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Wednesday, November 01, 2017

Visita al deposito Amazon



dall'inviato Mauro Suttora

Un magazzino di quasi 10 ettari. Gli ordini li dà il computer, e 1600 persone eseguono. Ecco come funziona la multinazionale che ci ha facilitato la vita. Ma che elude le tasse

Castel San Giovanni (Piacenza), 18 ottobre 2017

A cento metri dal casello autostradale della Brescia-Piacenza-Alessandria sorge un megacapannone di quasi 10 ettari (86 mila metri quadri), con dentro 368 milioni di prodotti. È il cuore italiano del più grosso fenomeno del commercio mondiale dopo i supermercati (il primo a Milano, un Esselunga, esattamente 60 anni fa: novembre 1957).

Qui 1.600 dipendenti Amazon smistano a ogni ora del giorno e della notte (tranne la domenica mattina) i milioni di nostri ordini che arrivano on line. «Un secondo dopo che avete fatto clic, noi cominciamo a lavorare», ci spiega Salvatore Schembri, responsabile del deposito.

Fino a poche settimane fa anche i prodotti acquistati su Amazon da Siracusa venivano impacchettati e spediti da qui. Ora Amazon, per far fronte all’impetuosa crescita, ha aperto un secondo magazzino a Passo Corese (Rieti), per  servire più rapidamente i clienti del centro-sud.

Ci siamo fatti spiegare come funziona, minuto per minuto, il percorso dei prodotti che acquistiamo, dal momento dell’ordine a quello dell’uscita del pacchetto (o paccone) dal centro di Piacenza. Lo spieghiamo nelle foto sopra.

In media, ci vogliono tre ore per soddisfare un ordine. Tutto, ovviamente, è computerizzato. L’aspetto più incredibile è il disordine dei prodotti che aspettano negli scaffali. Ci spiegano che i libri possono stare vicino ai giocattoli o ai vestiti perché ognuno è «firmato» elettronicamente: «Ci metteremmo più tempo a trovarli e occuperemmo più spazio se li dividessimo per genere».

Quanto fatturate? È vero che raddoppiate da un anno all’altro? «Non diamo dati sui bilanci italiani». E qui si apre una controversia: Amazon infatti è accusata di avere evaso 130 milioni di tasse in Italia, che per la Ue diventano 250 in tutta Europa, grazie a un trattamento di favore in Lussemburgo.
«Abbiamo utili bassi e quindi paghiamo poche tasse perché facciamo molti investimenti», replica Amazon.
Mauro Suttora


Thursday, September 28, 2017

Trump e Kim: guerra di parole



di Mauro Suttora

Oggi, 28 settembre 2017

Kim Jong-un, 33 anni, è succeduto al padre e al nonno nel 2011 come dittatore della Corea del Nord. È il più giovane capo di stato al mondo, e da quattro anni minaccia di bombardare con l’atomica la Corea del Sud e gli Stati Uniti. I primi test nucleari erano avvenuti nel 2006, ma è con Kim che il pericolo è aumentato. Ormai, stimano le agenzie Onu, la Nord Corea avrebbe immagazzinato decine di bombe atomiche. Ma, soprattutto, ha lanciato missili che possono portarle fino a 4mila km di distanza, colpendo la base Usa di Guam.

Le cose sono peggiorate da quando è stato eletto Donald Trump. Il presidente Usa pochi giorni fa all’Onu ha minacciato di «distruggere totalmente la Corea del Nord», in risposta alle continue sfide di «Rocket man», come lui chiama Kim. Ma gli Usa hanno le mani legate per due motivi. Primo: Russia e Cina erano alleate di Kim e, anche se ormai hanno perso il controllo su di lui, frenano le contromisure Onu contro il dittatore. Secondo: nonostante l’enorme disparità di forze fra Usa e Nord Corea, quest’ultima se attaccata può bombardare la vicina Corea del Sud e il Giappone, alleati degli Usa.
   
Il ministro degli Esteri nordcoreano ha dato dello «squilibrato e megalomane» a Trump rispondendogli all’Onu. E, quanto a parole grosse, il presidente Usa ha le sue gatte da pelare anche a casa propria. Ha infatti definito «figli di p…» i giocatori di colore di football e basket che mancano di rispetto alla bandiera Usa, rimanendo muti e inginocchiandosi durante l’inno nazionale prima delle partite per protesta contro le discriminazioni razziali.

Gli atleti sono considerati eroi nazionali negli Stati Uniti, ma questi gesti irritano gli spettatori più patriottici: un quarto di loro dice di aver smesso di guardare le partite per la politicizzazione dello sport. A Trump non è parso vero potersi inserire nella polemica con un tweet, annunciando che non riceverà più alla Casa Bianca le star afroamericane ribelli. Che però sono difese anche da proprietari di squadre e allenatori amici del presidente.
Mauro Suttora

Thursday, September 21, 2017

Noemi Durini, massacrata a Specchia (Lecce)



Ogni madre d’Italia si chiede: cosa posso fare se mia figlia s’innamora di un ragazzo che la picchia e la minaccia?
Fa denuncia. Sperando che i magistrati non vadano in ferie
dall’inviato a Specchia (Lecce) Mauro Suttora
Oggi, 21 settembre 2017
«Era una ragazza solare, piena di vita, sorridente, forte. Solo con lui era debole». Parla Leila, la migliore amica di Noemi Durini, la 16enne di Specchia (Lecce) massacrata dal fidanzato 17enne Lucio il 3 settembre. Si erano conosciuti per caso, un anno fa. Erano in quattro: «Noemi stava con il miglior amico di Lucio», ricorda Leila, «ma quella sera una ragazza di Alessano si è baciata con lui e allora lei, per fargliela pagare, ha baciato Lucio».
Specchia e Alessano sono paesi vicini in quel paradiso che è il Salento, diventato un inferno per Noemi. «All’inizio il loro rapporto era sereno. Noemi andava anche a casa di lui e aveva un buon rapporto con i genitori».
Ma presto tutto si guasta. Lucio diventa possessivo, geloso e violento. La picchia. Non gli piace che Noemi frequenti i vecchi amici di Specchia, la vuole tutta per lui. Le famiglie dei ragazzi capiscono che è un rapporto sbagliato. Droga, spinelli, botte. Noemi salta sempre più spesso le lezioni all’Istituto alberghiero di Santa Cesarea, e verrà bocciata.
Cercano di separarli. A gennaio Lucio si ribella al padre, fa una scenata isterica, alza le mani e urla pure con lui. Sfascia tutto. Finisce in reparto psichiatrico con un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) di una settimana. «Esaurimento nervoso», minimizza Lucio. «Personalità schizoide», pare dica il referto, che adesso verrebbe buono per far dichiarare il ragazzo incapace di intendere e di volere.
Si rimettono insieme. Lui ricomincia a menarla. «Lei lo amava», racconta Leila, «tante volte mi ha detto che voleva lasciarlo, ma non ci riusciva. Aveva paura, ma la passione non la faceva ragionare».
«Voleva fare la crocerossina, pensava di poter salvare quel ragazzo disgraziato», si dispera ora la mamma di Noemi, Imma Rizzo, maestra d’asilo. Si è separata dal padre, si è rifatta una vita, ha un altro compagno, ma la sua preoccupazione maggiore è questa figlia che scappa di casa ogni volta che lei gli proibisce di vedere Lucio.
Ad aprile secondo Tso per il ragazzo. Il padre di Noemi, Umberto, dice di averlo raccolto lui dalla strada, questa volta: «Gli ho pagato le medicine, i vestiti, le sigarette». Lucio, minorenne, scorrazzava con l’auto dei genitori per i 15 chilometri fra Alessano e Specchia che lo separavano dalla sua Noemi.
A giugno la ragazza torna a casa con l’ennesimo livido in faccia. Mamma Imma non ne può più. Va dai carabinieri e denuncia Lucio. Dopo poche settimane i genitori di Lucio controdenunciano Noemi per «atti persecutori»: secondo loro è la ragazza a traviarlo.
A questo punto, ogni madre d’Italia si chiede: cosa posso fare se mia figlia s’innamora di un ragazzo che la picchia e la minaccia? Perché quest’estate Lucio, prima di finire una terza settimana in Tso in agosto, annuncia più volte la tragica fine che ha in mente. Oscilla fra «Se mi lasci mi ammazzo», «Se mi lasci ti ammazzo» e «Se mi lasci ti ammazzo e mi ammazzo». Più di così.
Dopo la denuncia, la procura dei minori di Lecce fa intervenire i servizi sociali del comune di Specchia. La dottoressa il 19 luglio stile la relazione: Noemi dev’essere seguita dai servizi e anche dal Sert (Servizio tossicodipendenze).
Poi però cominciano le ferie. E il provvedimento dei magistrati arriva solo il 5 settembre: due giorni dopo che Noemi è scomparsa. In realtà è già morta, ma Lucio resiste dieci giorni prima di confessare.
Senza questo mese e mezzo di ritardo Noemi avrebbe potuto essere salvata? Lo stabiliranno gli ispettori mandati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che per ora si limita a parlare di «abnormità». A pagina 84 se ne occupa anche l’avvocata Giulia Bongiorno, nella nostra rubrica Doppia Difesa.
Ma oltre a proteggere Noemi, non si poteva almeno impedire a Lucio di avvicinarla, con una delle inibizioni che scattano dopo le denunce per stalking?
«Teniamo presente che, solo in Puglia, i minorenni affidati ai servizi sociali sono seimila», ci spiega una fonte della Procura, «per cui mancano il tempo e le forze per approfondire ogni singolo caso. Paradossalmente, se Noemi fosse stata maggiorenne e avesse lei denunciato per stalking Lucio, avrebbe avuto una tutela maggiore e più veloce. Ma qui ci sono due famiglie che si sono denunciate e controdenunciate, entrambe imputando la deriva del proprio figlio e figlia all’altra famiglia. Con i due ragazzi che invece volevano stare assieme, ribellandosi entrambi ai propri genitori. È facile ora parlare col senno di poi. Ma sono questioni delicatissime, un ginepraio».
Adesso si è pure scatenata la sceneggiata televisiva. Ha cominciato la Rai con Chi l’ha visto?, dando in diretta la notizia della confessione del ragazzo e del ritrovamento del cadavere, durante un’intervista ai genitori di Lucio. Con il padre che simula sorpresa, mentre poi dirà che il figlio aveva già ammesso l’assassinio con lui la sera prima. E con accuse alla ragazza e alla sua famiglia.
Mediaset ha replicato due giorni dopo con lo sfogo della mamma di Noemi a Quarto Grado. Anche lei ha lanciato parole di fuoco contro la famiglia di Lucio, accusandola in blocco di avere ammazzato la ragazza. Contemporaneamente, il padre di Noemi è andato sotto la casa della famiglia avversaria, urlando insulti in favore di telecamera. Poi tre bombe molotov hanno rotto i vetri della famiglia di Lucio, per fortuna senza esplodere. Infine, il solito contorno di insulti su Facebook di tutti contro tutti, e minacce di morte agli avvocati del presunto assassino (che secondo alcuni coprirebbe una complicità del padre, almeno nel nascondere il cadavere sotto un cumulo di pietre in campagna).
«Siamo sconvolti, fino a due settimane fa il nostro era un paese tranquillo senza particolari problemi di criminalità o droga», ci dice il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara. «Presto organizzeremo un incontro con il paese di Alessano, perché le nostre comunità non hanno mai avuto screzi di alcun tipo». E il parroco di Specchia ammonisce: «Nessuno chieda giustizia sommaria di fronte a questa tragedia».
Specchia, in effetti, ci appare come un gioiello. Il centro storico è stato eletto fra i «Cento borghi» più belli d’Italia, il pasticciere Giuseppe Zippo ha vinto il premio per il miglior panettone della penisola, la pasticceria concorrente Martinucci è diventata un piccolo impero con 18 filiali in tutta la Puglia e a Napoli.
E questa storia orrenda, con la povera Noemi martirizzata in auto alle sei del mattino dal suo folle fidanzatino, ha poco a che fare con il relativo benessere assicurato da turismo, artigianato e agricoltura.
Mauro Suttora

Thursday, September 14, 2017

La strage di Livorno


di Mauro Suttora
Oggi, 14 settembre 2017
«Le bombe d’acqua non esistono. L’Italia non è diventata un paese tropicale. Dai temporali, anche fortissimi come quello di Livorno, possiamo difenderci con le immagini da satelliti e radar meteo per previsioni a breve termine».
Franco Prodi, fratello di Romano, va controcorrente. Già docente di Fisica dell’atmosfera all’università di Ferrara, il professore avverte che «per prevedere il rischio di alluvioni, più piccolo è il bacino, più conta la meteorologia. Non basata su equazioni che dipingono situazioni generiche in un futuro di giorni, ma come nowcasting, fondata su immagini in tempo reale di satelliti e radar».
Insomma, le care, vecchie previsioni del tempo. Che, se applicate di ora in ora nella tremenda notte fra sabato e domenica 10 settembre, avrebbero forse potuto salvare la famiglia Ramacciotti: nonno Roberto, 65 anni, annegato per salvare la nipotina Camilla di tre anni (unica sopravvissuta), suo figlio Simone con la moglie Glenda, e il piccolo Filippo di 4 anni.
Tutti travolti dall’onda alta tre metri del Riomaggiore, esploso dopo i 25 centimetri piovuti in poche ore: tutta la pioggia di un anno concentrata dall’una alle quattro del mattino. Salta l’elettricità, e nel buio tutta la città di Livorno si sveglia di soprassalto, assalita dalla vendetta dei fiumi interrati nei decenni, dall’Ugiano all’Ardenza.
L’errore fatale della famiglia Ramacciotti è stato quello di scendere al piano terra per fuggire. Se fossero rimasti al primo, sarebbero vivi. Viceversa, nel quartiere Collinaia è annegato un settantenne che non è riuscito a salire sul tetto con moglie e figlia. Più su, al santuario di Montenero, un altro morto. E due dispersi.
Furono sei anche i morti dell’alluvione di Genova nel 2011. Per quelli l’ex sindaca Marta Vincenzi ha avuto cinque anni di carcere e la carriera stroncata. Ora il sindaco di Livorno Filippo Nogarin (pure lui con casa allagata ad Antignano) accusa la regione Toscana: «Doveva mandarci l’allarme rosso, non arancione». Così la famiglia Ramacciotti avrebbe almeno ricevuto un sms di avvertimento.
Replica il capo della protezione civile regionale Riccardo Gaddi: «L’allerta rossa è uguale a quella arancione. Segnala solo una maggiore estensione del territorio minacciato». Come quella che nella stessa notte aveva coinvolto l’intera regione Liguria. Ma all’ultimo momento, grazie un provvidenziale libeccio, il nubifragio ha risparmiato Genova e si è diretto verso la Toscana e Livorno.
E allora, chi incolpare? I sindaci che non tempestano di allarmi telefonici i cittadini, rischiando di farli imbufalire se poi l’alluvione non avviene? I Comuni possono ordinare la chiusura delle scuole, sospendere eventi (come la partita Sampdoria-Roma), invitare la gente a non uscire di casa. È il cosiddetto «principio di precauzione», che però blocca la vita di intere città: non si può abusarne.
Così, anche a Roma (dieci centimetri di pioggia) la sindaca Virginia Raggi, grillina come quello di Livorno, viene accusata dagli avversari politici per la metropoli in tilt, le stazioni chiuse della metro, i bus allagati.
Lo scaricabarile prosegue verso gli enti che dovrebbero ripulire gli alvei dei fiumi, aprire i tombini ostruiti, e via via nel passato verso chi ha permesso di costruirci direttamente, in quegli alvei. Nessuno ha il cattivo gusto di ricordarlo in questo tragico momento, ma anche la palazzina dei Ramacciotti sorge vicina al letto del Riomaggiore murato cent’anni fa. E per essere travolti dal fango nel proprio, di letto, è bastato il crollo di un muro.
Insomma, il maxiacquazzone di Livorno ha fatto più vittime del contemporaneo uragano Irma in Florida. Eppure i tg sabato sera erano pieni di immagini tremende dagli Stati Uniti, mentre nessuno si preoccupava per la Toscana.
«Tanto allarme per cose lontane come il riscaldamento globale e le emissioni di anidride carbonica», avverte il professor Prodi, «e poca attenzione minuto per minuto al percorso della perturbazione che ha deviato da Genova a Livorno».
Mauro Suttora

Tuesday, August 08, 2017

Noi, i ragazzi della Ong di Berlino

La loro nave Iuventa è stata sequestrata dai magistrati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma cos’hanno fatto veramente quelli di Jugend Retten?
di Mauro Suttora 
Oggi, 8 agosto 2017

«Abbiamo sconfinato, siamo entrati nelle acque territoriali libiche? Sì, l’ultima volta il 9 giugno. Mentre recuperavamo un gommone di migranti abbiamo spento il motore, e la corrente ci ha spinti all’interno delle dodici miglia».
Beata incoscienza. Sono i 26 anni di Jonas Buja, la sua inesperienza, a fargli confessare candidamente di aver violato la legge? Questo ragazzone di Hannover, uscito dagli oratori della chiesa evangelica tedesca, nonostante l’età era il comandante della Iuventa, la nave dell’Ong (Organizzazione non governativa) Jugend Retten (“Salvare i giovani”), sequestrata per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Sono ancor più giovani di Jonas i fondatori di questa Ong, il 21enne berlinese Jacob Schoen e la 24enne Lena Waldhoff, che due anni fa si sono messi in testa di aiutare i migranti. Potevano arruolarsi in stimate Ong di lungo corso come Medici senza Frontiere (nata nel 1971, Nobel per la pace, un miliardo e mezzo di donazioni di cui 57 milioni in Italia) o Save the Children (fondata cent’anni fa, due miliardi annui di bilancio, 78 milioni in Italia). Invece ne hanno inventata una tutta loro.
Hanno lanciato un crowdfunding (raccolta soldi online), sono arrivati a 300 mila euro avendo come testimonial l’attrice miliardaria Maria Furtwängler (moglie di Hubert Burda, editore di 260 riviste in 89 Paesi), hanno comprato l’ex peschereccio Iuventa e dall’estate scorsa si sono messi a raccogliere migranti davanti alla Libia.
Sono una decina le navi di Ong che fanno questo lavoro, al ritmo di 170mila migranti all’anno. Ma quelli di Iuventa sono i più estremisti: «Ci battiamo contro le politiche di asilo europee», dichiarano ufficialmente. Le considerano troppo rigide. E sono accusati di aver messo a prua un cartello con la scritta “Fuck Mrcc”: un bel vaffa al Maritime Rescue and Coordination Center della Guardia Costiera italiana che da Roma raccoglie le richieste di aiuto e smista le navi.
Insomma, un misto di centri sociali, idealismo, soldi e brivido di avventura: hanno giocato col fuoco. Perché da tempo ormai le Ong sono accusate di complicità (seppur involontaria) con gli scafisti libici organizzatori del traffico di migranti.

A dicembre Frontex, l’Agenzia europea che controlla le frontiere, ha avvertito che le navi di soccorso a ridosso della costa libica «agevolano i trafficanti». I quali non devono più imbarcare i disperati su barconi capaci di raggiungere almeno Lampedusa, a centinaia di miglia: basta caricarli come bestie su fragili gommoni alla deriva, perché dopo poche miglia li aspettano le Ong.
“Taxi degli scafisti”
«Salviamo vite umane», dicono i volontari. Ed è vero, anche se migliaia di africani continuano comunque ad annegare. «Siete i taxi degli scafisti», accusano invece centrodestra e grillini.
Le Ong più responsabili si sono rese conto di essere schiacciate in questa tenaglia fra favorevoli e contrari all’immigrazione, così a maggio in una riunione riservata hanno proposto di arretrare la linea di attesa delle navi da 12 a 24 miglia. Ma hanno prevalso i “duri” come Jugend Retten: «Quelli vogliono stare sempre in prima linea», spiega il medico Stefano Spinelli, intercettato dai magistrati di Trapani. «Trasbordano i migranti su altre navi, ma dicono di averli salvati loro per farsi dare più soldi e donazioni», accusa Pietro Gallo, della Imi Security Service.
Il colpo di grazia alla Iuventa lo ha dato un poliziotto imbarcato in incognito su una nave di Save the Children. Il quale è riuscito a fotografare la stretta collaborazione fra i trafficanti e i giovani tedeschi. Confermata dall’ingenuo Buja: «Spesso durante i recuperi ho notato vicino ai canotti dei migranti barche in vetroresina con individui che alla fine recuperano i gommoni e le taniche di benzina. A volte aiutano anche le operazioni di soccorso».
Possibile che non abbia capito chi erano quei baffuti signori?
Sarà dura adesso per Kathrin Schmitt, 35enne team leader della Iuventa, ex ergoterapeuta in Nuova Zelanda, convincere i giudici di Trapani a dissequestrare la nave. Anche perché nel frattempo il ministro dell’Interno Marco Minniti ha adottato una linea severa con tutte le Ong: se non accettano poliziotti sulle loro navi, e un codice di comportamento, non possono più attraccare nei porti italiani. Save the Children ha detto sì ai poliziotti. Medici senza Frontiere no. Così ora deve trasbordare su navi della Guardia Costiera i clandestini che raccoglie.
Mauro Suttora

Thursday, August 03, 2017

Ricucci esce di prigione



«MAMMA, PER ME ORA CONTATE SOLO TU E MIO FIGLIO EDOARDO»

L’immobiliarista che voleva il Corriere della Sera rinnega la moglie separata Anna Falchi ed elogia i valori familiari: «Basta lussi e mondanità»

Oggi, 3 agosto 2017

di Mauro Suttora

Dieci mesi di carcere ancor prima di essere processato: i magistrati di Roma proprio non amano Stefano Ricucci, questo è sicuro. Anche se l’immobiliarista romano è un innovatore del vocabolario italiano: sue sono le famose espressioni «furbetti del quartierino» e «fare i f..ci col c..o degli altri».

Uscito di prigione (l’accusa: fatture false per un milione di euro), il marito separato di Anna Falchi promette: «Basta lussi, vita mondana, fidanzate da copertina o in cerca di visibilità».

«Stavo nel reparto detenuti mediatici»

Ricucci racconta la sua vita a Regina Coeli. Dentro, assicura, «sono sempre stato trattato bene. Stavo nel reparto per i “detenuti mediatici” (i vip, ndr)». Quattro celle in cui ha visto passare Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario democristiano Giuseppe, Alfredo Romeo del caso Consip e Raffaele Marra, ex braccio destro del sindaco di Roma Virginia Raggi.

Lui però assicura non aver mai cercato l’attenzione dei media. E aggiunge: «Con quel mondo ho chiuso. Sto nel mio. Con le uniche due persone che mi sono rimaste e che contano nella mia vita: mia madre e mio figlio Edoardo. Loro mi sono sempre stati vicini. Gli unici che venivano a trovarmi in carcere. Tutto il resto viene, va, e passa. E ti lascia poco o niente».

Compresa la Falchi, evidentemente, con cui è stato sposato dal 2005 al 2007. O Natasha Tozzi, figlia del cantante Umberto, con la quale nel 2014 fa assicurava di «sognare una nuova famiglia, nuove nozze, un figlio» ( lei aveva 25 anni, la metà dei suoi). O le numerose ex: Sara Varone, Claudia Galanti, Debora Salvalaggio, Natalia Bush, Patrizia Bonetti.
Ricucci dopo la liberazione è tornato al lavoro: «La mia attività è a Londra. Ho smesso da anni di interessarmi all’Italia. L’Italia è ferma».

Lui invece non è stato mai fermo. Diplomatico odontotecnico, fu denunciato per truffa ed esercizio abusivo della professione perché si spacciava per dentista. Poi diventò immobiliarista, nel 2001 aveva un patrimonio di mezzo miliardo in palazzi. 
Nel 2005 arrivò al 20% di Rcs (Rizzoli Corriere della Sera), ma fu arrestato per aggiotaggio. Ha patteggiato un anno per Antonveneta.
Mauro Suttora

Thursday, March 09, 2017

Conti in tasca ai politici



CHI CI HA PERSO, CHI CI GUADAGNA

Abbiamo confrontato le dichiarazioni dei redditi di chi è stato eletto la prima volta nel 2013 con quelle attuali. Alcuni sono miracolati, altri disperati

di Mauro Suttora

Oggi, 9 marzo 2017

Dai 580 mila euro in più di Alberto Bombassei al milione e 600 mila in meno di Yoram Gutgeld, ecco la classifica dei politici più noti che hanno debuttato nel 2013, secondo le loro dichiarazioni dei redditi: chi ha guadagnato e chi ha perso, facendosi eleggere per la prima volta?

Alcuni miracolati sono passati dal reddito zero della disoccupazione agli attuali 98 mila: i capi grillini Di Maio e Fico, i piddini Anna Ascani e Khalid Chaouki. 

La performance stellare dell’industriale Bombassei è merito non della politica, ma dell’exploit della sua società quotata in Borsa (Brembo); quella di Bonifazi (tesoriere Pd) al suo studio di avvocato, Bernabò Bocca ha alberghi. Il più ricco, ma stabile, è Renzo Piano.

È andata bene all’olimpionica Josefa Idem, male alla campionessa di scherma Valentina Vezzali. Disastro anche per i giornalisti Augusto Minzolini (ex direttore Tg1), Corradino Mineo (Rainews) e Massimo Mucchetti (Corriere della Sera).

Enrico Zanetti guadagnava un quarto di milione da commercialista, ora non solo è crollato sotto i 100 mila, ma ha pure perso la poltrona di viceministro. Ci ha rimesso anche il ministro Padoan: all’Ocse guadagnava il doppio.

Luigi Gaetti, ex medico, è l’unico grillino a rimetterci. A Laura Boldrini invece è convenuto buttarsi in politica: da funzionaria Onu guadagnava meno. Bene anche il presidente del Senato ed
ex magistrato Pietro Grasso.

Cecile Kyenge e Simona Bonafé ora sono eurodeputate, e anche a loro va bene. Stabili Boschi, Lotti e Renzi. Quest’ultimo non è eletto (come Padoan).

CLASSIFICA
redditi 2012 – 2016 differenza (in migliaia di euro)

Alberto Bombassei (Civici) 846mila – 1.426mila +580
Francesco Bonifazi (Pd) 67 – 280 +213
Pietro Grasso (Pd ) 176 – 340 +164
Valeria Fedeli (Pd) 41 – 181 +181
Ilaria Borletti (Pd) 89 – 190 +101
Luigi Di Maio (M5s) 0 – 98 +98
Roberto Fico (M5s) 0 – 98 +98
Anna Ascani (Pd) 0 – 98 +98
Khalid Chaouki (Pd) 0 – 98 +98
Alessandro Di Battista (M5s) 3 – 98 +95
Paola Taverna (M5s) 12 – 102 +90
Renzo Piano (senatore a vita) 2.600 – 2.685 +85
Barbara Lezzi (M5s) 20 – 98 +78
Simona Bonafè (Pd) 28 – 102 +74
Carla Ruocco (M5s) 26 – 96 +70
Bernabò Bocca (Fi) 758 – 823 +65
Cecile Kyenge (Pd) 38 – 102 +64
Roberto Speranza (Mdp) 35 – 94 +59
Laura Boldrini (misto) 94 – 146 +52
Alessia Morani (Pd) 47 – 92 +45
Josefa Idem (Pd) 121 – 146 +25
Luca Lotti (Pd) 83 – 98 +15
Maria Elena Boschi (Pd) 90 – 99 +9
Matteo Renzi (Pd) 99 (sindaco) – 105 +6
Luigi Gaetti (M5s) 107 – 101 -6
Stefania Giannini (Pd) 116 – 96 -20
Corradino Mineo (Si) 311 – 250 -61
Massimo Mucchetti (Pd) 348 – 259 -89
Andrea Romano (Pd) 205 – 116 -89
Pier Carlo Padoan 216 – 103 -113
Enrico Zanetti (Scelta Civica) 248 – 93 -155
Edoardo Nesi (Pd) 455 – 174 -281
Augusto Minzolini (FI) 524 – 113 -411
Valentina Vezzali (Sc) 689 – 145 -544

Yoram Gutgeld (Pd) 1.757 – 101 -1.656

Friday, January 20, 2017

L'Impero Trump

Speciale Oggi, gennaio 2017

di Mauro Suttora

I dipendenti del Trump Hotel di Las Vegas (il più alto della città, 64 piani, inaugurato nel 2008) sono felici. Improvvisamente a dicembre, dopo mesi di proteste e trattative, hanno ottenuto quel che chiedevano: aumenti salariali, copertura pensionistica e sanitaria, orari più leggeri, distribuzione equa delle mance.

Questo perché l’elezione di Donald Trump a presidente lo ha ammorbidito verso il sindacato. Temendo l’accusa di essere un padrone dispotico, ha ceduto su tutta la linea. Anche gli ex studenti della Trump university che lo avevano denunciato per truffa hanno avuto 25 milioni di dollari di risarcimento. E può darsi che venga demolito persino il muro sul mare del Trump Golf Club in Irlanda, dopo anni di inutili battaglie.

L’impero economico di Trump vale diversi miliardi di dollari: da 3 a 10, a seconda delle stime. Si va a tentoni, perché lui rifiuta di rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi e i conti della Trump organization, che non è quotata in Borsa. D’altra parte, dopo averli tenuti nascosti per tutta la campagna elettorale, perché dovrebbe cedere proprio ora che ha vinto?

Mai nella storia degli Stati Uniti era stato eletto un presidente così ricco. Le proprietà immobiliari di Trump coprono 25 Paesi in quattro continenti. Sul suo impero non tramonta mai il sole. Ci sono gli alberghi, da New York a Washington, da Las Vegas a Manila. I golf club, dal New Jersey alla Florida, dalla Scozia a Los Angeles. I palazzi per uffici e i condomini residenziali. I progetti immobiliari faraonici dal Sudamerica all’India, dalla Georgia al Giappone. I casinò, i resort. I diritti sul concorso Miss Universo, su programmi tv come The Apprentice. E perfino una flotta di sei fra elicotteri e aerei, tutti col gigantesco nome “Trump” dipinto sulle fiancate.

I residenti della Trump Place di Manhattan sono riusciti, dopo l’elezione, a far togliere le lettere dorate del suo cognome che sovrastavano la loro entrata. Otto newyorkesi su dieci gli hanno votato contro l’8 novembre. Ma altri condomini dei suoi grattacieli di lusso, per esempio quello nero altissimo di fronte all’Onu, sono fieri di avere comprato da lui.

Negli anni 50 un affittuario di suo padre a Brooklyn gli dedicò una canzone, Old Man Trump, definendolo uno «sporco speculatore». Era un veterano di guerra: Woody Guthrie, padre artistico di Bob Dylan. Dopo le case in convenzione, Trump senior e il figlio fecero il grande balzo in avanti nel 1980 con la Trump Tower sulla Quinta avenue. Donald ebbe un’idea geniale: per costruire più in alto rispetto ai palazzi vicini, acquistò i diritti di edificazione dall’adiacente negozio di Tiffany. Ne fu tanto orgoglioso da battezzare Tiffany la secondogenita. Oggi la Trump Tower vale quasi mezzo miliardo di dollari.

Fra le sue 144 società Trump ha dal 2010 anche il Central Park Carousel, l’iconica giostra vintage ribattezzata ‘Trump Carousel’, che incassa 586mila dollari annui, e l’altrettanto famosa pista di pattinaggio sul ghiaccio nel cuore del polmone verde di Manhattan, il Wollman Rink (8,7 milioni di incassi l’anno).

Da questo impero ora Trump dovrà staccarsi, per non rischiare conflitti di interesse. Compito difficile, perché i suoi tre figli maggiori sono coinvolti ai massimi livelli (come vicepresidenti) nel business di famiglia.

Di Trump Tower se ne contano a decine in tutta America ma anche all’estero: Istanbul, Dubai, Mumbai, Seul, Panama, Toronto, Vancouver. Anche in Messico. Sono comunque le attività di New York alla base di almeno il 66% della ricchezza di Trump, con il 64% del giro d’affari generato dal settore immobiliare. La sede dell’organizzazione è nella Trump Tower, 30 piani sotto il suo attico da 3mila metri quadri (che da solo vale 50 milioni).

Gli altri palazzi Trump più famosi a Manhattan sono il 40 Wall Street, storico edificio del 1930 fra i più conosciuti dello skyline con il suo tetto spiovente azzurro, acquistato nel 1995; il Trump International Hotel di Columbus Circle, nell’angolo sud-ovest di Central park, che agli ultimi piani ospita anche appartamenti privati, fra cui l’attico da 500 mq. venduto due anni fa per 33 milioni (66mila dollari a mq); il Trump Park Avenue all’angolo con la 59esima Strada, storico ex hotel Delmonico che ospitò i Beatles nel loro primo tour Usa del 1964, trasformato in condominio, comprato e ristrutturato 15 anni fa da Trump, il quale ne conserva 23 appartamenti che affitta a canoni stratoferici (fino a 100mila dollari mensili).

Altri ex hotel di Trump a New York sono il Barbizon, a Central Park South, e il 610 Park Avenue (ex Old Mayfair), acquistato vent’anni fa assieme al gruppo Colony Capital di Tom Barrack (proprietario della Costa Smeralda per dieci anni, fino al 2012); l’ultimo nato, il condo-hotel Trump Soho, aperto nel 2010, unico edificio del quartiere alto il triplo degli altri, non si sa in base a quali favoritismi.

D’inverno Trump, come molti paperoni di New York, fugge al caldo di Palm Beach in Florida. La sua proprietà a Mar-a-lago da 250 milioni e 10mila mq. ha 126 stanze e una storia curiosa. Fu costruita negli anni 20 da una eccentrica miliardaria che poi la cedette al governo federale, con la clausola (mai rispettata) che fosse destinata a residenza dei presidenti Usa.

Venne comprata nel 1985 da Trump come residenza privata fino al 1995, quando la converti in un club privato di lusso. Perciò costruì piscina, salone di bellezza, spa, campi da tennis e da croquet.
Solo oggi la volontà della vecchia miliardaria viene rispettata, per uno scherzo del destino.

A Washington è stato appena inaugurato l’ultimo Trump hotel, nell’ex palazzo centrale delle Poste. Sta al numero 1100 di Pennsylvania Avenue, a metà strada fra la Casa Bianca e il Congresso. Se qualche suo ospite si troverà nella capitale per incontrare membri di uffici governativi (come capita alla metà di chi va a Washington), ecco delinearsi un bel conflitto d’interesse con Donald, che del governo è il capo. Gli avvocati democratici non vedono l’ora di sollevare cause.

Ma l’hotel Trump più alto degli Stati Uniti sta a Chicago: con i suoi 423 metri è il quarto grattacielo d’America, superato solo dall’One World Trade Center (ex Torri Gemelle) e dal 432 Park Avenue di New York (finiti l’anno scorso) e dalla Willis Sears Tower di Chicago. È costato 1,2 miliardi di dollari, la quota di Trump era il 10%.

Mauro Suttora 

Thursday, November 17, 2016

parla Riccardo Mazzucchelli, secondo marito di Ivana Trump

Donald Trump conserva ottimi rapporti con le due ex mogli, e ha coinvolto tutti i figli nella sua avventura politica. Da tenere d’occhio soprattutto il giovane genero Kushner

di Mauro Suttora

New York, 17 novembre 2016



«Incontravo Donald nell’ascensore della Trump tower a Manhattan. Io andavo all’ultimo piano, nell’attico dove viveva Ivana, la sua moglie separata. Lui si fermava prima, nell’appartamento dove stava dopo la separazione.
Ci salutavamo, avevamo rapporti cordiali, ma a un certo punto gli dissi: “Senti Donald, io amo la tua ex moglie, però vedo che avete buoni rapporti e che siete ancora molto legati dai vostri tre figli piccoli, Donald junior, Ivanka ed Eric. Quindi dimmelo subito, perché fra sei mesi sarà troppo tardi: se pensi che fra voi possa esserci una riconciliazione, io mi ritiro in buon ordine. Non voglio rovinare una famiglia”».

Riccardo Mazzucchelli, 73 anni, racconta a Oggi i suoi incontri ravvicinati del 1991 con Donald Trump, nuovo presidente degli Stati Uniti.
«Lui, sempre gentile, mi rispose: “No problem Riccardo, go ahead”». Vai avanti.

Così Mazzucchelli, businessman internazionale che oggi vive a Spalato (Croazia), divenne il secondo marito di Ivana Trump (il terzo, Rossano Rubicondi, ha confermato la passione della signora per gli italiani, così come il suo successivo fidanzato, Marcantonio Rota).

E Trump, dopo aver liquidato sontuosamente Ivana, sposò l’attricetta americana Marla Maples dopo anni di clandestinità. Leggendario rimane lo scontro fra la moglie Ivana e l’amante Marla su una pista di sci ad Aspen (Colorado) nel 1990.

Nel ’97, quasi contemporaneamente, Ivana divorziò da Riccardo e Donald da Marla. Il paperone newyorkese aveva incontrato la terza moglie Melania, confermando la propria passione per le slave.

Trump e le donne. Lui si vanta di conquistarle tutte grazie ai suoi soldi. Non va lontano dal vero, ma per questa ovvietà è stato crocifisso: maschilista. Eppure le sue ex mogli continuano ad avere ottimi rapporti con lui: Ivana ha sposato Rubicondi nel favoloso palazzo trumpiano di Mar-a-Lago in Florida, Marla non ha più pubblicato il libro contro Donald annunciato con la fanfara.

Entrambe gli hanno dato l’endorsement pubblico per la candidatura, e imperversano sui reality tv. Dopo The Apprentice che ha reso Donald un eroe tra i giovani, Ivana ha condotto il Grande Fratello Usa. E questa primavera Marla ha ballato con le stelle.

Fosse stato per lui, dopo la Convention repubblicana le avrebbe invitate anche sul palco della vittoria l’8 novembre, come un patriarca magnanimo. A Tiffany, 23enne unica figlia di Marla, ha appena regalato una casa nel quartiere più esclusivo di New York, l’Upper East Side, per la sua laurea alla Penn University (in quella Pennsylvania ex democratica che ha inopinatamente conquistato).



Ma a fare la parte del leone sono i tre figli di Ivana. Il miliardario ha annunciato che lascerà loro tutte le sue società, in un blind trust per evitare il conflitto d’interessi. E già molti avevano storto il naso per questa successione familiare assai poco blind (cieca).

Poi è arrivato l’incredibile annuncio: i tre trentenni sono tutti imbarcati nel Transition team, la squadra che sceglierà i ministri e gli altri 4 mila nuovi dirigenti che governeranno gli Stati Uniti. Un rinnovamento gigantesco, perché Trump è totalmente estraneo alla politica. E Ivanka farà politica come e più della matrigna Melania, splendida First Lady.

C’è posto anche per i generi, nella tribù Trump. Ricordatevi questo nome: Jared Kushner. Marito di Ivanka, pure lui come Donald figlio di un costruttore edile (condannato per evasione fiscale, finanziamenti illegali a politici e subornazione di testimoni), a 25 anni ha comprato il settimanale New York Observer per 10 milioni di dollari: «Li ho guadagnati vendendo case durante l’università ad Harvard». È stato uno dei cervelli del trionfo elettorale, per amor suo Ivanka si è convertita all’ebraismo. Conterà molto nella Casa Bianca.

Negli Anni 30 la mamma di Donald Trump approdò in America come emigrante dalla Scozia. Era poverissima: possedeva solo i vestiti che indossava. Trump senior, figlio di un immigrato tedesco, manifestava a New York col Ku Klux Klan contro gli immigrati italiani cattolici fascisti che minacciavano la supremazia degli anglosassoni protestanti come lui.

Il loro figlio un anno fa era dato al 2 per cento di possibilità di diventare presidente. Qualunque cosa si pensi del tycoon coi capelli arancioni, un altro sogno (o incubo) americano si è avverato.
Mauro Suttora