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Wednesday, March 16, 2011

I Senussi tornano in Libia?

CHI SONO IL PRINCIPE IDRIS AL SENUSSI, NIPOTE DEL RE SPODESTATO NEL 1969, E IL CUGINO MUHAMMED

Oggi, 16 marzo 2011

di Mauro Suttora

Porto di Trieste, notte del 21 marzo 1971. Un commando di uomini armati si sta imbarcando in gran segreto sul battello Conquistator XIII. Destinazione: Libia. Dove due anni prima il 27enne Muammar Gheddafi ha spodestato il 79enne re Idris Senussi, che governava pacificamente dal 1951. Nome in codice dell’operazione: Hilton Assignment. La spedizione è finanziata da Abdallah Senussi, il «principe nero» braccio destro e nipote di re Idris. Il quale, non avendo figli, lo ha indicato come erede al trono.

Entrambi si trovavano all’estero al momento del golpe: re Idris in Turchia, il 50enne principe Abdallah in Italia, a Montecatini. A Tripoli era restato un altro nipote di Idris, Hassan: finì sul trono per un giorno, poi i militari golpisti proclamarono la repubblica. Esattamente come aveva fatto il loro eroe, Gamal Nasser, in Egitto nel ‘52. Re Faruk aveva riparato in Italia. Il libico Hassan rinunciò al trono e finì agli arresti domiciliari.

L’Italia blocca il blitz

Ora da Trieste partiva la riscossa della monarchia senussita, che aveva garantito libertà, benessere e moderazione alla Libia per vent’anni. Con grande tolleranza: gli ex coloni italiani vivevano tranquilli; cristiani, islamici ed ebrei si rispettavano anche dopo la terza guerra arabo-israeliana del ‘67, che invece negli altri Paesi arabi aveva provocato esodi di israeliti.

D’altra parte, la Senussia è tuttora una delle grandi correnti dell’Islam. Gestisce la seconda maggiore moschea alla Mecca, è aperta alla modernità. Anche la tradizionale rivalità fra la Cirenaica legata all’Egitto e la Tripolitania più maghrebina era stata risolta dai Senussi conferendo anche a Bengasi lo status di capitale della Libia. Insomma, ancor oggi, dopo i 42 anni di delirio gheddafiano, i libici ricordano con nostalgia quell’epoca. E infatti hanno subito adottato la vecchia bandiera monarchica per la loro nuova Libia liberata.

La storia sarebbe stata diversa se quella notte d’inizio primavera a Trieste i servizi segreti italiani non avessero improvvisamente bloccato la spedizione del principe Abdallah. Niente sbarco in Libia, niente liberazione dei partigiani senussiti incarcerati da Gheddafi. L’Italia non voleva una restaurazione della monarchia, nonostante i 30 mila connazionali cacciati da Gheddafi l’anno prima. E l’allora ministro degli Esteri italiano Aldo Moro pochi mesi dopo poté vantare quello «stop» direttamente con il dittatore libico, inaugurando una politica quarantennale di «appeasement» e amicizia. Che, prima del recente «bacio dell’anello» da parte di Berlusconi, ebbe un altro picco: l’avviso, da parte del premier Bettino Craxi nell’86, che gli Stati Uniti stavano per bombardare la caserma di Gheddafi (uccidendone la figlia adottiva).

Il blitz «Hilton Assignment» fatto abortire dagli 007 italiani è stato confermato da Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), nel suo libro L’Italia e l’ascesa di Gheddafi (ed. Dalai Baldini Castoldi, 2009).

I Senussi non hanno mai abbandonato il sogno di tornare in Libia. Re Idris è morto in esilio al Cairo nell’83, suo nipote Abdallah cinque anni dopo. Il testimone è passato al principe Idris, figlio di Abdallah e omonimo del nonno: al momento del golpe del ‘69 era dodicenne in collegio a Londra.

Oggi Idris Senussi vive fra Roma e Washington, fa il mediatore d’affari. Conosce tutti i monarchi del Medio Oriente, di alcuni è parente (cugino dei re marocchino e giordano). Dalle prime nozze con un’americana ha avuto la figlia Alia. Poi si è risposato con la nobildonna spagnola Ana Maria Quinones. Ha messo a frutto i suoi contatti per far ottenere grosse commesse a Eni, Snam, Condotte, Ansaldo.

Ha preparato la rivolta del 17 febbraio in stretto contatto con i parenti rimasti in Libia. Il 4 febbraio aveva lanciato un appello pubblico a Gheddafi, invitandolo ad aperture e riforme dopo le liberazioni di Tunisia ed Egitto. Nessuno, un mese fa, immaginava che la rivoluzione si sarebbe estesa subito anche alla Libia. Lo avevamo intervistato (Oggi n.7), Senussi sperava ancora in una mossa intelligente (o almeno furba) da parte del dittatore: «Gheddafi nell’ultimo anno ha effettuato alcune liberalizzazioni nel campo del commercio, ha restituito qualche proprietà privata confiscata». Ma avvertiva che anche i giovani libici, come i tunisini e gli egiziani, erano arrivati al limite della sopportazione.

Dopo l’inattesa liberazione di Bengasi il principe Idris è felice: «Hanno assaltato e liberato il palazzo dove sono nato, che Gheddafi aveva trasformato in caserma». Bene introdotto al Dipartimento di stato statunitense, è volato a Washington dove ha fornito preziose informazioni ai dirigenti della politica estera americana. Intervistato dalla Cnn, avverte che ormai Gheddafi è finito: «Dopo le stragi che ha commesso non c’è più possibilità di negoziato». Sua figlia, la 26enne principessa Alia, raccoglie fondi per la Croce/Mezzaluna Rossa.

Nel frattempo, a Londra compare un altro pretendente al trono libico: Muhammed Senussi, 48 anni, figlio di Hassan. Gheddafi permise a suo padre di espatriare soltanto nell’88.
Muhammed ingaggia una costosa agenzia di relazioni pubbliche, si fa intervistare da Al Jazeera. E i suoi sostenitori scatenano una battaglia via internet contro Idris: cambiano il suo ritratto su Wikipedia, l’enciclopedia online. Un conflitto fra cugini che ricorda quello fra i nostri Vittorio Emanuele di Savoia e Amedeo d’Aosta.

Il ramo dinastico di Muhammed si fa forte di quel 30 settembre ‘69, unico giorno sul trono di suo padre Hassan. Il ramo di Idris risponde che proprio l’immediata abdicazione cancella ogni diritto. A complicare le cose, infine, ecco Hashem Senussi, 60 anni, fratello maggiore del principe Idris: pure lui, che vive a Roma, si proclama erede al trono in due interviste al Tempo e al Corriere della Sera.

Questo proliferare di pretendenti significa che ci sarà veramente un trono libico su cui sedersi? Più passano i giorni, più si capisce quanto sia grande il vuoto che il quarantennio di Gheddafi ha provocato in Libia. Il nuovo governo provvisorio di Bengasi è composto da persone rispettabili, in certi casi eroiche. Ma lo stesso fatto che i capi della Libia libera debbano riciclare ex ministri e generali del dittatore dimostra la carenza di classe dirigente. E il vuoto a quelle latitudini è pericoloso, perché può essere riempito da fanatici religiosi, o da Al Qaeda.

L’esempio afghano

Prima o poi a Tripoli emergerà una nuova leadership. Ma per ora la struttura della Libia sembra simile a quella dell’Afghanistan, diviso fra decine di tribù. A Kabul oggi molti rimpiangono di non aver rimesso al suo posto il vecchio re Zahir (che regnò dal 1933 al ‘73, prima dell’esilio a Roma) dopo la liberazione dai talebani nel 2001. Avrebbe potuto garantire l’unità di una nazione fratturata meglio del presidente Karzai, e forse adesso l’Afghanistan non sarebbe più in guerra.

I Senussi tornerano a regnare in Libia, ovviamente in regime democratico costituzionale? «Se il popolo lo vorrà, siamo disponibili», è la risposta. Il plurale è maiestatis, ma almeno su questo l’accordo fra i tre prìncipi è unanime.

Mauro Suttora