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Thursday, December 01, 2016

Vita privata dei Trump

di Mauro Suttora


New York (Stati Uniti), 1 dicembre 2016


È già scivolata due volte. Ivanka Trump, figlia del nuovo presidente degli Stati Uniti, sta usando la politica per fare pubblicità ai suoi affari personali. A luglio, dopo il suo discorso alla Convention repubblicana che incoronò il padre, si affrettò a mandare un tweet in cui invitava a comprare il vestito da lei indossato: meno di cento dollari ai grandi magazzini Macy’s, con tanto di link alla sua linea di vestiti.

C’è ricascata pochi giorni fa. La vicepresidente della sua società di vendita di gioielli ha pubblicizzato via mail il braccialetto indossato dalla First Figlia durante la prima intervista tv del padre da presidente a 60 Minutes, il programma politico più visto in America. Questa volta il prezzo online sul sito di Ivanka è di 10.800 dollari.

«Ma è una piazzista? Inaccettabile!», si è scandalizzata metà America, quella che non ha votato Trump. E anche qualche repubblicano, come la mitica Peggy Noonan che scriveva i discorsi di Ronald Reagan.
Dovranno abituarsi. Perché se noi italiani siamo ormai avvezzi allo stile Berlusconi, cioè a quello di un miliardario sceso in politica (ma senza mai scendere ai livelli di Ivanka), per gli Stati Uniti è la prima volta.

A imbarazzare Donald non c’è solo la figlia avuta dal primo matrimonio, quello con la cecoslovacca Ivana famosa anche in Italia. Anche il marito di Ivanka, il First genero Jared Kushner, è piuttosto ingombrante. Figlio di un ricchissimo immobiliarista (quasi quanto il suocero), non ha esitato a vendicare il padre facendo fuori dalla squadra presidenziale un pezzo da 90: Chris Christie.

Cassetta a luci rosse per vendetta familiare

La sua colpa: aver inflitto a Kushner senior due anni di carcere quand’era procuratore in New Jersey. Fra i reati commessi: aver assoldato per 10mila dollari una prostituta che portò il cognato di Kushner senior in un motel e filmò l’incontro. La videocassetta fu poi recapitata alla zia di Jared, colpevole di aver tradito la famiglia confessando finanziamenti illeciti ai partiti.

Ora Jared è il consulente politico più stretto di Trump. Abita con Ivanka e i tre figli nel palazzo Trump Park Avenue, a due isolati di distanza dalla Trump Tower, sulla Quinta Avenue: il presidente all’altezza della 57esima Strada, loro sulla 59esima.

Vivono nell’ex hotel dei Beatles e di Dylan
Il grattacielo Trump Park (“soltanto” 32 piani) ha una storia curiosa. Costruito nel 1929, era l’hotel Delmonico. Nel 1964 ci alloggiarono i Beatles durante il loro secondo tour degli Usa, e nelle loro stanze accolsero Bob Dylan che li iniziò agli spinelli.

Nel 2002 Trump lo acquistò per 115 milioni di dollari, pagò gli inquilini per andarsene, e lo ristrutturò. Oggi sfavilla nel quartiere col metro quadro più costoso del mondo (50mila dollari). E Ivanka anche lì fa da testimonial alle vendite, con le foto delle stanze arredate sul sito di Elle Decor.

Meno conosciuta è l’altra figlia del presidente, Tiffany, avuta dalla seconda moglie Marla Maples. Neolaureata, il padre le ha appena regalato un attico con vista su Central Park. Ha debuttato pure lei in politica con un discorso alla Convention, e sembra determinata a continuare l’impegno pubblico a fianco del padre.

Così la First Lady slovena, Melania, si trova in famiglia due concorrenti al femminile. Riusciranno ad andare d’accordo, o si scateneranno le gelosie? 
Per ora Melania non si trasferisce a Washington: «Mio figlio Barron deve finire l’anno scolastico a New York».

Ma la vita della tribù Trump è comunque piena di trasferimenti. Per i week-end c’è il palazzo affogato nel verde in mezzo al campo da golf privato del New Jersey. Per le feste invernali la famiglia si trasferisce in blocco a Mar-a-Lago, la favolosa residenza da sette ettari nella città dei miliardari, Palm Beach.

Florida: incredibile predestinazione

Una storia curiosa anche questa: costruita negli anni 20 da un’ereditiera che alla sua morte la diede al governo Usa, con la clausola che fosse destinata a residenza per presidenti.
Guarda caso, Trump la comprò nel 1985 e la trasformò in club di lusso. Qui si sono sposati Michael Jackson con la figlia di Elvis Presley, e lo stesso Trump con Melania. E oggi Mar-a-Lago può finalmente ospitare un presidente.
Mauro Suttora

Tuesday, January 20, 2009

Obama: gli speechwriter ricordano

GRANDE ATTESA PER IL DISCORSO DI BARACK
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia

Libero, 20 gennaio 2008

di Mauro Suttora

Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.

Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.

«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».

L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.

«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.

Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».

Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».

Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».

«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»

«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»