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Tuesday, May 11, 2010

Crisi in Grecia

VERSO UN DOPPIO EURO?

Oggi, 3 maggio 2010

di Mauro Suttora

1) Cos’è successo alla Grecia?
Il governo greco negli ultimi anni ha speso molto più di quel che ha incassato con le tasse. Quindi, senza il maxiprestito da 110 miliardi di euro (di cui sedici dall’Italia) concesso dall’Unione europea il 2 maggio, sarebbe fallito. Non avrebbe avuto più i soldi per pagare i creditori alla scadenza dei suoi titoli di stato fra due settimane.
«Se fanno porcherie anche gli stati, come i privati, possono fallire», spiega Lorenzo Marconi, autore con Marco Fratini del libro Vaffankrisi! (Rizzoli).
«Ma agli altri Paesi europei una bancarotta della Grecia non conviene», precisa Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera da New York e autore di La Valanga, dalla crisi alla recessione globale (Laterza), «perché costerebbe più del suo salvataggio. Anche gli Stati Uniti sono preoccupati, perché sarebbe il primo fallimento di un Paese Ocse, cioè di economia avanzata. E l’“effetto domino” renderebbe più costoso anche il rimborso del debito americano, che nei prossimi anni aumenterà a livelli spaventosi».

2) Di chi è la colpa?
«Dei politici greci, che hanno addirittura falsificato i dati di bilancio», dice Fratini. Quelli del governo di centrodestra sconfitto alle ultime elezioni, secondo i quali il deficit del 2009 sarebbe stato di poco superiore ai limiti imposti dal tratto di Maastricht, tre per cento sul Pil, mentre era del tredici. «Ma c’è anche una responsabilità da parte delle autorità monetarie europee, che hanno fatto finta di niente mentre la tempesta si stava avvicinando. Per attrarre finanziatori, infatti, i bot greci hanno dovuto offrire interessi del sei per cento, mentre in tutti gli altri Paesi, Italia compresa, data la bassa inflazione gli interessi sono quasi inesistenti. Tutti sapevano che la bolla prima o poi sarebbe scoppiata.

3) Cosa rischia l’Italia?
L’Italia ha lo stesso livello di debito pubblico della Grecia rispetto al Pil: 115 per cento. «Però è un debito meno preoccupante non solo di quello greco», dice Gaggi, «ma anche di quello della Spagna, che è di appena il 53%, per tre ragioni. Primo: gran parte dei nostri titoli di stato sono in mano a noi stessi, contrariamente a quelli di altri Paesi. I titoli del debito degli Usa, per esempio, sono stati comprati da Cina o Paesi arabi, e questo li rende più vulnerabili. Secondo: l’Italia ha già riformato le pensioni, il che rende più gestibili i bilanci pubblici dei prossimi anni. Terzo: l’Italia non ha dovuto salvare le proprie banche, come invece hanno fatto Usa, Gran Bretagna e Germania. Anche con la Grecia, le nostre banche sono esposte per appena quatto miliardi, contro gli ottanta delle banche tedesche e francesi».

4) Cosa rischiano le nostre tasche?
«Se possediamo obbligazioni di stato greche, ma anche spagnole o portoghesi, e le vendiamo ora, subiremo delle perdite», avverte Marconi. «Se invece le teniamo, è una scommessa. Se ci sarà un default, finiranno come i bond argentini: carta straccia. Ma questo rischio attualmente è ben remunerato: anche il sei per cento. E la Grecia, per ora, è stata salvata».

5) Come si può risolvere questa crisi?
«Secondo la cancelliera Angela Merkel e l’80 per cento dei tedeschi bisogna punire chi ha sbagliato, e quindi far fallire la Grecia», risponde Gaggi. «Ma questa strada si è dimostrata impercorribile, perché poi sarebbe stata la volta del Portogallo, della Spagna, dell’Irlanda, con un effetto a catena dagli esiti catastrofici. Anche la banche Bear Sterns e Lehman Brothers erano state fatte fallire. Ma questo non aveva bloccato la crisi, anzi». Quindi, soldi alla Grecia in cambio di tagli e risparmi.

6) Che fare per evitare altre crisi simili in futuro?
«Deve entrare in campo la politica», dice Lorenzo Fontana, eurodeputato della Lega Nord. «Noi passiamo per euroscettici, ma questa crisi dimostra che se l’Europa si basa solo sull’economia, rimarrà una creatura artificiale. Ci vuole rigore sui conti pubblici, a cominciare dall’Italia che ha il terzo debito statale più alto al mondo dopo Usa e Giappone. L’euro, così com’è stato impostato dieci anni fa, dev’essere rivisto. Occorrono strumenti per imporre disciplina fiscale agli stati, e dentro gli stati alle regioni»

7) I tedeschi che non volevano salvare i greci sono egoisti?
«No, le regole vanno rispettate», dice Fontana, «ci vuole responsabilità. E se ora hanno accettato di finanziare la Grecia, non si pensi che lo fanno per generosità. La Germania vuole salvaguardare i quaranta miliardi di crediti delle proprie banche verso la Grecia».

8) Cosa succederà all’euro?
«Non è un mistero che molti in Germania ipotizzino un euro a due velocità», spiega Fontana: «Uno per i Paesi nordici più competitivi, e un Euro 2 per i Paesi mediterranei, che possa attuare delle svalutazioni competitive. Io vengo da verona, e ricordo che grazie alla svalutazione della lira del ‘92 l’export del Nordest verso Germania e Usa decollò, portando grande ricchezza».
Oggi, se non fosse costretta nell’euro, la Grecia potrebbe svalutare aiutando le sue esportazioni e attraendo turisti. «Ma per un’Europa a due velocità ci vorrebbe un altro trattato», frena Gaggi, «e questo attualmente non è ipotizzabile».

9) È vero che alcuni grandi speculatori americani si sono accordati per attaccare l’euro?
«I giornali hanno addirittura riportato la data di una sera di febbraio in cui a New York George Soros e altri gestori di hedge fund avrebbero cenato e concordato un attacco simultaneo all’euro», dice Marconi. «Ma prendersela con gli speculatori è come criticare il leone perché attacca la gazzella ferita invece di inseguire quelle veloci e imprendibili. Le economie sane non soffrono le speculazioni».

10) Sarà almeno più conveniente andare in Grecia in vacanza quest’estate?
«Se Atene potesse uscire dall’euro e svalutare, sì», risponde Marconi, «ma con la moneta unica i prezzi diminuiranno al massimo del dieci per cento. Sarà meglio per i turisti americani venire in Europa, con l’euro sotto quota 1,30 invece che a 1,50. Disperati come sono, i greci dovranno abbassare un po’ i prezzi, ma non più di tanto. Piuttosto, si prevede un drastico calo di arrivi dei 2,3 milioni di tedeschi, perché la crisi colpisce anche lì. E non verranno rimpiazzati dal milione di italiani che ogni estate vanno in Grecia».

Mauro Suttora

Tuesday, October 30, 2007

Abbiamo gli stipendi più bassi d'Europa

Solo spagnoli, greci e portoghesi guadagnano meno degli italiani

di Mauro Suttora

Roma, 24 ottobre 2007

C’è un malessere generale in Italia. Molti, moltissimi, hanno la sensazione che il loro lavoro non venga compensato adeguatamente. La scorsa estate un’indagine della Od&m su 5.600 dipendenti ha rivelato che l’80 per cento ritiene troppo basso il proprio stipendio rispetto al ruolo e all’esperienza accumulata.

Ancora peggio la valutazione rispetto all’impegno profuso: l’87 per cento si dichiara insoddisfatto. E non sono le solite lamentele, perché la rabbia aumenta guardando ai risultati delle aziende in cui si lavora: quasi tutte hanno ottenuto ottimi risultati, accumulando decine di milioni di profitti per gli azionisti. Insomma, l’economia va a gonfie vele, ma il ricco bottino non viene diviso equamente.

«È una situazione insostenibile», dichiara a Oggi Raffaele Bonanni, segretario Cisl, «che rischia di rompere il patto sociale di equità previsto dalla nostra Costituzione. Per questo il sindacato a metà novembre adotterà un’iniziativa molto forte». Scioperi? Rivendicazioni salariali? Richieste d’aumento ai padroni? No, precisa Bonanni: «Dobbiamo convincere il governo ad abbassare le aliquote dei lavoratori. In Italia sul lavoro dipendente pesa l’80 per cento dell’intero carico fiscale. Si tratterà di una vera e propria battaglia per l’equità».

Insomma, inutile chiedere aumenti se poi, ogni cento euro ottenuti, oltre la metà se ne va fra Irpef (che ora si chiama Ire, Imposta sul reddito) e contributi pensionistici, i quali però servono a pagare le pensioni di oggi: poco viene accantonato per quelle di domani. E non è finita qui, perché sui 40-50 euro rimanenti dobbiamo pagare un’Iva media del venti per cento ogni volta che compriamo qualcosa: le imposte sui consumi variano infatti dal quattro per cento su generi agevolati come alimentari e giornali, all’incredibile 65% della benzina (cominciò Mussolini a tassarla nel 1935, con la scusa che bisognava finanziare la guerra d’Etiopia).

Stretta nella tenaglia fra stipendi troppo bassi e tasse troppo alte, la classe media sta scomparendo. «Oggi in Italia, sempre di più, o si è ricchi o si è poveri», ha sintetizzato l’ultimo rapporto Censis. La fine del ceto medio: il titolo del libro scritto due anni fa da Massimo Gaggi ed Edoardo Narduzzi si è rivelato profetico. Guardate la tabella che pubblichiamo (qui accanto): professioni che fino a 20-30 anni fa garantivano una buona posizione sociale (professori, impiegati, bancari) sono pian piano scivolate in fondo alla classifica.

«Il malcontento che si registra tra i lavoratori dipendenti deriva dagli aumenti vertiginosi di prezzi al consumo e delle tariffe», spiega Bonanni, «con ricadute pesantissime sui bilanci familiari. Ma nessuno ha avuto la forza di contrastare i monopoli. Per questo vogliamo sgravi già in questa finanziaria per tutti i lavoratori dipendenti».

E pensare che molti lavoratori autonomi e tutti quelli precari invidiano chi ha comunque un posto fisso. Che vuol dire tranquillità psicologica, possibilità di programmare le spese, imposte e contributi Inps pagati dal datore di lavoro. Niente rischi, insomma, e lo stipendio garantito a fine mese.

«Ma ormai le buste paga sono ridotte a una miseria», denuncia Elio Lannutti dell’associazione consumatori Adusbef, «dopo la crisi innescata dall’euro. In questi sei anni, dal 2001 a oggi, si è verificata una speculazione senza precedenti da parte di chi ha potuto alzare indisturbato i prezzi, ai danni dei percettori di reddito fisso. Che quasi non se ne sono accorti, perché i commercianti hanno ottenuto di eliminare quasi subito i doppi prezzi in lire ed euro. Abbiamo calcolato in settanta miliardi di euro il trasferimento di ricchezza forzoso da questi ultimi ai primi».

È uno stillicidio che prosegue anche in queste settimane. Chiunque di noi, andando a fare la spesa, si accorge dei nuovi aumenti. Che ci costerano in media 700 euro all’anno, hanno calcolato le associazioni dei consumatori: dai venti euro in più per la revisione obbligatoria dell’auto (passata da 40 a 60 euro), all’aumento del bollo anche per auto piccole come la Panda (15 euro), fino al raddoppio per la pasta. «Le speculazioni più odiose avvengono nella filiera agroalimentare e nelle banche», avverte Lannutti. «Le intermediazioni di trasportatori e grossisti, per esempio, fanno aumentare l’uva da tavola pugliese dai 35 centesimi al chilo pagati ai produttori ai due euro dei nostri negozi. Quanto alle banche, basta osservare i loro utili record per accorgersi di quanti soldi prelevano dai nostri conti correnti e mutui».

Che fare, allora? «Il governo Prodi deve abbassare le aliquote Irpef», dicono sia Bonanni che Lannutti, «e non limitarsi a diminuire il prelievo sulle imprese». Particolarmente odiosa risulta l’aliquota minima del 23 per cento, che colpisce quei due italiani su tre che guadagnano meno di 1.300 euro al mese, e perfino i pensionati da poche centinaia di euro al mese. Poi, non deve più allargarsi la disparità fra gli stipendi: come si legge nella tabella, oggi gli impiegati in media quadagnano un quarto rispetto ai dirigenti. Ma fino a sei anni fa la differenza era di un terzo: si è quindi verificato un crollo dei redditi più bassi.

«Ho avvertito i rappresentanti delle banche: “Vi correranno dietro con i forconi”», minaccia Lannutti, «quando scopriranno che nei vostri forzieri conservate decine di miliardi di euro di fondi dormienti. Sta aumentando l’insofferenza contro la casta, non solo dei politici, ma anche di banche, assicurazioni e aziende che ottengono dal governo gli sgravi fiscali su Ires e Irap negati ai comuni cittadini».

Le detrazioni previste dalla Finanziaria, infatti, sono minime. Per esempio, quelle tanto sbandierate per i ventenni che affittano una casa (i «bamboccioni» derisi dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) si riducono a 40-80 euro al mese, a fronte di monolocali affittati a 500 euro e più al mese nelle grandi città. Giovani e studenti, come tutti, si aspettano misure più consistenti.

Mauro Suttora