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Monday, June 12, 2023

L'ultimo sfregio a Berlusconi: per i liberal di Manhattan era solo uno showman



Difficile, per i sussiegosi democratici americani, accettare un fenomeno come il Cavaliere. Ma anche i repubblicani pre-Trump, gli eleganti rockefelleriani trincerati nei loro grattacieli miliardari di Park Avenue, lo consideravano un pittoresco parvenu. Al massimo un "media mogul turned politician"

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 giugno 2023 

Un ultimo sfregio: il New York Times, annunciando la morte di Silvio Berlusconi, lo ha definito "showman" e non politico. Concedendogli solo di avere capovolto ("upended") la politica e la cultura italiane: "È stato il premier più divisivo e inquisito, ('polarizing and prosecuted')".

Difficile, per i sussiegosi liberal di Manhattan, accettare un fenomeno come il Cavaliere. Ma anche i repubblicani pre-Trump, gli eleganti rockefelleriani trincerati nei loro grattacieli miliardari di Park Avenue, lo consideravano un pittoresco parvenu. Al massimo un "media mogul turned politician". Con l'aggravante di controllare un impero mediatico impensabile negli Usa, dove sarebbe stato subito spezzettato dalle leggi antitrust.

"Mauro, ma sei sicuro di quel che hai scritto?", mi telefonò Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, nella calda estate 2004, quella della bandana con Tony Blair a Porto Cervo. Gli avevo mandato un articolo sulle ultime imprese e gaffes berlusconiane. Gli inflessibili fact checkers del settimanale controllarono le mie parole una a una, sospettando che avessi esagerato.

Stessa diffidenza l'anno precedente, quando Newsweek titolò un altro mio resoconto divertito dalla Sardegna chiamandolo Mr. B, e parificandolo a Flavio Briatore, Gigi Buffon e Tom Barrack, il trumpiano Usa che aveva appena comprato tutti gli hotel di lusso della Costa Smeralda.

Nel settembre 2003 Silvio accompagnò a New York una delegazione di Confindustria, ma il Council on Foreign Relations (massimo luogo d'incontro dei poteri forti statunitensi) lo snobbò: non lo invitò a tenere una conferenza nella sua prestigiosa sede, come invece faceva con qualunque premier del mondo di passaggio in città. 

Berlusconi fu dirottato verso la Borsa, dove fece inorridire i perbenisti con una delle sue leggendarie battute: "Venite a investire da noi, perché oltre al bel tempo e alla bellezza dell'Italia abbiamo anche bellissime segretarie". Alla sera, cena di gala al Plaza. I giornalisti italiani al seguito cercavano di avvicinarlo per carpire qualche sua frase in esclusiva. Conoscendo le sue abitudini, mi appostai in cucina. E immancabilmente riuscii a incontrarlo, perché nel dopocena venne a complimentarsi col cuoco e i camerieri.

Stesse scene simpatiche al G8 di Genova nel 2001. Era la prima volta che Berlusconi incontrava il presidente George Bush jr, entrambi neoeletti. Fu commovente incrociare il nostro premier nelle ore prima del vertice, mentre controllava ansioso di persona ogni piccolo dettaglio, dalle piante di limone in vaso che adornavano il porto riprogettato da Renzo Piano, alle forme di formaggio grana per sfamare giornalisti e delegazioni. "Ti è piaciuto il prosciutto crudo di Parma?", chiese a Bush afferrandolo affettuoso per un braccio. Gli americani educati a Yale detestano qualsiasi contatto fisico. Ma fra loro fu subito amore. 

E Silvio avrebbe voluto allargare questo idillio trasformandolo in una chose à trois con l'amico Vladimir Putin l'anno dopo nel vertice a Pratica di Mare (Roma). Ma la sua geniale idea di far entrare la Russia nella Nato non ebbe fortuna. Tipico di Berlusconi, voler conquistare gli avversari con la seduzione. Contrariamente al complesso militare-industriale, detestava avere nemici. Con Barack Obama invece fu subito gelo: qualcuno gli riferì la definizione di "abbronzato", incomprensioni su Gheddafi, e il Cavaliere tornò fra i fenomeni folkloristici.

La vendetta della storia si è abbattuta sulle schizzinose élite di Washington con la vittoria di Donald Trump nel 2016. L'epitome del populista peronista si è trasferita da Berlusconi a quell'altro buffo outsider dai capelli arancioni. Stessa fortuna accumulata con le costruzioni, stesso successo televisivo, stessa passione "womanizer" per le belle donne, con incursioni al confine del dubbio gusto.

E adesso, con le due incriminazioni di Trump, ecco che li accomuna anche il calvario giudiziario: perché in inglese "prosecution" (messa in stato di accusa) si confonde con "persecution". E Donald, proprio come Silvio, ha già cominciato a sfruttare le sue disavventure con la legge, ribaltandole contro chi lo considera un mascalzone. Sperando di indossare anche lui l'aureola di martire, così utile per farsi rieleggere.

Ma quanto a stile, la burina Trump Tower non è la verde Milano 2. E, soprattutto, Silvio era più simpatico e buono di Donald. 

Monday, September 28, 2020

Donald Trump, uomo di successo sempre sull'orlo del baratro

Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto. Idem nella sua incredibile carriera politica, al bivio del 3 novembre

di Mauro Suttora

Huffington Post, 28 settembre 2020
 

Nel 2017 un lavoratore single senza figli negli Usa con salario di 18mila dollari ne ha pagati 760 in imposte federali sul reddito. Più del suo presidente miliardario, Donald Trump, che in quell’anno ne ha versati 750. E che, stando ai documenti pubblicati dal New York Times, ha evaso o eluso ben 400 milioni di dollari negli ultimi vent’anni.

A stabilire se Trump abbia commesso reati e scorrettezze sanzionabili (con 200 milioni, stima il NYTimes) sarà il temibile Irs (Internal revenue service), l’Equitalia statunitense. Famoso per la sua velocità: negli Usa si dichiarano i redditi entro il 15 aprile, e dopo soli due mesi arriva a casa l’assegno se si risulta a credito, o la cifra da pagare se i controlli decidono che si è in debito. In Italia occorre un tempo trenta volte superiore: cinque anni. 

L’Irs è anche severo: gli evasori negli Usa finiscono in carcere, con condanne medie di 3-5 anni. Ogni anno sono circa 1.500 gli incriminati. Ma la via preferita è il patteggiamento (con multa). Su 3.500 miliardi di entrate, infatti, 14 milioni di furbetti ne evadono 130, un terzo rispetto all’Italia. Però quasi tutti preferiscono comporre amichevolmente.  

Trump invece, come al solito, preferisce la guerra. Il suo ‘audit’ (contenzioso) col fisco Usa dura da anni. Strano, data la rapidità che abbiamo illustrato. Un occhio di riguardo per il presidente? Il risultato dei favori fiscali repubblicani ai ricchi nell’era Bush junior?  

In ogni caso, è incredibile che il presidente abbia finora usato come scusa l’ispezione in corso per non rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi. È la prima volta in mezzo secolo (dai tempi del gentiluomo Richard Nixon) che un presidente Usa si sottrae a questo elementare obbligo di trasparenza.

 “Ora si capisce perché”, è stato il commento quasi unanime ieri negli Usa, dopo le rivelazioni del NYTimes: per ben dieci anni su quindici prima di essere eletto, infatti, Trump non avrebbe pagato neanche un cent di imposte. E se lo si fosse saputo, non sarebbe stato eletto.

Può anche darsi che sia permesso spacciare 75mila dollari di parrucchiere per spese detraibili, perché Donald doveva apparire nel suo show tv “The Apprentice”. Ma come farà sua figlia Ivanka a giustificare i 747.622 dollari incassati da una società del padre, quando esattamente la stessa cifra risulta pagata a un consulente anonimo per il progetto di hotel a Vancouver e nelle Hawaii?

La verità è che per tutta la vita Trump è sempre stato in bilico fra successo e fallimento. Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto, anche perché fallire negli Usa non è così grave come in Europa. 

Idem nella sua incredibile carriera politica, cominciata cinque anni fa. Sembra sempre sull’orlo del baratro, dell’impeachment, dello sputtanamento irreversibile. Invece poi rimbalza, e ce la fa a liquidare qualsiasi accusa come “fake news”. Anche perché non è escluso che quell’operaio o commessa single che paga più tasse di Trump nonostante guadagni in un anno 18mila dollari, ovvero quanto lui consuma in una sola settimana per il carburante del suo jet privato, fra un mese non voti di nuovo per lui.

Mauro Suttora

Wednesday, July 15, 2020

Se il tribalismo colpisce anche il NY Times

La responsabile degli op-ed si dimette


Mauro Suttora

15 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

Povero John Kennedy. “Un Paese che ha paura di far scegliere ai propri cittadini il vero e il falso in un mercato libero è un Paese che ha paura dei propri cittadini”, disse nel 1962 per il ventennale di Voice of America, la radio del governo Usa usata contro i nazifascisti e poi contro i comunisti.

Pensavamo tutti che gli Stati Uniti fossero il non plus ultra della libertà, e in particolare della libertà d’informazione. Invece le dimissioni quasi contemporanee di Bari Weiss dal New York Times e di Andrew Sullivan dal New York Magazine ci ricordano che gli statunitensi possono essere anche intolleranti: dalla Lettera scarlatta al proibizionismo, dal Ku Klux Klan al maccartismo.

La 36enne Bari Weiss non era una semplice giornalista del Times, né un’opinionista. Era una editor delle pagine op-ed del principale quotidiano Usa. Il quale ha l’ottima abitudine non solo di separare perfino fisicamente, in pagine e redazioni diverse, le notizie dalle opinioni (pratica per noi esotica), ma anche di distinguere i commenti fra quelli che esprimono la linea ufficiale del giornale (editoriali) e quelli aperti a qualsiasi tendenza (op-ed, appunto: open editorials).

Eugenio Scalfari ricorse alla testatina “Diverso parere” quando quasi 40 anni fa ospitò il liberale Alberto Ronchey su Repubblica, orientata a sinistra. E ogni tanto anche oggi qualche direttore affianca un proprio articolo a un altro che lo contraddice. Ma non è frequente, nell’Italia delle parrocchie contrapposte. Ammettiamolo: non siamo popperiani.

Ammiravamo per questo il giornalismo anglosassone. E invece anche per loro è arrivato il momento del “tribalismo”, come lo definisce la Weiss nella sua brillante lettera di dimissioni, che andrebbe tradotta e proposta a tutti gli opinionisti fai-da-te nei social.

Weiss, ex Wall Street Journal, era stata imbarcata dal sussiegoso Times quattro anni fa per proporre un “diverso parere” ai propri lettori, disorientati dalla vittoria di Trump. Da allora ha scritto e fatto pubblicare opinioni di destra su un giornale di sinistra. Esercizio intellettualmente stimolante (“vediamo cos’hanno da dire questi zoticoni di trumpiani”), ma neurologicamente devastante per lei. Soprattutto dopo le due recenti ondate di ‘correttezza politica’ che hanno sommerso gli Usa. O perlomeno Manhattan, dove si concentrano i lettori del Times e Trump non arriva al 20%.

Il primo tornado è stato nel 2017 il ‘Me too’: la riscossa antimaschilista dopo lo scandalo Weinstein. Anche solo sospettare che qualche attrice potesse avere usato invece che subìto il divano del produttore era impensabile. La lettera S di sessismo stava lì pronta per essere marchiata a fuoco sul grasso pancione del maiale, come Noomi Rapace in ‘Uomini che odiano le donne’.

Da due mesi invece infuria il ‘Black Lives Matter’, la riscossa antirazzista dopo l’omicidio Floyd. E una delle vittime è stato il diretto superiore della Weiss, il capo degli editoriali del NY Times spinto alle dimissioni per aver osato pubblicare l’op-ed di un senatore repubblicano favorevole all’intervento dell’esercito per fronteggiare sommosse violente.

La Weiss è stata a sua volta sommersa di tweet con ogni tipo di insulto e accusa, dall’ormai inflazionato ‘razzista’ al simpatico ‘nazista’, visto che è ebrea.

Stessa storia per Andrew Sullivan, altro storico commentatore controcorrente: vent’anni fa provocò borborigmi nei benpensanti di sinistra Usa perché proprio lui, progressista (e gay, anche se c’entra poco), appoggiò le guerre di Bush junior (come Biden, d’altronde, anche se ora non gli piace ricordarlo).

Sullivan e Weiss probabilmente ora fonderanno un sito dei senzapatria. Impresa voltairiana rischiosissima, perché sia nel giornalismo che in politica, e sia negli Usa che in Italia, vince invece il tribalismo. O di qua o di là, ciascuno nella propria tribù. Felici di sentirsi ripetere le rispettive “narrazioni” (sinonimo di fandonie propagandiste) di destra e sinistra. I politici devono farsi votare ogni quattro anni, i giornali devono farsi comprare o cliccare ogni giorno. Ma il principio è lo stesso: attirare e fidelizzare i già convinti. Così il mercato si estremizza e scompaiono, al centro, neutrali e moderati. Politicamente e commercialmente sciapi, asettici, poco interessanti.

In tv o Fox o Cnn. Nella stampa o Washington Post (di Jeff Bezos, Amazon) e New York Times (di editore puro) a sinistra; oppure New York Post e Wall Street Journal (di Murdoch) a destra.
Tertium non datur. Per certi progressisti ora il tumore alla cervice non è più prerogativa femminile, perché così si discriminano i maschi trans, ex donne. 
E secondo certi conservatori Biden è in combutta con Bill Gates per vaccinare (avvelenare) il mondo intero con la scusa del covid.

A pensarci bene, però, la sinistra Usa ha già vinto. Perché la da loro detestata Bari Weiss non si definisce di destra. Dice che è “di centro”. Quindi perfino per lei “destra” è una parola vergognosa. Non ha neppure il coraggio e l’onestà di confessare la propria tribù. Pretende di essere al di sopra delle parti. Perché in fondo anche lei è una giornalista privilegiata, addirittura pagata per distillare opinioni. Perciò irrimediabilmente radical chic, è la sentenza finale del Napalm 51 americano (di entrambe le tifoserie: contrapposte, ma simmetricamente eguali).
Mauro Suttora

Wednesday, May 27, 2020

Trump-Twitter, la guerra è appena iniziata

IL SOCIAL INVITA AL CONTROLLO DEI FATTI SOTTO UN TWEET DEL PRESIDENTE USA, E LUI S'INFURIA
di Mauro Suttora
Huffington Post, 27 maggio 2020
“Nel tempo in cui una menzogna ha già viaggiato per mezzo mondo, la verità si sta ancora allacciando le scarpe”, ha scritto ieri la commentatrice Kara Swisher in un op-ed (editoriale non redazionale) del New York Times, definendo “ingenua e inefficace” l’aggiunta di Twitter ai messaggi controversi di Donald Trump, con l’invito in una riga blu a “controllare i fatti”.
La Swisher propone invece che i tweet considerati falsi (da una giuria indipendente) vengano cancellati, come i social fanno con le fake news. Qui però si tratta del presidente Usa, che ha 80 milioni di follower e usa Twitter come suo principale mezzo di comunicazione. “Ma Trump si prende gioco senza vergogna delle regole dei social, quindi eliminare qualcuno dei suoi orrendi messaggi farà capire che certi comportamenti non sono più tollerati”, conclude la Swisher.
“Trump non ha decenza, è ora che Twitter ne mostri un po’. Finora ha tollerato i suoi messaggi in nome dell’interesse pubblico a non censurare i leader mondiali. Ma ci si può chiedere quale sia l’‘interesse pubblico’, sapendo che un uomo disturbato siede alla Casa Bianca ”, applaude Karen Tumulty sul Washington Post. Che però è il giornale nemico dichiarato di Trump.
E Twitter ha fatto imbestialire il presidente perché ha sanzionato i suoi due messaggi incriminati (sul rischio che il voto per corrispondenza sia falsato) con l’invito a informarsi proprio con link al Post e alla Cnn. Che Trump considera propalatori di fake news di sinistra, come ha subito replicato in un ulteriore tweet, contro il “Washington Post, giornale di Jeff Bezos [il miliardario proprietario anche di Amazon, ndr]”.
“Sapevamo che i giganti di Silicon Valley avrebbero fatto di tutto per interferire con le elezioni e impedire che il presidente possa comunicare con gli elettori”, commenta Brad Parscale, il capo della campagna di Trump per il voto di novembre. E dichiara guerra a Twitter: “Affidarsi ai fact checker dei media che spacciano fake news è soltanto un trucco per fornire una falsa credibilità alla propria chiara tendenza politica. Per questo da mesi abbiamo tolto a Twitter la nostra pubblicità”. In realtà Twitter non accetta più pubblicità politica.
In nome del primo emendamento alla Costituzione, la libertà di parola negli Usa è sacra. “Ma Twitter è una società privata, non un luogo pubblico”, obietta Kara Swisher. E Twitter stessa ora minimizza: “Tutti i messaggi che contengono notizie potenzialmente fuorvianti vengono etichettati, per aggiungere altre informazioni. Lo abbiamo fatto anche sul Coronavirus, per rendere più facile la ricerca dei fatti e prendere decisioni informate su ciò che appare su Twitter”, dicono Yoel Roth e Nick Pickles, i manager della ‘correttezza’ (integrity) nella multinazionale di San Francisco.
In realtà lo scontro Trump-Twitter è avvenuto, più che sulla decisione della California democratica di permettere il voto per posta (temuto dal presidente), su un tweet precedente in cui Trump insinuava che un suo avversario repubblicano, Joe Scarborough, ex deputato e oggi conduttore tv, fosse coinvolto nella morte di una sua collaboratrice nel 2001. Il vedovo della signora, furibondo, aveva chiesto a Twitter di prendere provvedimenti. Che nel suo caso non sono arrivati, ma qualche ora dopo ecco l’etichetta appiccicata a due nuovi tweet presidenziali.
“La reazione furibonda di Trump contro Twitter indica che lui e i suoi alleati repubblicani saranno ancora più aggressivi nei prossimi cinque mesi di campagna elettorale. I senatori Marco Rubio e Josh Hawley ora chiedono che a Twitter sia tolta l’immunità penale sul contenuto dei messaggi pubblicati da chiunque. Inoltre, aggiungendo avvisi sui tweet di Trump, Twitter si differenzia da Facebook, che non ha etichettato quegli stessi messaggi postati anche sulla pagina presidenziale Facebook. Ciò potrebbe mettere Twitter in una posizione più difficile del suo concorrente nei confronti dell’amministrazione”.
Mauro Suttora

Wednesday, December 07, 2016

Melania Trump in privato

di Mauro Suttora

Oggi, 7 dicembre 2016

«Ma allora siamo diventati poveri!» Questa, narra la leggenda, è la frase ironica che avrebbe pronunciato Melania Trump dopo la sua prima visita alla Casa Bianca.
In effetti, le stanze della residenza del presidente Usa non brillano per magnificenza. E certo non possono competere con i tre piani di attico e superattico per un totale di 3.000 metri quadri dove abita attualmente la coppia presidenziale.

Ma com’è nel privato la futura First Lady? Una donna arguta e dotata di senso dell’umorismo, come testimonierebbe la battuta sull’austera modestia della sua nuova dimora washingtoniana, o soltanto la terza “moglie trofeo” di un miliardario zotico, come insinuano gli avversari di Trump?
Lo abbiamo chiesto all’italiana che conosce meglio Melania e Donald: Susi Mion, signora originaria del Veneto, da dieci anni loro amica e vicina di casa nella Trump Tower di New York. Lei al 32esimo piano, loro dal 66esimo in su.

«Ho conosciuto prima Donald, per alcune questioni di condominio», ci dice la signora Mion, scovata a Manhattan dal quotidiano Libero. «Gentilissimo, ha voluto invitarmi a casa loro per presentarmi sua moglie. Così sono salita su, e mi ha accolto una giovane signora che, ho scoperto, oltre alla bellezza, possiede un dolce sorriso, eleganza e fascino».

Le vicine hanno subito legato, e Melania ha invitato Susi nella loro magione di Mar-a-Lago in Florida: «L’unico motivo per cui non ho accettato, è che temo che la mia cagnolina maltesina disturbi durante il viaggio nel loro aereo privato».

Che tipo di moglie è Melania?
«Una donna molto tranquilla, quasi imperturbabile. Le piace stare a casa, non esce molto. Direi che è la classica casalinga: cucina per Donald i piatti tipici del proprio Paese, la Slovenia, si dedica alle faccende domestiche. Uno potrebbe pensare: la bellissima ex modella capricciosa e presenzialista che passa il tempo a rompere le scatole al marito ricco con 24 anni di più. Invece è l’esatto contrario: una moglie devota. Capace di restare silenziosa, ma anche di ascoltare Donald, e soprattutto di dargli un consiglio al momento giusto. E di volare sopra le critiche, a lei e a lui».

Gli unici attacchi che Melania non sopporta sono quelli al figlio Barron. Che durante il discorso della vittoria del padre, alle due del mattino del 9 novembre, si stava quasi addormentando in piedi. Normale, per un bambino di dieci anni (anche se ne dimostra di più, è altissimo). Hanno detto che ha i sintomi dell’autismo, diffondendo video che lo proverebbero. Mamma Trump ha subito diffuso una violenta diffida del suo avvocato. Hanno dovuto scusarsi.
«Come madre Melania è affettuosa e piena di premure. Spesso accompagna il figlio a scuola, e lo va a prendere. Crea attorno a lui e a Donald quel clima di serenità che è fondamentale in ogni famiglia. Lei sarebbe anche un’abile imprenditrice, e lo ha dimostrato. Ma da anni ha deciso di dedicarsi alla famiglia. Anche molto del suo tempo libero lo trascorre a casa: invita amiche, legge, fa ginnastica pilates».

Barron frequenta una delle scuole private più costose d’America: la Columbia Grammar Prep, sulla 93esima Strada dell’Upper West Side, dall’altra parte di Central Park. Costa 45mila dollari l’anno (42mila euro), come l'università di Harvard.

Melania, contrariamente a Michelle Obama che si trasferì subito con le figlie a Washington, resterà a New York fino a giugno, per non far cambiare scuola a Barron durante l’anno scolastico. Con relativi brontolii dei genitori degli altri alunni, in un quartiere che ha votato Hillary Clinton al 90%: «All’ultima riunione di classe gli agenti dei servizi segreti ci hanno bloccato l’ascensore, siamo dovuti salire a piedi!».

«Ma Melania è tutt’altro che arrogante», assicura Susi Mion, «anzi la definirei timida: non urla mai, non eccede. Riesce ad avere un ottimo rapporto anche con Ivanka e gli altri figli di Donald». 
Il che non è facile, poiché la differenza d’età con loro è di pochi anni, e Ivanka non è la più mansueta delle creature.

Insomma, signora Mion, lei ci dipinge Melania come una donna praticamente perfetta.
«Ma se è vero, perché dovrei mentire? Guardi, un anno fa, all’inizio della campagna elettorale, il New York Times mi intervistò con altri vicini di casa. Chiesi l’anonimato, e dissi questa frase: “Se Trump ha scheletri nell’armadio, la Clinton ne ha il doppio”. Ma il giornale mi identificò come una “signora con la maltesina”. Il giorno dopo Donald mi mandò un biglietto di ringraziamenti».

Quindi neanche un punto debole in Melania? 
«Senta, quant’è bella lo vedono tutti. In più è intelligente e simpatica. Posò senza vestiti da modella? Meglio lei nuda che Hillary vestita. Con le altre donne non è competitiva, anzi è solidale e garbata. Parla sei lingue: sloveno, serbo, inglese, italiano, tedesco, francese. Se la si conosce la si ama. Piano piano conquisterà il cuore di tutti. Sarà una splendida First Lady».
Mauro Suttora

Wednesday, December 21, 2011

Cattelan: trionfo a New York

LA PERSONALE AL GUGGENHEIM

di Mauro Suttora

Oggi, 14 dicembre 2011

Grande successo per la mostra retrospettiva personale di Maurizio Cattelan al museo Guggenheim di New York (fino al 22 gennaio). Nonostante la stroncatura del critico del New York Times l’affluenza di pubblico è tale che gli orari serali sono stati prolungati di due ore per tutti i lunedì e martedì, fino a dopo Natale.
Le Monde il 2 dicembre ha definito l’artista padovano «santo patrono dei sovversivi», e lo colloca con Jeff Koons (ex marito statunitense di Cicciolina), l’inglese Damien Hirst e il giapponese Takashi Murakami nell’olimpo dei quattro maggiori artisti contemporanei.
● 130 opere di Cattelan sono appese dal soffitto dell’edificio costruito 50 anni fa da Frank Lloyd Wright. L’effetto è giudicato strabiliante.
● L’ultimo artista italiano che ebbe l’onore di una mostra personale al Guggenheim fu, nel 1999, Francesco Clemente
della Transavanguardia.

Wednesday, February 09, 2011

Assange aspetta il verdetto

Julian agli arresti domiciliari in inghilterra attende la sentenza sull'estradizione

Ha fatto tremare il mondo con le sue rivelazioni on line. Il dittatore della Tunisia è caduto anche grazie a lui. Ma ora il capo di Wikileaks teme un processo in Svezia. E intanto...

di Mauro Suttora

Oggi, 5 febbraio 2011

Il 7 febbraio il tribunale di Londra decide se estradare Julian Assange in Svezia. Il capo del sito Internet che rivela i segreti di Stato è accusato di molestie sessuali da due sue ex ammiratrici di Stoccolma, che lo hanno denunciato nonostante fossero andate volontariamente a letto con lui.

Dopo aver assaggiato il carcere di sua maestà, mister Wikileaks si trova da due mesi agli arresti domiciliari nella campagna inglese. Lo ospita nella propria tenuta di campagna un suo ricco fan, che lo aveva nascosto quando Assange era ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Ora il turbolento Julian, come si vede da queste foto, ha molto tempo a disposizione. Che impiega anche dando da mangiare alle galline nel pollaio, e rispondendo alle cartoline di auguri che gli arrivano dagli ammiratori. Niente di più lontano dall' immagine dell'hacker, del pirata supertecnologico circondato da fili e computer, che si era costruito finora.

Intanto, la guerra continua. Wikileaks, infatti, è stata colpita dalle società che raccoglievano le donazioni per finanziarla: su richiesta del governo statunitense, Visa, MasterCard, Paypal e Amazon hanno bloccato i flussi di denaro. Subito è scattata la vendetta degli hacker. Cinque di loro, giovanissimi (dai 15 ai 26 anni), sono stati arrestati in Gran Bretagna pochi giorni fa per una serie di attacchi informatici contro i siti «traditori». Sono accusati di appartenere al cyber-commando Anonymous, che ha compiuto assalti on line da diversi computer contemporaneamente, diffondendo un virus. Hanno bloccato anche il sito del governo svedese, colpevole di volere l'estradizione di Assange. Ora rischiano una condanna fino a 10 anni di carcere e 6 mila euro di multa. E il mese scorso anche in Olanda sono stati arrestati due adolescenti con accuse analoghe.

Intanto, le rivelazioni di Wikileaks hanno prodotto i primi effetti concreti. La rivolta popolare che ha cacciato il dittatore tunisino Ben Ali è stata provocata anche dalla diffusione delle frasi crude che l'ambasciatore americano a Tunisi aveva usato nel telex segreto di un suo rapporto a Washington: «Qui la famiglia del presidente è come una mafia, ruba e si appropria di tutto».

Sono tanti i governi, compreso quello italiano, messi in imbarazzo dalla pubblicazione di tutta la corrispondenza diplomatica riservata degli Usa. Perfino le «feste selvagge» di Silvio Berlusconi non sono sfuggite ai diplomatici americani, i quali ne avevano scrupolosamente riferito al Dipartimento di Stato (il loro ministero degli Esteri).

Denudata la diplomazia confidenziale del mondo intero grazie all'aiuto del soldatino ventenne americano Bradley Manning (che gli ha passato i documenti e ora rischia decine di anni di carcere per alto tradimento), Assange ha compiuto la sua mossa più intelligente. Ha offerto tutto lo scottante materiale ai giornali più prestigiosi del mondo( New York Times, Guardian, Spiegel, Le Monde, El Pais), rendendoli di fatto suoi complici.

Adesso il direttore del New York Times, Bill Keller, ha svelato i retroscena del suo rapporto con Assange. Mesi di lavoro segreto, i dubbi su cosa pubblicare e cosa no, le proteste dei lettori, alcuni dei quali contrariati dalle rivelazioni di documenti top secret. «Dall'odore, sembrava che non si fosse lavato da giorni», ha raccontato il direttore del New York Times. Poi la sua trasformazione in una celebrity che si comporta da grande seduttore e si descrive come il «grande burattinaio» della stampa. Keller rivela che Richard Holbrooke, il compianto plenipotenziario Usa in Iraq e Afghanistan morto da poco, a una festa gli aveva sussurrato che le indiscrezioni che il giornale stava per pubblicare avrebbero reso quasi impossibile il suo lavoro. Ma gli fece anche capire di comprendere le ragioni della stampa libera.

E ora le banche svizzere

Per Keller, Assange è «un Peter Pan imbevuto di teorie cospirative, arrogante, diffidente fino alla paranoia, ideologicamente motivato dal desiderio di colpire gli Usa. Somiglia a un personaggio dei thriller di Stieg Larsson». Adesso Assange minaccia di rivelare i segreti delle banche svizzere, con i nomi di tutti i miliardari evasori fiscali del mondo. Dice di possedere documenti segreti contro Rupert Murdoch, il magnate delle tv Sky e Fox. Presto Hollywood farà un film su di lui. Sarà la sua consacrazione definitiva.

Mauro Suttora

Wednesday, December 22, 2010

La guerra mondiale di Wikileaks

Ecco perché i corsari informatici sono forti e imprendibili

di Mauro Suttora

Oggi, 15 dicembre

È scoppiata la terza guerra mondiale e non ce ne siamo accorti? Da quando, il 28 novembre, Wikileaks ha cominciato a svelare i 251 mila cablogrammi segreti inviati negli ultimi anni dai diplomatici degli Stati Uniti in tutto il mondo, ogni giorno scoppia un putiferio. Perché, molto furbamente, i seguaci di Julian Assange hanno deciso di centellinare le rivelazioni. L’ultima, che ha provocato grande costernazione in Vaticano, riguarda il segretario di Stato Tarcisio Bertone, numero due del Papa, definito «inadeguato» dai diplomatici americani. Ma molti altri imbarazzanti segreti verranno alla luce nelle prossime settimane: basti dire che finora sono stati pubblicati appena 1.340 documenti sul quarto di milione in possesso dei pirati informatici.

“Pericolosi come Osama”

Ma come funziona Wikileaks? E chi c’è dietro a questi «guerrieri della trasparenza» che il ministro degli Esteri Franco Frattini ha definito «pericolosi quanto Osama Bin Laden»? Diciamo subito che, proprio come Al Qaeda, la struttura di Wikileaks è decentrata. Si illudono, quindi, coloro che pensano di bloccarla incarcerando il capo, Assange, o chiudendo fisicamente i computer. I due server ospitati a Stoccolma nel bunker antiatomico della società Prq, infatti, sono solo una goccia nel mare di internet.

Qualche nostro tg li ha mostrati, spacciandoli per il «cervello» di Wikileaks. Ma è solo sensazionalismo. Quella stessa società, infatti, ospita altri 8mila server. E Wikileaks può contare su centinaia di «siti-specchio» che entrano automaticamente in funzione appena ne viene disattivato uno. Lo stesso Assange ha avvertito: «Altre centinaia di militanti, oltre a me, posseggono l’intero file di 251 mila documenti, e lo rilasceranno se dovesse capitarmi qualcosa».

“Contenuto esplosivo“

Ma qual è il vero valore di questi documenti segreti? È vero che riscrivono la storia contemporanea, o sono soltanto una rimasticazione di articoli di giornale copiati da pigri incaricati di affari nelle ambasciate? In alcuni casi il contenuto è esplosivo, e quindi e' giusto il paragone con una guerra mondiale. Non però la terza: quella è già stata vinta dall’Occidente contro il comunismo nel 1989. E neanche la quarta, cominciata nel 2001 con l’attacco alle Torri gemelle da parte dei fanatici islamici, e ancora in corso. È la quinta o sesta, assieme all’altro grande conflitto dei nostri giorni: quello fra mondo libero e Cina.

Però i ragazzi di Wikileaks sono occidentali, quindi la definirei una guerra civile, anche se nonviolenta. È un conflitto interno alle democrazie, fra chi pensa che anche i nostri stati debbano conservare segreti, e chi invece vuole esporre tutto.

Non dimentichiamo però che fra i fondatori di Wikileaks, nell’ottobre 2006, ci sono anche importanti dissidenti cinesi: Wang Dan, leader degli studenti di Pechino massacrati in piazza Tian an men nell’89, e Xiao Qiang. Inizialmente, quindi, l’intento di Assange e soci era quello di smascherare i segreti di tutti i governi. Ed è ovvio che le dittature ne hanno molti di più, e più sanguinosi, dei regimi democratici.

Perché, allora, quasi tutte le rivelazioni finora riguardano gli Stati Uniti? Prima ci fu il filmato in cui si vedono le truppe Nato uccidere un giornalista in Afghanistan. Poi, l’estate scorsa, i documenti del Pentagono con l’ammissione ufficiale di avere ammazzato 60 mila civili innocenti nella guerra d’Iraq. E se dietro Wikileaks ci fosse la Cina o la Russia, o qualche altro avversario degli Usa?

Non credo che gli hackers di Wikileaks siano manipolati. Politicamente sono anarchici che si battono contro il potere a 360 gradi. Hanno già preannunciato rivelazioni sulle grandi banche. E se avessero documenti segreti cinesi sulla repressione in Tibet o contro Falun Gong, non esiterebbero a divulgarli. Il problema è che finora non c’è stato nessun funzionario pentito di Pechino che gliel’ha passati.

Sì, perché in realtà Wikileaks non ha mai rubato alcun documento. Si limita, come da statuto, a pubblicare, dopo averli verificati, quelli in arrivo (gratis) da persone che per un qualsiasi motivo decidono di tradire il vincolo di segretezza che li lega all’organizzazione per cui lavorano. Quindi, il vero colpevole dell’attuale terremoto è il soldato americano 22enne che ha passato i files ad Assange, e che è in carcere per spionaggio.

Giuridicamente, Wikileaks è colpevole di un unico reato: ricettazione. Magari di ricettazione attiva, o di istigazione al furto e allo spionaggio, perché invita pubblicamente i dipendenti pentiti a rivelare le magagne della propria azienda, o ministero. E si può immaginare quanti siano coloro disposti a farlo, magari per vendicarsi di essere stati licenziati, o frustrati per una mancata promozione o aumento di stipendio... E sapere che c’è lì Wikileaks pronta a fare giustizia rappresenta un incentivo formidabile.

Coinvolgere i principali giornali mondiali è stata la mossa più intelligente di Assange. Li ha coinvolti - ed è preoccupante che ce ne sia uno spagnolo, El Pais, ma nessuno italiano - ottenendo così una patente di veridicità che non avrebbe avuto da solo. Li ha anche messi uno contro l’altro, suddividendo equamente il materiale. Cosicché, per la legge della concorrenza, nessuno si è sognato di censurare parzialmente o di non pubblicare: lo avrebbe fatto qualcun altro.

Il direttore del New York Times Bill Keller ha fatto vedere i documenti al governo Usa prima di pubblicarli, e ha cancellato alcuni nomi. Il NY Times è il più esposto, perché è l’unico giornale americano. Ma, a proposito di mandanti, non mi meraviglierei se dietro alla fuga di notizie più imponente della storia ci fosse qualche repubblicano che vuole danneggiare il presidente Obama e Hillary Clinton.

Mauro Suttora

Thursday, September 10, 2009

Italia seconda al mondo nell'export di armi

CLAMOROSO: PER LA PRIMA VOLTA SUPERIAMO RUSSIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA, CINA E GERMANIA. IMBARAZZO A SINISTRA

di Mauro Suttora

Libero, 10 settembre 2009

L’Italia balza al secondo posto nella classifica mondiale delle esportazioni di armi. È questo il clamoroso dato contenuto nell’ultimo rapporto del Congresso Usa, che ogni anno calcola l’export bellico. Nel 2008 le aziende italiane (quasi tutte del gruppo pubblico Finmeccanica) hanno firmato contratti per 3,7 miliardi di dollari, più che triplicando il risultato dell’anno precedente. Siamo superati soltanto dagli Stati Uniti, che con i loro 37 miliardi controllano più dei due terzi del mercato mondiale.

Per la prima volta nella storia l’Italia supera i tradizionali Paesi esportatori: la Russia innanzitutto, che si è fermata a 3,5 miliardi rispetto agli oltre dieci del 2007. Ma anche tutti gli altri concorrenti che ci hanno sempre sopravanzato: Gran Bretagna, che nel 2007 era terza con nove miliardi, Cina (quasi quattro miliardi), Francia (1,8 miliardi) e Germania (1,5). Due anni fa l’Italia si era fermata a un miliardo, settima in classifica.

Il mercato mondiale delle armi è caratterizzato da grandi fluttuazioni di anno in anno. La firma di una singola maxicommessa per centinaia di milioni basta a ribaltare le statistiche. Ma per l’Italia l’ultimo decennio è stato in costante ascesa: dai soli 200 milioni di dollari esportati nel 2000, ai 600 del 2004, fino al miliardo e mezzo del 2005. Anche il mercato globale si è espanso: l’export bellico totale è raddoppiato dai 28 miliardi del 2003 ai 60 del 2007. Nel 2008 la recessione ha ridotto del sette per cento i fatturati, facendoli scendere a 55 miliardi. E l’Italia ha approfittato del crollo dei concorrenti per piazzarsi al secondo posto.

Nessun organo di stampa italiano ha finora dato notizia dell’exploit, riprendendo lo scoop del corrispondente militare del New York Times Thom Shanker pubblicato il 7 settembre. Eppure anche l’Herald Tribune (edizione europea del quotidiano americano) ha ripreso l’articolo tre giorni fa. L’export di armi è infatti un argomento politicamente delicato, soprattutto a sinistra. Non fa piacere agli antimilitaristi sapere che sono soprattutto aziende statali a vendere sistemi d’arma italiani nel mondo. Anche sotto il governo Prodi.

Al primo posto si piazza Agusta con nuovi contratti per oltre due miliardi di dollari (soprattutto elicotteri alla Turchia), poi Alenia con 400 milioni e Oto Melara con 260. Seguono Fincantieri (230 milioni), Simmel (220 milioni in munizioni e spolette) e Iveco (160). Poi ancora aziende Finmeccanica: Selex (140 milioni) e Galileo Avionica (60). Infine Avio, Microtecnica e Selex Communications.

Pure nel settore “armi piccole e leggere” (pistole e fucili, anche da caccia e sportivi) siamo i secondi del mondo, superati solo dagli Stati Uniti. In questo caso i dati provengono dall’Onu, e risalgono al 2006. L’Italia ha esportato per 434 milioni di dollari. I nostri principali acquirenti sono Usa e Paesi europei. Leader mondiale è la bresciana Beretta, che è anche la più antica fabbrica d’armi al mondo: 2.500 dipendenti, fatturato sui 400 milioni di euro. La sua fabbrica in Maryland (Usa) sta sfornando l’ultimo ordine di 25 mila pistole M9 per l’esercito americano.

Gli Stati Uniti rappresentano la nuova frontiera anche per Finmeccanica. Il colosso guidato da Pier Francesco Guarguaglini (60 mila dipendenti e 15 miliardi di fatturato, non solo nell’industria bellica), al terzo posto fra le aziende europee del settore difesa, lo scorso ottobre ha acquistato la Drs, società di punta del complesso militare-industriale Usa, con i suoi diecimila dipendenti e tre miliardi di fatturato. È diventata così la prima al mondo per le tecnologie con i raggi infrarossi, sempre più utilizzate sui campi di battaglia.

Insomma, nel panorama di crisi dell’industria metalmeccanica italiana (meno 30 per cento nel primo semestre 2009), le fabbriche di armi lavorano a pieno ritmo. In totale, il nostro settore bellico produce per sette miliardi e mezzo di euro annui (metà per l’estero, metà per le nostre forze armate) e dà lavoro a 50 mila persone.

Mauro Suttora

Thursday, January 20, 2005

Famiglia cristiana sgozzata nel New Jersey

L'AMERICA TEME UN CASO VAN GOGH

Gli Armanious erano egiziani copti di Luxor. Il padre aveva contraddetto in internet alcuni fanatici islamici

da New York, Mauro Suttora

Il Foglio, 20 gennaio 2005



Siamo a Jersey City, la seconda città del New Jersey, lo stato più industrializzato d'America. Villette di legno in stile Soprano, la serie tv sui mafiosi nei sobborghi di New York. Immigrati, operai, milioni di pendolari che ogni mattina attraversano il fiume Hudson, vanno a Manhattan per farla funzionare, ma alla sera devono tornare in periferia perché non hanno i soldi per permettersela: "Living for the City", cantava Stevie Wonder trent'anni fa.

Comunque un sogno per la famiglia Armanious, immigrata da Luxor (Egitto) nel 1997. Una casa verde oliva di due piani a Oakland Avenue, comprata tre anni dopo con un mutuo di 85mila dollari. Sala e due stanze da letto, una per le due figlie: Sylvia di 15 anni e Monica di otto. Nomi americani, visto che il sogno è americano. Era. Perché la famiglia Armanious è stata sterminata, in perfetto stile Charles Manson. O Al Zarkawi, dato che il metodo è stato lo sgozzamento.

Da due giorni nessuno li aveva più visti uscire di casa. Non rispondevano al telefono. Il cognato Ayman Garas, preoccupatissimo, è andato a vedere di persona cos'era successo, verso mezzanotte di giovedì scorso, ma non è riuscito a entrare: porte e finestre chiuse. Così si è precipitato in commissariato e alla fine ha convinto i poliziotti a sfondare la porta principale, verso le quattro del mattino. 
Man mano che avanzavano nella silenziosa casa dell'orrore, uno spettacolo atroce: i corpi delle quattro vittime, uno dopo l'altro. Prima Hossam Armanious, 47 anni, legato, imbavagliato e con la gola tagliata nella stanza da letto matrimoniale al piano terra. Poi sua moglie Amal Garas, di dieci anni più giovane, nella stanza vicina: stesso rituale di morte, anche lei in una pozza del proprio sangue ormai raggrumato. Infine Sylvia, nella sua camera da letto, e la piccola Monica, trovata nel bagno dov'era riuscita a scappare.

Il signor Armanious lavorava all'università di Princeton, sua moglie alle poste di Kearney. La loro casa aveva ancora le luci e le ghirlande rosse di Natale. Perché la famiglia Armanious era di religione cristiana. Copti d'Egitto, come il dieci per cento dei loro connazionali. Rapporti abbastanza buoni con i musulmani, un ministro degli Esteri (Boutros Boutros Ghali) diventato poi segretario dell'Onu. Ma con scontri periodici, soprattutto negli ultimi tempi: "Non pochi di noi sono emigrati in America anche per sfuggire alle persecuzioni religiose", dicono i copti del New Jersey.

Ma qui comincia la seconda parte della storia. Quella politica, o religiosa. Perchè leggendo i due maggiori quotidiani di New York, il Times e il Post, si ottengono due versioni totalmente differenti. Il Times da sei giorni continua a trattare la vicenda come un semplice fattaccio di cronaca nera da periferia. Lunghi resoconti nelle pagine interne, ma mai un richiamo in prima pagina e nessun riferimento, nei titoli, sommari e didascalie, a un possibile movente religioso della strage. Che invece viene urlato a gran voce da tutti i fedeli della comunità copta di Jersey City, i quali esasperati hanno cacciato lo sceicco islamico egiziano arrivato a presentare le condoglianze al funerale di lunedì.

"Hossam Armanious è stato ucciso perchè aveva osato contraddire dei fanatici islamici in una seguitissima chatroom religiosa su internet", accusa Rafique Iscandar, 51 anni, il migliore amico della vittima. Il New York Post crede alla pista religiosa e martedì spara in prima pagina: "Holy War", guerra santa. L'incubo di Oriana Fallaci si sta avverando nel New Jersey? Un altro sgozzamento in stile Theo Van Gogh è avvenuto a pochi chilometri da Ground Zero, moltiplicato per quattro?

La polizia è cauta. All'inizio aveva ipotizzato la vendetta di un ex affittuario della stessa casa, ma questa versione è ormai evaporata. Adesso, per esorcizzare il movente peggiore, quello di cui nessuno in America vuole sentir parlare, si sta tirando fuori la rapina, visto che dalla tasca di Armanious manca il portafogli e dalla casa qualche gioiello. Ma altri gioielli e soldi sono restati in altri cassetti, e comunque quale maniaco avrebbe inscenato una strage simile, con rituali tanto macabri quanto metodici, per i pochi denari di una famiglia di immigrati indebitati?

Ai funerali è dovuta intervenire la polizia per calmare i mille cristiani copti infuriati della chiesa di San Giorgio. Inalberando cartelli con croci nere, tutti urlavano che la famiglia è stata assassinata perchè Armanious si era esposto troppo nelle polemiche internettiane con i musulmani: "Aveva paura, ce l'aveva detto, aveva già ricevuto minacce di morte. Hanno soltanto messo in pratica quello che gli avevano promesso". 
Un copto è stato arrestato quando è salito su un'auto parcheggiata per aggredire lo sceicco Tarek Yussuf Saleh di Brooklyn, che era incautamente arrivato per calmare gli animi fra le comunità: "Siete voi i killer!", gli ha urlato, e i poliziotti hanno dovuto scortare lo sceicco in fretta lontano dal funerale.

I musulmani del New Jersey sono costernati: "Qualsiasi crimine contro i civili viola tutte le leggi delle religioni e del mondo civile", ha dichiarato Aref Assaf, presidente dell'American Arab Anti-Discrimination Committee. Ma la rabbia dei cristiani copti egiziani non si placa, e qualcuno teme che Jersey City si infiammi come negli anni Sessanta, quando la vicina Paterson venne messa a ferro e a fuoco da una violenta rivolta dei neri.

L'unica risposta, a questo punto, può arrivare dalle indagini. L'Fbi sta collaborando con la polizia locale, ma non si è impadronito del caso: segno che la pista politico-religiosa non è considerata ancora quella più probabile. Un parente della famiglia sterminata è stato traduttore nel processo contro Lynne Stewart, un'avvocatessa accusata di aver aiutato i terroristi di al Qaeda, "ma da anni non aveva contatti con Armanious", precisano gli investigatori.

Lui però il terrorismo lo conosceva bene: proprio nella sua Luxor, nel 1997, gli islamisti provocarono una delle loro stragi più sanguinose, sterminando decine di turisti in visita nei templi egizi.
Mauro Suttora

com'è andata a finire