cina nei suoi film. Nixon temeva di avere creato un Frankenstein aprendo il mondo al partito comunista cinese. Beh, ci siamo: oggi la Cina è sempre più autoritaria a casa propria, e sempre più aggressiva all’estero”.

Parole di un’amministrazione che fra tredici settimane probabilmente perderà le elezioni presidenziali?
Sicuramente è nell’interesse di Trump drammatizzare e additare un nemico esterno per salvare il salvabile. Ma l’analisi dei democratici di Biden non può divergere troppo, sulla Cina.

Guardiamo i dati concreti. Le spese militari di Pechino sono quasi raddoppiate in dieci anni. Certo, sono a 240 miliardi di euro contro i 650 degli Usa. Ma l’America ha una proiezione internazionale inimmaginabile per la Cina. La quale perfino in un anno di crisi come questo annuncia il 6% in più per gli armamenti, con proclami bellicosi contro Taiwan.

“La Cina si è comprata il direttore dell’Oms”, ha accusato Pompeo incontrando a porte chiuse i deputati conservatori britannici. Sarà anche fredda, ma è sicuramente guerra. Sarà anche solo “posturing”, atteggiamento minaccioso a uso degli elettori di novembre. Ma è dai tempi di Reagan, 40 anni fa contro l’Urss, che non si sentivano parole simili. Le Borse se ne sono accorte.
Mauro Suttora

Wednesday, May 06, 2020

I presidenti Usa non usano le guerre per vincere le elezioni

Secondo un luogo comune abbastanza diffuso, i presidenti Usa userebbero le guerre per farsi eleggere.
Niente di più falso.
Dopo il jingoismo di Theodore Roosevelt di 120 anni fa, gli Usa sono sempre stati riluttanti a combattere.
L'isolazionismo e il pacifismo erano così diffusi che ci vollero l'incidente del Lusitania e Pearl Harbour a farli entrare nelle guerre mondiali, e sempre 2-3 anni dopo il loro inizio.

La guerra di Corea scoppiò nel 1950, quindi lontana dai voti presidenziali 1948 e 1952.
Idem per il Vietnam: Johnson cominciò l'escalation nel 1965, subito dopo essere stato eletto nel novembre 1964.
Per lui è vero il contrario: la trappola della guerra lo distrusse, tanto che neanche si ripresentò nel 1968.
Nixon, l'orrido Nixon, fece pure lui il contrario del guerrafondaio: per vincere il voto 1972 firmò gli accordi di pace a Parigi nel 71.

Reagan nonostante l'aumento delle spese militari non fece guerre, tranne la mini-invasione di Grenada.
Bush padre era lontano dal voto 1992 quando scatenò la prima guerra del Golfo nel 1990 (chiaramente voluta dal complesso militare industriale Usa per giustificare le spese belliche dopo il crollo del comunismo).
Infine Bush figlio: invase Afghanistan nel 2001 e Irak nel 2002, lontano dal voto del novembre 2004.
E negli ultimi 18 anni niente guerre 'boots on the ground': il periodo di pace più lungo dopo i 23 anni fra le due guerre mondiali

Tuesday, November 08, 2016

I segreti della Casa Bianca

di Mauro Suttora

Washington, 8 novembre 2016



Donald Trump, appena eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti, si trasferirà in questo palazzo bianco il 20 gennaio 2017. E per quattro anni (al massimo otto) governerà non solo il proprio Paese, ma anche il mondo, visto che gli Usa ne sono ancora la principale superpotenza.

Ma come si svolge la vita quotidiana alla Casa Bianca? Diciamo anzitutto che il famodo Studio ovale, con la scrivania presidenziale, non si trova nel corpo centrale del palazzo, costruito nel 1801, bruciato dagli inglesi nel 1814 e ricostruito.

Studio Ovale nascosto dagli alberi

La Oval room sta nella West Wing della Casa Bianca, aggiunta nel 1902. Questa Ala ovest non si vede mai nelle foto, perché è alta solo due piani ed è nascosta dagli alberi del parco interno.
Il presidente la raggiunge ogni mattina dai suoi appartamenti privati, al secondo e terzo piano del corpo centrale. Ma attenzione: nessuno, per ragioni di sicurezza, sa più esattamente in quale stanza dorma.

L’attuale President Room, infatti, fino al 1974 ospitava di solito le First Lady, che dormivano separate dal marito fino alla presidenza di Gerald Ford. Era la camera da letto di Jacqueline Kennedy, e John stava nella stanza accanto, che adesso è la Private sitting room (salotto privato).

La West Wing ospita tutti gli uffici operativi, compresa la Situation room per le riunioni d’emergenza, da dove Barack Obama nel 2011 ordinò l’uccisione di Osama bin Laden.
Obama è stato particolarmente severo nel proteggere la privacy della sua famiglia. Nessuno, tranne i parenti e gli amici strettissimi, sa neppure se le due figlie, la moglie Michelle e la suocera abbiano le stanze da letto al secondo o al terzo piano.

«Mi sveglio ogni mattina in un palazzo costruito da schiavi afroamericani come me»: queste parole della First Lady hanno infiammato la Convenzione democratica lo scorso luglio. Ed è vero: i lavori durarono nove anni, tanto che il primo presidente George Washington non riuscì mai ad abitarci (prima la capitale era Filadelfia). Ma al secondo piano c’è pure la stanza di Abraham Lincoln, che nel 1865 abolì la schiavitù (e fu assassinato).

Ogni stanza della Casa Bianca racconta un pezzo di storia. L’ex studio di Lincoln era anche il preferito di Richard Nixon, unico presidente a essere cacciato con l’impeachment nel 1974 per lo scandalo Watergate.

Sempre al secondo piano, la Yellow Oval room fu lo studio ovale usato dal presidente Franklin Delano Roosevelt che, costretto in carrozzina, non andava fino alla West Wing: qui gli giunse la terribile notizia dell’attacco di Pearl Harbor nel 1941.
E al piano terra la Map room era la Situation room della Seconda guerra mondiale, con tutte le cartine del mondo.

Mauro Suttora

Wednesday, August 14, 2013

L'ottava resurrezione di Berlusconi

DOPO LA CONDANNA A TRE ANNI PER FRODE FISCALE: A 77 ANNI HA ANCORA VOGLIA DI COMBATTERE

di Mauro Suttora

Oggi, 7 agosto 2013

«Io sono qui. Resto qui. Non mollo». Chi si illudeva che la carriera politica di Silvio Berlusconi fosse terminata con la condanna definitiva a quattro anni di carcere, è servito. Tante volte è stato dato per morto, altrettante è resuscitato. «Anche gli avversari, al di là di tutto, devono ammetterlo», dice a Oggi Daniele Capezzone, presidente Pdl della commissione Finanze della Camera, « ha un’energia obiettivamente impressionante. Sembra una rockstar».

Silvio ha 76 anni, 77 fra sette settimane. Il presidente americano Richard Nixon era un ragazzino, al confronto, quando dovette andarsene per lo scandalo Watergate: aveva ‘soltanto’ 61 anni. Pure lui sotto i colpi di magistrati che stavano mettendolo sotto impeachment. Evitò l’umiliazione dimettendosi nell’agosto 1974.

Berlusconi è sette volte nonno. Potrebbe essere perfino bisnonno: sua nipote Lucrezia, prima figlia di Piersilvio, ha 23 anni. Ma non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Dove trova la voglia di combattere ancora? Da un po’ di tempo ha smesso di vantarsi della propria giovanilità. Anzi, ha addirittura preso il vezzo di aumentarsi gli anni: «Ne ho quasi 78», ha detto al direttore del quotidiano Libero Maurizio Belpietro qualche giorno fa. Svista o esagerazione per sembrare più anziano? «Mente perfino sull’età», ringhiano i nemici sulla rete.

Odiato, amato. Due curve di tifosi contrapposti. Dieci milioni di voti presi cinque mesi fa. Sei milioni di voti persi in cinque anni. Ma comunque ancora capo del primo partito italiano. O secondo partito, se si sapesse chi è il capo del primo (il Pd). Ha governato l’Italia per 3.340 giorni: il terzo per durata dopo Benito Mussolini e Giovanni Giolitti. Ma il primo della storia repubblicana: più di Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Bettino Craxi.

Il record di cui si parla in questi giorni, però, è quello giudiziario. Processi subiti in vent’anni: 27. Processi in corso: sette, come i nipoti. Quelli più fastidiosi: i due civili. Perché rischia di dover  pagare oltre mezzo miliardo di euro all’odiato Carlo De Benedetti (editore dei giornali Repubblica ed Espresso), e centomila al giorno alla seconda ex moglie Veronica.

Finora, sempre assolto o prescritto. Per la prima volta il primo agosto è stato condannato. Entro il 15 ottobre deve scegliere se scontare un anno (tre sono svaniti con l’indulto 2006, per cui può ringraziare Romano Prodi allora premier) in affidamento ai servizi sociali o agli arresti domiciliari.
 
Già il fratello Paolo vent’anni fa dovette trascorrere l’estate 1993 ‘recluso’ nella propria villa a Porto Rotondo, accanto alla Certosa di Silvio. Ma le umiliazioni per l’ex premier sono già cominciate. I carabinieri gli hanno ritirato il passaporto. I grillini premono per cacciarlo subito dal Senato. I suoi rispondono che la legge sulla decadenza dei parlamentari pregiudicati è del 2012, e non ha valore retroattivo (la frode fiscale da nove milioni di euro di Mediaset risale a dieci anni fa). 

In ogni caso, gli avversari ora possono definirlo «delinquente» senza diffamarlo. Per il Financial Times è un «buffone». Per l’Economist un «clown», seppure alla pari con Beppe Grillo. Due giornali liberali, non comunisti.

Ma per il Grande Combattente processi e condanne sono solo medaglie: la dimostrazione di essere un Grande Perseguitato. E i giudici sono solo impiegatucci statali, «che hanno fatto un compitino vincendo un concorso». Altro che giustizia uguale per tutti: lo hanno preso di mira solo perché è sceso in politica.

I giudici di Milano lo avevano anche interdetto dai pubblici uffici per cinque anni. Troppi, ha concesso la Cassazione: facciamo tre, ha suggerito il procuratore generale. Rideciderà Milano. Nel frattempo, niente candidature. E allora, per conservare il nome Berlusconi sulla scheda, ecco la figlia Marina. Ha partecipato a tutti i vertici degli ultimi giorni. E si è schierata con i ‘falchi’ accanto a Capezzone, Renato Brunetta, Daniela Santanchè e Denis Verdini. 

Dall’altra parte, i ‘moderati’ Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Angelino Alfano e Renato Schifani. In mezzo, la fidanzata napoletana Francesca Pascale e la ‘badante’ casertana Mariarosaria Rossi. Quest’ultima ha ormai sostituito la segretaria storica Marinella Brambilla (diventata madre a 48 anni) e perfino il maggiordomo Alfredo Pezzotti. Per parlare con Berlusconi bisogna passare da lei.

«Ma alla fine le decisioni le prende solo lui», dice Capezzone, «e mi impressiona la sua apertura alle novità. È un perfezionista, capace di arrivare un’ora prima sul palco di un comizio a provare i microfoni. Ma gli piacciono anche i colpi di scena, le improvvisazioni che spiazzano». Una potrebbe essere la drammatizzazione del momento dell’arresto. Chiedere di finire in carcere nonostante l’età. Il martirio porta voti.
Mauro Suttora 

Tuesday, November 22, 2005

Bob Woodward

22 novembre 2005

Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.

Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.

La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.

Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.

Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.

Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.

Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.

Mauro Suttora