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Wednesday, June 09, 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica

di Mauro Suttora

HuffPost, 9 giugno 2021

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

Mauro Suttora 

Tuesday, June 09, 2020

Nessun governo determinerà il nostro futuro

ELOGIO DELLA SPONTANEITÀ

di Mauro Suttora

Huffington Post, 9 giugno 2020

articolo originale

Nessun politico ha mai pianificato il progresso con stati generali o caporali. Il “nuovo modello di sviluppo” resuscitato da Walter Veltroni arriva sempre per caso: negli ultimi 40 anni grazie alle invenzioni di Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple), Mark Zuckerberg (Facebook) o Jeff Bezos (Amazon).

Ricordate Altavista, Yahoo, Blackberry, Nokia? Erano il massimo dell’avanguardia, poi spontaneamente sono stati sepolti da Google e Samsung. Senza interferenze di governi.

Nessun ministro della musica ha mai deciso di passare dai 78 giri ai 33 e ai 45, dai registratori geloso alle cassette, dai mangiadischi ai cd, dai walkman agli ipod, dalle chiavette a spotify.

Nessun sottosegretario di cinema e tv ha mai programmato betamax e vhs, dvd e blu-ray, schermi piatti e curvi, satelliti e pay, streaming e ondemand.

Nessun gerarca minore grillino potrà mai immaginare come i nostri figli filmeranno i nostri nipoti fra cinque anni, dopo che abbiamo dovuto riversare in vhs i superotto dei nostri padri perché i proiettori erano finiti in soffitta, e poi digitalizzarli su dvd; e ora anche i dvd sono sorpassati.

Nessuna task force di Colao potrà mai ordinare a tir, aerei e navi di abbandonare gli inquinanti diesel e kerosene per elettricità, sole e vento. Al massimo, se desideriamo “sostenibilità”, toglieremo i miliardi che regaliamo ai camion come rimborso accise per la follia di trasportare acqua minerale da 10 cent al litro dalle Marche alla Sardegna e dalla Valtellina a Siracusa. Così magari il chilometro zero diventerà più conveniente del km mille.

Nessuna neostatalista Mariana Mazzucato potrà mai obbligarci a usare bici invece delle auto, e monopattini invece delle bici.

Nessun aeroporto di Malpensa accuratamente progettato da governi e costato miliardi potrà mai competere con Orio al Serio, diventato terzo scalo italiano gratis, senza che nessun burocrate lo inserisse in un piano quinquennale.

I primi a rendersi obsoleti sono i governanti che convocano grandiosi e ultimativi convegni per “disegnare il futuro”. Perché il nostro futuro non è di loro proprietà. Quindi sceglieremo noi se sarà green o grey, se l’impronta ecologica si alleggerirà, se la decrescita sarà felice, se il rientro nelle emissioni di vent’anni fa sarà dolce. E quando bus e treni torneranno a essere meno rischiosi per il virus e più per l’ambiente, li riempiremo di nuovo.

Faremo ogni giorno qualcosa che non è calcolabile da chi vuole dirci quel che vogliamo. Perché non ci fidiamo del governo, di nessun governo. E non c’è bisogno di essere libertari né anarchici per accogliere l’invito del filosofo verde Wendell Berry: “Quando vedi che i politicanti riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero, abbandonalo”.
Mauro Suttora

Friday, January 20, 2017

Cosa farà Trump nel mondo

Speciale Oggi, 20 gennaio 2017

di Mauro Suttora

Gli Stati Uniti che Donald Trump eredita dopo gli otto anni democratici di Barack Obama sono un Paese in ottima salute. L’indice di Borsa Dow Jones è ai suoi massimi storici di sempre: quasi 20mila punti. Il doppio del boom precedente, quello della New Economy di Bill Clinton alla fine degli anni 90.

La supremazia tecnologica è anch’essa senza precedenti nella storia umana. Mai tanto potere planetario si era concentrato in così pochi chilometri quadri come oggi nella Silicon Valley. Una accanto all’altra, a sud di San Francisco, stanno le sedi dei giganti che controllano la Rete mondiale: Apple, Google, Facebook, Yahoo, Amazon, Whatsapp, Twitter, Instagram.

A nord della California c’è la Microsoft di Bill Gates, con i suoi 22 miliardi di utile annuo su 86 di fatturato: una redditività astronomica. Né ha perso potere la vecchia Ibm, con i suoi 81 miliardi di ricavi.

Le difficoltà della coreana Samsung hanno rafforzato Apple come leader mondiale dei telefonini. E il 32enne Mark Zuckerberg in soli dodici anni è riuscito a connettere quasi due miliardi di persone sulla Terra con la sua Facebook.

Nonostante i progressi del proprio Pil, la Cina rimane a 11mila miliardi di dollari contro i 18mila degli Usa (terzo a grande distanza il Giappone con 4mila). 
Ma il vero indice di ricchezza è il Pil pro capite, e qui ogni americano è (in media) all’ottavo posto con 55mila dollari, superato solo da piccoli paradisi del petrolio come Qatar, Brunei, Kuwait ed Emirati, o europei come Lussemburgo, Norvegia e Svizzera (gli italiani sono 31esimi, i cinesi 84esimi).

Insomma, l’America di Trump continua a essere l’unica superpotenza mondiale, nonostante tutti quelli che da decenni ne annunciano il declino. Le sue università attraggono sempre i migliori cervelli scientifici del mondo, New York è ancora l’approdo preferito di ogni miliardario che voglia acquistare una casa prestigiosa, i film e le serie tv di Hollywood dominano il nostro immaginario.

Tutta questo potere soft è ben sorvegliato con i 600 miliardi di dollari che gli Usa spendono ogni anno per le loro forze armate, più i 500 miliardi destinati ai servizi segreti dopo il 2001 per controllare estremisti islamici e cyberterroristi. 
Per dare l’idea dell’enormità di queste cifre e della distanza rispetto agli altri Paesi, basti dire che le spese militari cinesi sono di 200 miliardi annui, le russe 60, le britanniche 55, le francesi 50.

Quale sarà l’America di Trump? In campagna elettorale lui si è dichiarato protezionista e isolazionista. Questo significa che ostacolerà il liberismo nel commercio internazionale, e non s’immischierà in tutte le crisi in cui viene chiesto l’intervento militare Usa.

Per il primo aspetto, quello economico, il conflitto principale sarà con la Cina. Trump vuole salvare i posti di lavoro che l’America (ma anche l’Europa) perde in favore dei Paesi del Terzo Mondo che producono a costi minori. 
Per giustificare l’introduzione di barriere e tariffe doganali contro i prodotti made in China accusa Pechino di violare gli standard ecologici delle fabbriche occidentali, e le nostre libertà sindacali: «Ci fanno concorrenza sleale distorcendo il mercato!», tuona.
Paradossalmente, quindi, un presidente “reazionario” potrebbe rivelarsi un campione dei diritti ambientali e umani, che se rispettati fanno aumentare i costi dei prodotti.

Sul secondo aspetto, ricordiamo che l’isolazionismo trionfò negli Usa durante gli anni 30, quando movimenti come America First di Charles Lindbergh (il primo uomo che volò sull’Atlantico) non volevano che «giovani americani andassero a morire in Europa» una seconda volta, dopo i 116mila soldati statunitensi uccisi nella Prima guerra mondiale. 
Ci volle l’attacco di Pearl Harbour per convincere gli Usa a intervenire contro i nazifascisti nel dicembre 1941, ben due anni dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Questa volta, sono i disastri combinati da Bush junior in Iraq e Afghanistan a tenere gli americani lontani da ulteriori interventi. Già Obama non si è immischiato in Siria, in Libia si è limitato a far rispettare una no fly zone, e anche contro l’Isis impiega aerei e droni invece dei «boots on the ground» (stivali sul terreno, interventi con soldati).

Se Trump proseguirà in questo disimpegno, ecco un secondo paradosso: un repubblicano potrebbe rivelarsi il presidente Usa più pacifista dopo i democratici Carter e Clinton. Quel che è certo, è che chiederà a noi europei di aumentare le spese militari cui destiniamo il 2% del loro Pil, mentre gli Usa superano il 4. 
Ma che può fare se rifiutassimo? Chiudere le basi americane in Italia e Germania? Sarebbe curioso che proprio un presidente di destra come lui attui il vecchio sogno dei comunisti: sciogliere la Nato.

L’unica cosa certa è che Trump non crede al riscaldamento globale della Terra, e quindi non ridurrà le emissioni di combustibili fossili (petrolio, carbone e gas). Proseguirà nello sfruttamento dello shale gas, il gas da argille estratto dalle rocce bituminose che ha già reso gli Usa indipendenti energeticamente e abbassato il prezzo del petrolio. Inoltre darà un giro di vite contro gli immigrati clandestini dal Messico.

Ma da un personaggio creativo, pragmatico e imprevedibile come Trump c’è da aspettarsi di tutto. Anche che litighi con il russo Putin, che ora passa per suo grande amico, ma che inevitabilmente prima o poi entrerà in collisione con gli interessi americani nel mondo.

Mauro Suttora

Wednesday, October 19, 2011

Incontrai Steve Jobs licenziato...

UN CORDIALISSIMO INVASATO: PARLANTINA SEDUCENTE, MAGNETISMO IRRESISTIBILE, ENTUSIASMO IRREFRENABILE

Oggi, 6 ottobre 2011

di Mauro Suttora

Ho capito cos’è il carisma nel giugno 1985, quando incontrai Steve Jobs a tu per tu. Due settimane prima il fondatore della Apple era stato cacciato dalla propria società per mano dell’amministratore delegato John Sculley che lui stesso aveva assunto. Ma nessuno ancora lo sapeva. E Jobs, per niente depresso, arrivò a Lund in Svezia per lanciare l’European University Consortium, un modo per far comprare i suoi computer Macintosh a studenti e docenti.

Un po’ Gesù, un po’ Berlusconi

Nel quarto d’ora di conversazione privata che avemmo sul prato del campus (niente addetti stampa, clima informale) mi sembrò un cordialissimo invasato, a metà fra Gesù Cristo e Berlusconi: un po’ capo religioso, un po’ supremo venditore. Parlantina seducente, magnetismo irresistibile, entusiasmo irrefrenabile. Finse perfino di interessarsi al mio buon inglese, imparato durante l’anno negli Usa da liceale.

Nessuna meraviglia, quindi, che centinaia di milioni di adepti (più che clienti) del culto mondiale Apple ora lo ricordino come un guru. Qualcuno ha detto: «È il Leonardo da Vinci del nostro secolo». Sbagliando: anche l’ultimo quarto del secolo scorso è stato allietato dalle invenzioni di questo figlio di genitori sbadati (un’americana, un siriano: una specie di Obama arabo) adottato dalla famiglia Jobs.

Successo anche nel cinema

Il primo personal computer è del 1976. Il primo mouse lo abbiamo maneggiato otto anni dopo. E poi tante altre cose che hanno allietato la nostra vita quotidiana: i cartoni animati come Toy Story della sua Pixar (fondata nell’86, oggi venduta alla Walt Disney), il cassone ingombrante del computer che finalmente scompare, incorporato nel monitor dell’iMac nel ’98, i leggeri ma potenti portatili iBook, e allo scoccare del millennio quell’iTunes che ha distrutto l’industria discografica...

Noi giornalisti non dovremmo lodare troppo quello che rischia di essere il carnefice anche del giornale che state leggendo, e dei libri e delle biblioteche: tutti resi obsoleti dalla sua ultima trovata, il sottilissimo iPad. Il terzo oggetto magico sfornato negli ultimi anni, dopo l’iPod e l’iPhone.

E pensare che di tutte queste diavolerie Steve già fantasticava 26 anni fa, parlandomi di «interconnessione planetaria» dieci anni prima delle e-mail, e di quegli «schermi intercambiabili» oggi diventati realtà grazie alla convergenza fra tv, pc, notebook, tablet, smartphone, lettore mp3, cinepresa e macchina fotografica: tutto si può vedere dappertutto e subito.

E adesso, dove finirà la fortuna di otto miliardi di dollari accumulata da Steve Jobs? Una cifra solo apparentemente alta, per una società il cui valore in Borsa è esploso dai cinque miliardi del 2000 ai 350 attuali. Infatti Jobs era soltanto il 39° uomo più ricco degli Stati Uniti, e il 110° al mondo. Otto volte meno dei 60 miliardi del suo rivale e coetaneo Bill Gates di Microsoft.

La vedova è Laurene Powell, 47enne sposata da Steve 20 anni fa con rito buddhista nel parco californiano Yosemite delle sequoie giganti, dopo che rimase incinta del suo maschio primogenito Reed Paul. Reed come l’università dell’Oregon che Jobs abbandonò dopo appena sei mesi.

È incredibile come nessuno dei più ricchi imprenditori del computer si sia mai laureato: Jobs, Gates, Mark Zuckerberg di Facebook, Lawrence Ellison di Oracle, Michael Dell.

Steve conobbe la moglie quando andò a tenere un discorso all’università di Stanford (attaccata alla Apple di Cupertino e alla sua casa di Palo Alto): Laurene stava prendendo un dottorato. Poi ha lavorato in finanza, ora si dedica alla filantropia e alla New America Foundation, un think tank politico di sinistra sui diritti civili, ma di destra in economia.

Dopo Reed Paul, che oggi ha 20 anni e assomiglia straordinariamente al padre, sono arrivate Erin Sienna (ora 16enne) ed Eve, 13.

Ma Steve Jobs ha anche un’altra figlia, di 33 anni: Lisa Brennan, nata da una gravidanza non desiderata dell’allora sua fidanzata Chris-Ann. La quale dovette penare non poco per fargliela riconoscere. Nonostante stessero assieme dai tempi del liceo, occorse una causa e un test del sangue che appurò la paternità al 94 per cento. Alla fine il mascanzoncello fu obbligato a versare 5 mila dollari, più 385 al mese e l’assistenza sanitaria. Briciole, perché ormai Jobs era già diventato milionario.

Lisa come la prima figlia

Si favoleggia che Steve abbia chiamato Lisa uno dei primi computer Apple in onore di questa figlia non voluta (esattamente come lui). La versione ufficiale è che Lisa stesse per Local integrated software architecture. In ogni caso, Lisa crescendo ha avuto buoni rapporti col padre, e dovrà partecipare in qualche modo alla divisione dell’eredità.

Un’altra donna importante nella vita di Steve Jobs è Mona Simpson, oggi 54enne: la sua sorella naturale. Quella che i genitori non rifiutarono. Si ritrovarono nell’86 e lei scrisse addirittura un libro sulla loro vicenda. Docente di inglese al Bard College (New York) e romanziera affermata, da un suo libro è stato tratto nel 1999 il film La mia adorabile nemica con Susan Sarandon e una giovanissima Natalie Portman.
Mauro Suttora

Wednesday, June 08, 2011

Il triangolo del potere mondiale

GOOGLE, APPLE, YAHOO, FACEBOOK, SKYPE, LINKEDIN: LE MULTINAZIONALI DELL'ERA DIGITALE HANNO TUTTE SEDE IN UN TRIANGOLO DI SOLI 9 KM NELLA SILICON VALLEY

San Francisco (Stati Uniti), 1 giugno 2011

di Mauro Suttora

Mai nella storia era successo che tanto potere fosse concentrato in così poco spazio. All’interno di un triangolo californiano di soli nove chilometri hanno le loro sedi tutti i giganti mondiali dell’era digitale: la Apple con i suoi i-pod, iphone e i-pad, Yahoo e Google con i motori di ricerca, i social network Facebook e Linkedin, i videotelefoni Skype.

Siamo nella Silicon Valley, cuore già dagli anni 70 di tutto ciò ha a che fare col silicio. Cioè la materia base dei chip, anima dei computer. La Hewlett-Packard nacque a Stanford 70 anni fa. L’omonima università di Palo Alto ha sfornato decine di premi Nobel, e il suo «science park» è l’humus di molte aziende informatiche: Intel, Sun, Oracle. Pochi chilometri a nord, a San Francisco, ci sono Twitter e Wikipedia. E un po’ più a sud, a San Josè, ecco Cisco, Adobe, E-bay.

Insomma, chiunque apra un computer oggi nel mondo usa qualcosa che viene da questo piccolo «triangolo». Un tale dominio planetario non si era mai verificato. L’antica Roma non andò mai oltre la Persia. Londra e Parigi avevano imperi coloniali, ma in contrasto fra loro. E neanche la New York del XX secolo americano era riuscita a sottomettere potenze come Russia o Cina. Ora invece i giovani russi, cinesi o arabi si scambiano video su Youtube e organizzano rivoluzioni con Facebook. Tanto che il capo di Wikileaks Julian Assange accusa, un po’ paranoico: «Gli Stati Uniti controllano il mondo con i social network».

È incredibile anche la durata del fenomeno Silicon Valley, oltre che la sua concentrazione geografica. Nel 1976 Steve Jobs fonda la Apple a Cupertino: i suoi computer Macintosh sono più moderni di quelli della newyorkese Ibm. Negli anni 80 la Microsoft di Bill Gates domina nel software (programmi), ma Seattle sta comunque nella West Coast. E nel decennio successivo il «triangolo» californiano si prende la rivincita con i motori di ricerca: nel 1995 Yahoo, tre anni dopo Google.

Ma è con il nuovo millennio che riesplode la Silicon Valley: Skype nel 2002, l’anno dopo Linkedin, nel 2004 Facebook. Il ritmo si fa vorticoso: il primo social network My Space, acquistato a peso d’oro dal magnate Rupert Murdoch, in soli due anni è sorpassato da Facebook, che oggi connette istantaneamente 600 milioni di persone in tutto il mondo.

Anche l’inventiva di Jobs è insuperabile: nel 2001 l’i-pod che distrugge l’intera industria discografica; poi l’i-phone, che fa subito sembrare vecchio il blackberry; infine l’i-pad, che un giorno potrebbe sostituire anche il giornale che state leggendo in questo momento. La Apple decuplica il giro d’affari: oggi vale in Borsa 300 miliardi di dollari, ma qualcuno già scommette che arriverà presto a mille...

Facebook è l’unica società nata a Boston, e non in California. Ma Mark Zuckerberg è presto costretto a trasferirla a Palo Alto: anche lui nel «triangolo», perché qui si fa la storia, circolano le idee, nascono i prodotti.
Fra questi viali alberati si combattono anche guerre all’ultimo sangue, con ingegneri che le società si strappano a suon di milioni di dollari. Perché in palio ci sono i miliardi della «New Economy»: Linkedin, ultima quotata, ha subito raggiunto in Borsa nove miliardi, nonostante fatturi solo 200 milioni. Skype è stata comprata da Microsoft per più di otto miliardi: 17 volte i suoi ricavi. E Facebook, se si quotasse, varrebbe 50 miliardi.

Mauro Suttora