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Monday, November 09, 2020

Quello che il virus ci sta insegnando

Costretti dalla necessità, molti si rimboccano le maniche e inventano soluzioni che rimarranno utili anche dopo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 9 novembre 2020


“Il virus ci ha costretti a fare in tre settimane quello che avremmo dovuto comunque fare in tre anni”, ha dichiarato ad HuffPost in luglio Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum. “L’80 per cento dei nostri dipendenti è andato in smart working, ma anche quando la pandemia finirà, il 60 per cento continuerà a lavorare da casa. Eliminati gli sprechi di tempo per spostarsi in auto. Molti di noi hanno scoperto programmi e app per le conversazioni video che neanche sapevamo di avere, sui nostri cellulari. Siamo tutti collegati meglio di prima, distanze annullate”.

Una ventata di ottimismo che ora è messa a dura prova dal secondo lockdown. Perché certo, molti lavori si possono fare da remoto. Ma la maggioranza no. Ci vuole la presenza fisica: esattamente quella che ci tocca di nuovo evitare per abbassare la maledetta curva del contagio, che si nutre di prossimità e assembramenti. Eppure, non tutto il male viene per nuocere. Perché anche nei campi in cui soffriamo di più (scuole, bar, ristoranti, spettacoli, trasporti, città spettrali, socialità azzerata) molti stanno inventando soluzioni che rimarranno utili anche dopo il virus.

DAD: SERVIRÀ ANCHE DOPO IL VIRUS

La famigerata Dad, la didattica a distanza. Che opportunità offre? “La Dad non è un professore che apre Zoom e si mette a parlare su un argomento. Significa utilizzare la tecnologia per coinvolgere gli studenti, farli partecipare, spingerli a creare loro qualcosa”: parola di Marco De Rossi, fondatore di WeSchool, unica piattaforma italiana tra le tre consigliate dal ministero dell’Istruzione per la Dad, e usata ogni giorno da più di un milione di studenti e insegnanti. Basta col prof che parla da remoto e che bisogna star solo ad ascoltare. Bisogna appassionare le classi, ed esistono migliaia di strumenti per riuscirci. 

I docenti ora possono portare i loro studenti online da web o app attraverso Google Drive, YouTube o Dropbox, condividendo materiali, discutendo, collaborando ed effettuando verifiche e test. Ecco le vere lezioni interattive con video, pdf, documenti Word, Excel, slide, pagine web, gallerie di immagini: su un’unica piattaforma, senza dover passare da un sito all’altro né scaricare file. Agli esercizi vero/falso e a scelta multipla si aggiungono cruciverba, videoquiz, abbinamenti di domande. E non si studia solo la rivoluzione francese o Manzoni: “Gli studenti imparano soft skills utilissimi facendo ricerche online”,  dice De Rossi,  “distinguono i siti affidabili dai fake, si esercitano a comunicare in maniera efficace, leggono i giornali”. Il lavoro in squadra sviluppa capacità di leadership, costruzione di progetti e perfino di siti web.

In Italia venti prof su cento erano ‘digitali’ già prima del virus, e non hanno avuto problemi con la Dad. Il 40% sapeva usare abbastanza il computer, mentre il restante 40% era convinto addirittura che il digitale facesse male alla didattica. Oggi 233mila professori della secondaria, più della metà del totale, sono registrati su WeSchool. “Il professore è il regista che utilizza il digitale per interagire con lo studente, il quale non può stare sei ore davanti al pc ad ascoltare le lezioni”, spiega De Rossi. “Dopo una lezione di due ore lavora a un progetto, poi agisce in team con i compagni di classe. Sempre con il prof come guida”. La Dad sarà solo una parentesi? “Non si può tornare indietro”, conclude De Rossi. “Come lo smart working rivoluzionerà il mondo del lavoro, la didattica a distanza segnerà il mondo della scuola. Naturalmente non tutta la didattica deve essere online. Ci vuole integrazione, unendo la presenza fisica al digitale, come accade già sul lavoro”. 

L’ISOLAMENTO NON DISPIACE AI GIOVANI

Ma la pandemia che effetto sta avendo sui giovani? Il 26 per cento dei 16-19enni sostiene di avere riscoperto l’importanza della libertà, e il 35% apprezza il tempo da gestire autonomamente, secondo uno studio dell’Osservatorio permanente della Link Campus University. Insomma, non la subiscono soltanto. “Altro che generazione con il cellulare sul divano, i teenager si sono reinventati”, spiega Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio, “percependo l’assenza di amici e della scuola in presenza, ma apprezzando altre cose che che prima non c’erano”.

Il 36% valuta positivamente la Dad perché serve alla preparazione scolastica (20%), ma anche perché fa capire l’importanza delle tecnologie (15%). Quasi un quarto degli intervistati dice di guardare Rai Scuola e Rai Cultura. Niente concerti, mostre, teatri,  ma uno studente su tre vede in streaming tv o web concerti e session, un altro terzo legge romanzi o poesie, e il 21% assiste a mostre, esposizioni o tour virtuali. “Insomma, i giovani utilizzano ampiamente i media per arricchire il proprio bagaglio culturale e le proprie competenze”, dice Ferrigni. “Non mi fermo, ma mi formo e mi informo: ecco quello che fanno. Dimostrano di saper utilizzare più degli adulti i social e la rete in maniera consapevole, separandola dalla sfera ludica. Usano la parte buona di Internet”.

Liberi dalla routine e da bisogni materiali, i giovani hanno fatto un uso diverso del loro tempo: “Si sono dedicati a loro stessi, ma non in senso egoistico - spiega il sociologo -. Hanno anteposto la dimensione affettiva, emozionale e relazionale a quella che è la solita dimensione materiale. Hanno riscoperto il piacere di stare con genitori, fratelli e anche con se stessi”. Già abituati a essere connessi virtualmente, per molti giovani il lockdown ha un effetto relativo. Anzi, l’isolamento risulta addirittura più confortevole, ad esempio per gli adolescenti timidi, perché le conversazioni si svolgono in maniera più controllabile. La distinzione fra offline e online, fra virtuale e reale, non è applicabile a generazioni che non conoscono altro modo di essere. La comunicazione può non avere luogo di persona, faccia a faccia, ma è pur sempre uno scambio significativo, che produce sorrisi e incrementare il benessere personale. Lo constatiamo ogni giorno, guardando i volti di giovani - e meno giovani - persi negli schermi dei loro smartphone.

RISTORANTI E BAR: MEGLIO IN PERIFERIA

E il disastro dei ristoranti? C’è chi lo dribblato, addirittura aumentando il fatturato. “Il mio l’ho convertito in delivery-friendly e con il lockdown ho incassato tra il 40 e il 50 per cento in più”, dice Gianni Catani del ristorante Dumpling bar di Roma, specializzato in cucina cinese e ravioli. “Durante il confinamento ho messo in atto una strategia a cui lavoravo da tempo: consegnare a casa piatti cotti al 95 per cento, dando la possibilità ai nostri clienti di ultimare la cottura nelle loro cucine”, ha spiega Catani ad HuffPost. “Arrivata la consegna, bastano trenta secondi in acqua bollente o al vapore per rimettere in piedi un pasto da ristorante. Vendiamo anche il cestino di cottura”. Oggi il Dumpling bar consegna tremila ravioli al giorno in tutta Roma, con una squadra interna di fattorini. “Per noi credo che questo sia il futuro in ogni caso, perché permette di tagliare le spese di un ristorante. Ma naturalmente dubito che vada bene per le trattorie tradizionali”.

Sempre a Roma, il ristorante status symbol della movida di Ponte Milvio, ‘Da Brando’, vede scendere in campo Brando Serra, il titolare, che fa un delivery molto particolare: “La cena la porto io di persona a molti miei clienti, ora che non possono più venire da me”. ‘Asporto’ è la parola magica, ma inutile nasconderselo: pochi bar e ristoranti riescono a pareggiare i conti. Il ristorante storico Camillo, in piazza Navona dal 1890, soffre l’azzeramento dei turisti internazionali che volevano ‘spaghetti meatball’ e ‘fettuccine Alfredo’. E allora Filippo e Tommaso De Sanctis hanno cercato una nuova clientela: “Siamo partiti con l’asporto, ai giovani del quartiere abbiamo proposto i primi aperitivi da portar via, il “drinketto”, e stiamo crescendo”. Il drinketto è lo spritz fatto sul momento e imbottigliato per portarlo via o berlo strada facendo. Per molti romani è la prima volta in piazza Navona, considerata finora soltanto una ‘trappola per turisti’, off limits per i ricercatori di qualità. “Ci stiamo impegnando per offrire la nostra idea di prodotto di buon livello su Piazza Navona, anche e soprattutto per i romani”. Tommaso e Filippo vogliono mantenere i nuovi clienti conosciuti durante la primavera del lockdown, e “anche quando tornerà il turismo di massa cercheremo di intercettare quelli che ora ci leggono sul Gambero Rosso”. Il nuovo menù è innovativo e “world food”: coniuga i classici della cucina romana (carbonara e cacio e pepe) a ramen e tortelli alla piastra giapponesi, e hamburger con pane e salse homemade.

A Milano piangono ristoranti e bar del centro, privi non solo di turisti ma anche degli impiegati che scendevano in pausa pranzo. Però in compenso con lo smart working si sono ripopolati i quartieri dormitorio, anche in periferia. Dove gli affitti per gli esercenti sono molto più bassi, quindi la scommessa più abbordabile. E chi lavora in casa ogni tanto ha voglia di scendere a prendere un po’ d’aria. Così il trentenne Alan dopo il primo lockdown ha aperto il bar 23 in piazzale Martini. Suo padre possiede una rinomata pasticceria a Baggio, ma lui ogni mattina attraversa la città per andare a proporre caffè e brioches dietro porta Vittoria. “Certo, la chiusura alle 18 adesso ci ha dato una mazzata quasi definitiva, cancellandoci gli aperitivi. Però io non mi arrendo, e vado avanti di asporto”. Ha piazzato un tavolino fuori dalla vetrina, e ora i passanti si fermano a prelevare i caffè nei bicchierini di cartone, e i cornetti dentro ai sacchetti di carta. “Fino a ottobre avevo installato sotto gli alberi quattro tavolini e due ombrelloni, naturalmente sono passati i vigili e mi hanno multato perché non avevo rispettato per tredici centimetri lo spazio concesso”.

CASE: BOOM DELL’EDILIZIA

E le città, sopravviveranno al covid? O lo smart working le svuoterà, facendo crollare i prezzi delle case? Secondo Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, il virus le ringiovanirà. Perché gli over 50, quelli che se lo possono permettere, si trasferiranno in piccoli centri di campagna, mare o montagna. Mentre i giovani le ripopoleranno, a cominciare dagli studenti universitari.

Le ricerche di case di campagna, rustici e casali sono aumentate del 29 per cento in primavera ed estate. Sono persone in uscita da Milano, Torino e Roma. Infatti le richieste sono più che triplicate in provincia di Brescia e Alessandria, e i prezzi delle case sono aumentati del 25% nei paesi in provincia di Roma. Il virus sta cambiando anche le caratteristiche delle abitazioni cercate sul mercato. “C’è grande domanda di immobili adeguati all’epoca di convivenza con il virus”, avverte Breglia, “quindi soprattutto case nuove, con più spazi esterni e più funzionali, visto che si vive di più la casa. A Milano a giugno e luglio sono raddoppiate le vendite di immobili di fresca costruzione. L’usato invece soffre e i prezzi scendono. Anche perché spesso bisogna ristrutturarlo”. Ci sarà, quindi, un boom dell’edilizia.

Il secondo lockdown ha provocato una fuga verso le seconde case più ordinata di quella convulsa a marzo. Passare il novembre con vista mare o lago, per chi se lo può permettere grazie allo smart working, è sembrata un’alternativa ragionevole. Ma anche molti non proprietari hanno lasciato le città. “Gli italiani questa volta non si sono fatti trovare impreparati”, dice Marco Celani, presidente di Aigab (Associazione italiana gestori affitti brevi) e ad dell’agenzia Italianway. “Le persone si chiedono: ‘Dove me lo faccio l’isolamento? A Roma, Milano, Torino, dove abito, oppure lontano dal caos cittadino?’. C’è chi si trasferisce nel paesino della nonna dove ha una seconda casa, chi torna al sud, c’è il milanese che decide di affittare un casale in Umbria o in Toscana per tre settimane (‘e se prolungano il lockdown poi vediamo’), c’è chi preferisce non allontanarsi troppo, ma vuole comunque cambiare scenario, memore della clausura di marzo e aprile”.

Italianway stima che sulle 87mila notti vendute da inizio anno, il 20% è all’insegna dell’holiday working: ciò significa che ben 17.400 prenotazioni sono state effettuate da persone che intendevano unire lavoro da remoto e soggiorno in un luogo piacevole. Un fenomeno che mitiga la crisi di agriturismi e b&b. Anche perché i prezzi sono bassi, e vivere fuori dalle grandi città costa meno: “Abbiamo registrato un boom di mete secondarie, dove le tariffe sono convenienti: Abruzzo, Marche, il paesino montano dove nessuno prima d’ora pensava di andare. E ci si organizza insieme ad altre persone: così i costi possono essere divisi”.

SMART WORKING PER SEMPRE?

Ma davvero lo smart working svuoterà per sempre del 60% i nostri uffici, come alla banca Mediolanum? “Conviene a tutti, al datore di lavoro e al dipendente. C’è un risparmio da entrambe le parti. Gli unici che ci perdono sono bar e ristoranti, tutto l’indotto intorno ai luoghi di lavoro”, dice ad HuffPost il manager Pier Luigi Celli, ex presidente Luiss e Rai, consigliere d’amministrazione Illy e Unipol. Il lavoro da remoto taglia gli affitti degli uffici e le spese di servizio mensa, pulizie, illuminazione, riscaldamento e telefoni. Il dipendente risparmia su trasporto, pranzo, e non è costretto a vestirsi ogni giorno in giacca e cravatta, dunque risparmia anche sul turnover del vestiario. 

Celli ha collaborato al libro “Il lavoro da remoto - Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza” a cura dell’ex ministro del Lavoro Michel Martone: “Siamo di fronte a una rivoluzione, che però necessita di essere governata con intelligenza. C’è bisogno di capi illuminati, che smettano di controllare ossessivamente il lavoratore e si fidino finalmente di lui. Solo così il dipendente sarà più sereno, meno stressato, renderà di più anche lontano dall’occhio vigile del capo, e l’azienda ne guadagnerà. Sono sempre le persone che fanno la differenza”. 

L’anno scorso in Italia lavoravano da casa in 570mila. Nel 2021 saranno quasi otto volte di più: quattro milioni, secondo l’osservatorio “The World After Lockdown” di Nomisma e Crif.

Mauro Suttora


Wednesday, February 08, 2012

I politici laureati "sfigati"

DAVVERO CHI SI LAUREA DOPO I 26 ANNI DEVE VERGOGNARSI? ECCO A CHE ETA' HANNO FINITO GLI STUDI MINISTRI ED EX

di Mauro Suttora

Oggi, 1 febbraio 2012

Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.

Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).

Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.

Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.

Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.

Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.

Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.

Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.

Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.

Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.

Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.

Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.

Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora