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Thursday, February 17, 2011

Libia, intervista a Idris Al Senussi

"È UN RISCHIO ANCHE PER L'ITALIA"

Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"

di Mauro Suttora

Libero, 17 febbraio 2011

«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».

Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.

«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».

C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?

«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».

Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.

Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.

Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.

Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.

Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».

Mauro Suttora

intervista Cnn 21.2.11

Wednesday, February 09, 2011

parla il principe Idris Al Senussi

"ATTENTI, L'AFRICA È TUTTA IN FIAMME"

Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"

Oggi, 9 febbraio 2011

di Mauro Suttora

«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».

Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».

Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?

«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».

Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?

«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».

La Libia sembra tranquilla.

«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».

Che è usato anche in Egitto.

«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».

In Marocco c’è calma.

«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».

E in Libano?

«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».

Che cosa può fare l’Italia?

«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».

Si candida a tornare in Libia?

«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».

Mauro Suttora