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Friday, July 29, 2022

Il problema di Berlusconi non sono i traditori. È che sono finiti

Da Urbani fino a Carfagna, Forza Italia ha finito pure i transfughi. Ora non c'è più nessuno che se ne possa andare

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 Luglio 2022 

Magari ha ragione Valentina Vezzali. La campionessa di scherma, sottosegretaria allo Sport, va controcorrente e aderisce a Forza Italia proprio nel momento della grande fuga. Brunetta, Carfagna, Gelmini, Cangini, Elio Vito: tutti i ministri e molti altri abbandonano Berlusconi, Vezzali furba riempie il vuoto e verrà promossa se ci sarà un governo di centrodestra.

Scappare dalla barca che affonda è buona regola in politica, alla faccia di fedeltà, gratitudine o coerenza. Soprattutto quando quest'ultima è semmai rivendicata dai transfughi, in nome del liberalismo. Tuttavia è impressionante scorrere la lista di tutti gli addii che Silvio ha incassato nei suoi 28 anni di vita politica. 

Lo sterminio è sterminato. I radicali scapparono subito: bastarono sei mesi a Pannella e Bonino per capire che la "rivoluzione liberale" promessa nel 1994 era una chimera. Poi fu la volta del prestigioso battaglione di professori arruolati da Forza Italia: Urbani, Melograni, Colletti, Marzano, Vertone. Sopravvissero solo Pera, premiato con la presidenza del Senato, e Brunetta. Durarono poco anche gli avvocati Dotti e Della Valle (Tortora). 

Nel 2001-11 Berlusconi governa otto anni su dieci, quindi nessuno lo molla. Poi, la diaspora. Silvio fa fuori tutti i suoi presunti delfini (Alfano, Toti) e i portavoce (Bondi, Bonaiuti). Tremonti va con la Lega, Quagliariello, Romani e Biancofiore con Toti. Via anche Pisanu, Frattini, Cicchitto, Lorenzin, Crosetto, Sanza, Albertini, Verdini, Fitto, Capezzone, Ravetto, Elisabetta Gardini, un anno fa Malan. 

Silvio però è buono, riaccoglie figliol prodighi come Schifani, Polverini e Miccichè che lo avevano tradito. Ora è circondato dagli ultimi fedelissimi. Tajani, innanzitutto, socio fondatore di Forza Italia con Antonio Martino e il generale Caligaris. Sestino Giacomoni e l'ex assistente personale Valentino Valentini lo seguiranno ovunque. 

In prima fila la quasi moglie Fascina, la quasi badante Renzulli, i capigruppo Bernini e Barelli. E poi i senatori Galliani (che non si ricandida), Ghedini, Stefania Craxi, Casellati. I deputati Rotondi, Baldelli, Aprea, Bergamini, Marrocco (ex fidanzata di Paolo Berlusconi), Mulè, Prestigiacomo, Ruggieri (nipote di Vespa, compagno di Anna Falchi).

Ma il principale consigliere politico personale di Berlusconi resta l'inossidabile Gianni Letta.

 

Tuesday, March 01, 2011

intervista a Lara Comi

"SILVIO, TROVA UNA CHE TI AMA" per la prima volta parla l'eurodeputata pdl accusata di "velinismo"

Oggi, 21 febbraio 2011

di Mauro Suttora 

 Bella, è bella: alta, occhi azzurri. «Ma non ho mai fatto la velina. E non ho niente a che spartire con Sara Tommasi, tranne la laurea alla Bocconi». 
Lara Comi, 28 anni, da Saronno (Varese), dal 2009 è eurodeputata Pdl. Con Barbara Matera e Licia Ronzulli era stata bollata come una delle tre giovani «favorite» che Silvio Berlusconi spedì a Bruxelles. Avrebbero dovuto essere di più, ma la famosa lettera di denuncia della moglie Veronica bloccò l’operazione.

La Comi aveva seguito pure lei il corso di tre giorni sull’Europa tenuto dai ministri Franco Frattini e Renato Brunetta. Poi però le showgirl più vistose e imbarazzanti come Angela Sozio furono depennate. 
«E pensare che Silvio me l’aveva chiesto: “Vuoi darti alla politica o allo spettacolo?”», si lamenta oggi la Tommasi. «E io come una stupida scelsi lo spettacolo. Mentre oggi potrei essere tranquilla all’Europarlamento». Invece di finire nel vortice delle intercettazioni, con l’sms «Spero k krepi kon le tue troie» spedito al premier, che purtroppo rischia di passare alla storia. 

«Io con tutto ciò non ho niente a che fare», dice la Comi, «e tengo a precisare due cose. Primo, con me Berlusconi è sempre stato correttissimo. Sono andata a casa sua sia ad Arcore, sia a Roma. Mai in Sardegna. Ma erano tranquille cene di lavoro con altri politici e imprenditori, uomini e donne...»

Ha visto la discoteca del “bunga bunga”? 
«Due anni fa ho visitato un locale al piano di sotto, ma mi era sembrata una normale sala proiezioni. Nessun palo da lap-dance. Seconda precisazione: io la gavetta l’ho fatta. Non sono una miracolata. Ho lavorato in Forza Italia come attivista da quando avevo 19 anni. Ho volantinato e montato gazebi per passione, conosco bene la politica di base, cosa vuol dire faticare. Dopo la laurea ho lavorato alla Beiersdorf, la società che fra l’altro produce la Nivea, e alla Giochi Preziosi, da cui adesso ho l’aspettativa. Sono stata assistente di Maria Stella Gelmini. E quando lei è diventata coordinatrice lombarda del partito, ho diretto i giovani della regione». 

 Quanto prendeva alla Giochi Preziosi? «Mille e 300 euro al mese».
 
 E adesso, da eurodeputata? «Cinquemila e 500». 

 Un bel salto. Cosa pensa del «cursus honorum»? Già i romani duemila anni fa avevano regole ferree per le carriere politiche: i consoli dovevano essere stati prima tribuni e questori. 
«Giusto. Ma è giusto anche che l’Europarlamento sia rappresentativo di tutte le età e professioni, oltre che di tutte le nazioni. Infatti, non sono l’unica ventenne. Anzi, c’è una danese più giovane di me. E poi, alle europee abbiamo dovuto conquistarci le preferenze una ad una in quattro regioni. Lì non ci sono liste bloccate con elezione garantita».

Cosa pensa del Rubygate?
«Assurdo».

Assurdo che un 74enne paghi per avere a cena delle ventenni?
«Non credo che il presidente abbia pagato nessuno. Ma colpevolizzo più le donne, che ci sono andate per libera scelta».

E Berlusconi?
«Ognuno è libero di comportarsi come crede, nella vita privata».

Ma se suo padre o suo nonno si comportasse così, cosa gli direbbe?
«Di trovarsi una donna fissa che gli vuole veramente bene». E quella gemella che frequentava Arcore avendo un fidanzato indagato per camorra? «Appunto. Berlusconi deve circondarsi di persone che conosce, e di cui possa fidarsi». Cioè il contrario delle ragazze di via Olgettina. «Sì. Però trovo assurdi anche i cortei che strumentalizzano la dignità delle donne. Quella non si conquista urlando per strada, ma portando a casa più ruoli e posti nelle aziende e nelle istituzioni». Mauro Suttora

Wednesday, November 24, 2010

intervista a Beppe Severgnini

BERLUSCONI SPIEGATO AI POSTERI

di Mauro Suttora

Oggi, 17 novembre 2010

Quanto durerà Berlusconi? «E chi lo sa. Forse la sua spinta propulsiva si è esaurita, ma domina la vita italiana da quasi vent’anni. E un motivo c’è. Anzi, ce ne sono dieci».

Ogni volta che Beppe Severgnini, il giornalista-scrittore più internazionale d’Italia, va all’estero, la domanda inevitabile è: «Ma chi è veramente Berlusconi? E come mai lo votate dal ’94?». «Ho provato a rispondere con il mio ultimo libro: La pancia degli italiani, Berlusconi spiegato ai posteri», ci dice, ed elenca i fattori del suo successo.
«Primo, il fattore umano. La maggioranza degli italiani pensa: ci somiglia, è uno di noi. Vuole bene ai figli, gli piace il calcio, sa fare i soldi, detesta le regole, racconta barzellette, dice parolacce, adora le donne...»

Ecco, le donne: quello che lei chiama «fattore Harem» ultimamente gli procura parecchi guai.
«Ma lui loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio, e alla sera si porta a casa le ragazze. È spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto».

Non ha superato il limite?
«La sua incoerenza è pirotecnica. Ma il Vaticano e Cl fanno i loro conti, e si accontentano delle leggi favorevoli».

E questo è il «fattore divino». Poi c’è il «fattore Robinson».
«Sì, ogni italiano si sente solo contro il mondo. Siamo individualisti. Non chiediamo un fisco più giusto: aggiriamo quello esistente».

Quinto fattore: quello che prende il nome dal Truman Show, il film che spiega come la tv riesce a trasformare la realtà.
«Berlusconi possiede la tv privata, controlla quella pubblica. E la tv è fondamentale per i personaggi che crea, i messaggi che lancia, le cose che dice e soprattutto per quelle che tace».

Poi c’è il fattore Zelig: la capacità di immedesimarsi negli interlocutori.
«Ma Berlusconi va oltre: si trasforma in loro, come nel film di Woody Allen. È padre di famiglia coi figli - e le due mogli, finché è durata. Donnaiolo con le donne, giovane tra i giovani, saggio con gli anziani. Nottambulo fra i nottambuli, lavoratore fra gli operai, imprenditore fra gli imprendiori. Lombardo tra i lombardi, italiano con i meridionali. Conservatore con Bush, liberale con Obama...»

E il «fattore Medici» cos’è?
«La Signoria, cioè l’unica invenzione politica originale degli italiani, oltre ai Comuni. Tutto il resto l’abbiamo importato: la democrazia parlamentare dall’Inghilterra, il federalismo dagli Stati Uniti, il federalismo dalla Germania. Invece alla Signoria siamo abituati. Gli italiani non discutono il potere: al massimo lo deridono, lo aggirano, lo imbrogliano».

Infine i fattori Tina e Palio.
«Tina è l’acronimo coniato dalla Thatcher: “There Is No Alternative”, non c’è alternativa. Come si fa a votare la sinistra, che predica solidarietà e uguaglianza a una nazione devota invece all’intrapredenza? Quanto al Palio, a Siena sono più felici per la sconfitta della contrada vicina che per la vittoria della propria. E molti italiani, pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, voterebbero il demonio».

Quale di questi fattori lo danneggia di più, adesso?
«La Signoria. I cortigiani sono bravi ad adulare, non a dare consigli magari sgraditi, che irritano il Signore. Povero Berlusconi, guardate da chi è circondato. Chi mai può aiutarlo, adesso, con un suggerimento utile? Vicino a sè ha solo i suoi avvocati, la Carfagna, la Gelmini...»

E quale fattore invece lo aiuta?
«Il Palio e il Tina. La sinistra ama dire quel che non fa, e fare quel che non dice».

Infatti vuole cacciare Berlusconi, ma in realtà teme le elezioni.
«Con questa legge elettorale delle liste bloccate, che impone gli eletti invece di permetterne la scelta...»

Ma non è buffo che il centrosinistra punti su Fini? È come se nel 1943 gli antifascisti si fossero affidati a Ciano, il delfino traditore di Mussolini. E non è ridicolo questo scandalo di Ruby rubacuori?
«Finora il fattore Harem lo ha sostenuto. Lo sguardo di Berlusconi verso la donna non è diverso da quello degli adolescenti, dei pubblicitari e di tanti uomini per strada... Ma forse si sta spostando il confine fra imbarazzo, disagio e disgusto».

Mauro Suttora

Wednesday, October 27, 2010

Daniela Santanchè

LA ZARINA DI BERLUSCONI

di Mauro Suttora

Oggi, 20 ottobre 2010

Secondo i più appassionati fra i suoi sostenitori, Silvio Berlusconi è un misto di Gesù Cristo, Napoleone, Giulio Cesare e re Sole. Quindi, ora che il premier sembra essersi stufato dei vari Bondi, Cicchitto, La Russa, Verdini, Gasparri e Quagliariello che lo attorniano ma creano solo casini (o ci sono finiti dentro), Daniela Santanchè è messa benissimo. A detta di alcuni, sarà lei la nuova segretaria del Popolo delle libertà.

Gesù, infatti, amava i figliol prodighi. Affidò addirittura la Chiesa a Pietro, che lo rinnegò tre volte. E allora, che importa se nel 2008 la Santanché tradì Berlusconi con Storace, osando perfino candidarsi premier contro di lui? Silvio l’ha perdonata. Anzi, l’ha nominata sottosegretaria otto mesi fa, visto che non avendo raggiunto il quattro per cento è rimasta fuori dal Parlamento, come Bertinotti.

Napoleone amava i colpi di scena. Vinceva battaglie e guerre perché era imprevedibile. Proprio come Silvio. Che dopo la sorpresa del predellino, ce ne sta sicuramente apparecchiando altre. Santanchè compresa.

E poi Giulio Cesare. Al diavolo i cursus honorum: prima di lui, per comandare nell’antica Roma (diventando console) bisognava inerpicarsi in una noiosa carriera da politico di professione: tribuno, questore, edile, pretore, censore... Il divo Giulio fece piazza pulita di tutta questa burocrazia. E così anche Berlusconi, il quale ha magicamente creato dal nulla eurodeputate ventenni e ministri trentenni, senza costringerli a gavette da consiglieri circoscrizionali o provinciali prima di portarli a Strasburgo o al governo. Nulla osta, quindi, che la Santanché venga installata a capo del primo partito d’Italia: in fondo fa politica da undici anni, tempo abbastanza lungo per i fulminei parametri berlusconiani.

E Luigi XIV di Francia? Nella Versailles del ’700 l’importanza dei ministri si misurava con la loro vicinanza al re Sole durante i banchetti. Oggi, con l’«accessibilità» a Berlusconi ad Arcore o a palazzo Grazioli. E da qualche mese la Santanché, invidiatissima, è una delle poche cui Silvio risponde sempre quando lei telefona, o porge l’orecchio se gli sussurra nelle riunioni. Ormai è fidatissima: quasi quanto l’indispensabile Letta e gli scudieri della giustizia, il ministro Alfano e l’avvocato Ghedini.

Se Berlusconi non riuscirà a issare Daniela al comando unico del Pdl, quindi, sarà più che altro per non dispiacere alle altre pretendenti. Si mormora infatti di un triumvirato rosa shocking, con la Santanché affiancata dalle junior Mariastella Gelmini (ex Forza Italia) e Giorgia Meloni (ex An). E ambizioni ne hanno molte altre suscettibili favorite (politiche), dalla veterana Prestigiacomo alla Carfagna, fino alla più recente ma scalpitante Brambilla.

Intanto, l’inesauribile zarina continua a macinare affari, uomini e politica. Dopo la discoteca Billionaire di Porto Cervo con Flavio Briatore e Lele Mora, e lo stabilimento Twiga di Forte dei Marmi (200 euro al giorno, soci ancora Briatore più Paolo Brosio e Marcello Lippi), si è lanciata nella pubblicità. La sua Visibilia (14 milioni di fatturato, 12 di debiti) fino a tre settimane fa riusciva nel miracolo di essere contemporaneamente la concessionaria di due quotidiani concorrenti: Libero e Il Giornale. Adesso Belpietro si è sganciato, accusandola di avere privilegiato Feltri. E si capisce: con il secondo Daniela vorrebbe rilevare la proprietà del Giornale da Paolo Berlusconi, oppure fondare una nuova testata di cui ha già depositato il nome: Fuori dal coro. Intanto, lavora anche per i giornali gratuiti DNews e Metro, e per il nuovo settimanale Io Spio.

Ora poi è anche sentimentalmente legata ad Alessandro Sallusti, numero due di Feltri. E numero tre dei suoi compagni, dopo il chirurgo estetico Paolo Santanchè, sposato nell’82 a soli 21 anni, e l’industriale farmaceutico lucano Canio Mazzaro. Quel che pensa degli uomini che reputa poco decisi, come Fini e gli ex colleghi di An, Daniela lo ha detto chiaramente: «Hanno le palle di velluto». Poi si è corretta: «Ora è estate, ce le hanno di lino». Altre sue frasi passate alla storia: «Per fare carriera non l’ho mai data», e «Berlusconi è ossessionato da me. Tanto non gliela do...»

In politica, la Santanché ultimamente si è specializzata nell’anti-islamismo. Scelta intelligente, lavoro assicurato per i prossimi trent’anni. Richiestissima nei dibattiti tv come interlocutrice aggressiva di imam: baruffa, share e blob garantiti. Una volta è riuscita a dire in diretta: «Maometto era un pedofilo. L’ultima delle sue mogli aveva nove anni». Putiferio. Ora deve girare con la scorta.

Mauro Suttora

Wednesday, May 12, 2010

Le case dei ministri

CASA NOSTRA: I POLITICI A ROMA ABITANO QUI

di Mauro Suttora

Oggi, 12 maggio 2010

Dopo le dimissioni del ministro Claudio Scajola e la scenata tv di Massimo D’Alema, che ha mandato «a farsi fottere» il condirettore del Giornale Alessandro Sallusti per una questione di affitti, sorge spontanea la domanda: quanto pagano i nostri politici per le case in cui vivono a Roma?

Lo abbiamo chiesto a tutti i ministri. Molti non hanno avuto problemi a rispondere. Alcuni nel dettaglio, fino alla data d’acquisto e all’importo del mutuo. Altri, invece, si sono addirittura offesi perla domanda: «Ho diritto alla privacy», ci hanno detto. Un’addetta stampa ha perfino obiettato: «Ci sono i terroristi, il mio ministro ha ricevuto minacce di morte». Come se sapere il prezzo del suo appartamento (mica l’indirizzo) potesse attirare Al Qaeda.

ANAGRAFE PUBBLICA DEGLI ELETTI
Se passasse la proposta radicale del 2008 di istituire un’«Anagrafe pubblica degli eletti e nominati», regnerebbe la trasparenza su centinaia di migliaia di consiglieri comunali e regionali, parlamentari e consulenti.
«Ma finora solo la Camera dei deputati e pochi consigli comunali l’hanno approvata Roma, Torino, Napoli i più grandi. Senza però passare all’attuazione concreta», dice il segretario dei radicali Mario Staderini, il quale tre anni fa sollevò proprio su Oggi il caso di un intero palazzo nel centro di Roma acquistato dal Senato, che adesso si scopre essere finito nei maneggi della «cricca» della Protezione civile.

Siamo allora ricorsi al fai-da-te partendo dal vertice, cioè dai 22 membri del governo. Le ministre più «aperte» sono state le donne. Mariastella Gelmìni (Istruzione) ha dichiarato di pagare 2.500 euro mensili d’affitto per la sua casa romana.

«Io ho comprato un appartamento di 160 metri quadri in centro il 18 febbraio 2009, per 930 mila euro. Ho acceso un mutuo a tasso fisso di 450 mila euro, che me ne costa quattromila al mese», ci ha detto precisissima Mara Carfagna (Pari opportunità). Trasparente anche Giorgia Meloni: «Abitavo con mia madre alla Garbatella, ma lì i prezzi ormai sono troppo alti. Così l’anno scorso ho preso 50 metri quadri con terrazzo all’Ardeatino, per 370 mila col mutuo».

Anche il ministro Roberto Calderoli (Semplificazione) sta in affitto in periferia (65 metri quadri da un privato), e da buon leghista tiene a precisare: «Non ho mai pensato di comprare a Roma, perché ritengo che la casa la si debba acquistare sul territorio, nella città in cui si vive». Riassumiamo le altre risposte nel box della pagina accanto.

Le case hanno fatto soffrire molto i politici negli ultimi quindici anni. Lontani sono i tempi in cui i massimi capi Dc, Psi, Pci e anche Msi (Segni e Amendola, Mancini e Almirante, Pertini e Jervolino) si accontentavano di vivere tutti assieme in case in cooperativa fatte costruire su viale Cristoforo Colombo o al Trionfale, lontanissimo dal centro. Il primo a dar scandalo fu Ciriaco De Mita cui l’Inpdai (l’ente pensionistico dei dirigenti) nell’88 concesse un attico ad affitto irrisorio in via del Tritone.

E per un altro equo canone da un ente a Trastevere Vittorio Feltri tanto bastonò D’Alema con la «Affittopoli» nel ‘95 che l’allora segretario Pds preferì trasferirsi nel quartiere Prati. Assieme a lui finirono sulla graticola altri big beneficiati dall’equo canone: Giuliano Amato in via Veneto, Rocco Buttiglione in via delle Tre Madonne ai Parioli (fra le più eleganti della capitale), Pierferdinando Casini, Franca Chiaromonte, Maura Cossutta, i sindacalisti Franco Marini e Sergio D’Antoni, Clemente Mastella, Luciano Violante, Walter Veltroni.

Nulla d’illegale, e a volte con affitti di tutto rispetto: Buttiglione pagava due milioni e mezzo all’Ira. Ma in altri casi il risparmio era notevole, e sommandolo per venti o trent’anni si arrivava a cifre non lontane da quella che ha inguaiato Scajola.

La seconda puntata dello scandalo è arrivata nel 2007, quando si è scoperto che molte di queste case erano state vendute dagli enti ai politici con grossi sconti. Così Casini ha pagato per cinque appartamenti con 30 vani nello stesso palazzo 1,8 milioni di euro. Li ha dati all’ex moglie, alle due figlie e all’ex suocera. Mastella ha avuto cinque appartamenti con 26 vani più terrazzo e box per 1,2 milioni sul lungotevere Flaminio, più un appartamentone in largo Arenula.

Veltroni ha riscattato 190 mq dietro piazza Fiume per 377 mila euro nel 2005: duemila euro al metro quadro, un terzo delle quotazioni di mercato. Raffaele Bonanni, segretario Cìsl, ha avuto otto vani per 200 mila euro; a Violante soggiorno, quattro camere e terrazzo in zona Fori per 327 mila euro; Francesco Pionati (ex giornalista Tgl, deputato) attico e superattico a Monteverde Vecchio con vista su Trastevere per 260 mila euro del 2001.

Anche le segretarie dei politici ricevono benefici: quella dell’ex ministro della Difesa Arturo Parisi si è vista assegnare una casa in via Margutta dall’Ente di assistenza per i ciechi. Insomma, per essere efficace l’Anagrafe pubblica dovrebbe essere allargata anche ai parenti e ai collaboratori degli eletti.

Mauro Suttora

Wednesday, November 12, 2008

Gli universitari protestano

LE VERE CIFRE DEI TAGLI

Roma, 3 novembre 2008

Il 6 agosto, quando venne approvata la legge finanziaria, nessuno se n’era accorto. Eppure i tagli all’università erano già decisi lì, e ben dettagliati: meno 63 milioni di euro l’anno prossimo, 190 milioni nel 2010, 316 l’anno dopo, fino ai meno 455 del 2013. Ma quasi nessuno protestò. Un po’ perché erano tutti al mare, e un po’ perché un risparmio dello 0,6 per cento sui dieci miliardi e 800 milioni che nel 2009 finiranno all’università statale non sembrava drammatico. Soprattutto per un Paese con 1600 miliardi di debito pubblico, che anche quest’anno spende più di quello che incassa, e che quindi, impegnato al pareggio di bilancio entro il 2012, deve tagliare su tutto.

Poi, in ottobre, sull’onda del decreto sulla scuola elementare della ministra Mariastella Gelmini, gli universitari hanno cominciato a protestare anche loro. E non solo per i tagli. La finanziaria, infatti, ha introdotto altre due misure: il quasi blocco del turnover sul personale (un solo nuovo assunto ogni cinque dipendenti che vanno in pensione), e la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.

«Attacco all’autonomia»

Quest’ultima iniziativa ha fatto tuonare i docenti universitari di sinistra (da Alberto Asor Rosa a Gianni Vattimo, in ordine alfabetico): «È il più grave attacco mai condotto contro l’autonomia e il futuro dell’università italiana», hanno proclamato.

Gli studenti temono che la conseguenza di questa trasformazione sia un forte aumento delle tasse universitarie, che attualmente coprono solo l’11 per cento dei costi delle università statali.

La nuova legge dice che nel caso in cui un ateneo si trasformi in una fondazione e ottenga fondi dai privati, lo Stato ridurrebbe i finanziamenti pubblici per quell’ateneo di tanto denaro quanto ammontano i fondi privati. Per docenti e studenti, che considerano molto remota la possibilità di essere finanziati dai privati, la prima conseguenza di questo provvedimento è un aumento delle tasse universitarie.

«In realtà non si capisce perché si debba passare attraverso la complicazione delle fondazioni», commenta Roberto Perotti, docente della Bocconi e autore del libro L’università truccata (ed. Einaudi, 2008), «invece di consentire, molto semplicemente, di dedurre dall’imponibile le donazioni private all’università».
Inoltre, c’è l’esempio negativo delle fondazioni bancarie: «Introdotte per staccare le casse di risparmio dal settore pubblico, ma diventate il regno del sottobosco politico, fonte di prebende per i politici locali», nota Perotti.

Quanto ai tagli e al blocco al 20% del turnover, la stalla viene chiusa quando i buoi sono già scappati: nei prossimi mesi infatti si svolgeranno concorsi per settemila posti di docenti (quattromila ordinari e associati, tremila ricercatori). Così aumentano in un colpo solo di più del dieci per cento i 60 mila prof oggi di ruolo (ce ne sono poi altri 40 mila fra straordinari, incaricati e a contratto).
«Se questi concorsi andranno in porto, ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno, e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione», avverte l’editorialista del Corriere della Sera Francesco Giavazzi.

E allora perché protestano gli universitari? «Mi sembra una giustificatissima rivolta generale contro la condizione cui sono costretti i giovani in Italia oggi», ci dice Nando dalla Chiesa, fino a maggio sottosegretario all’Università per il centrosinistra e oggi tornato alla sua cattedra di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano. «I ragazzi hanno ragione, anche se fa un po’ specie vederli insieme a qualche barone universitario che difende i suoi fondi e magari non viene a far lezione».

«Molti sprechi da evitare»

«No, questi cortei e occupazioni non hanno alcun senso», ribatte Barbara Mannucci, che a 26 anni è la più giovane deputata del Popolo delle libertà, fresca laureata al Dams di Roma 3: «Siamo in una situazione economica molto difficile, tutti i ministeri sono stati colpiti dai risparmi, e la mia esperienza personale mi dice che ci sono parecchi sprechi che si possono eliminare. A cominciare dalle cinque segretarie e le auto blu per i rettori: perché, non possono usare l’auto o il taxi?».

Per fornire più cattedre ai docenti negli ultimi sette anni i corsi di laurea sono raddoppiati: da 2.400 a 5.500. I prof sono aumentati al ritmo del cinque per cento l’anno. «E io ero costretta a frequentare nella stessa giornata sette corsi diversi», si lamenta la Mannucci, «perché ogni corso è stato spezzettato in tre esami per moltiplicare gli stipendi. Non parliamo poi delle sedi staccate: la Sapienza di Roma ha aperto a Pomezia ben cinque facoltà con sei corsi di laurea, fra cui “Scienze infermieristiche”... Ma quale studente romano andrà mai a Pomezia? E sono tutte spese in più.»

«Bloccare i nuovi atenei»

«In effetti l’autonomia conquistata dalle università negli anni Noventa è stata usata nel modo peggiore», concorda Dalla Chiesa, «perché lo Stato ha detto ai rettori: “Fate quel che volete con i soldi pubblici”. È un meccanismo micidiale, senza alcun criterio di responsabilità. Ma a questo malcostume ha partecipato anche il centrodestra, con la ministra dell’Istruzione Moratti che ha permesso il moltiplicarsi delle università. Quando sono arrivato al ministero, nel 2006, abbiamo fatto appena in tempo a bloccare un nuovo ateneo a Villa San Giovanni. Che ha le università di Reggio Calabria e Messina a pochi chilometri».

Nel 1980 le università in Italia erano 40. Nel 1999 sono aumentate a 75. Oggi sono 95, ma con le sedi staccate si arriva a 330. La Lombardia ha sedi in 29 comuni, la Sicilia in 22, il Piemonte in 21 e il Lazio in 19.
In sette atenei la spesa per il personale supera il 90% del finanziamento statale, in altri 25 l’80. Denuncia uno studente di sinistra: «I miei prof hanno una stampante a colori e un fax ciascuno, mentre nell’università americana che ho frequentato sono in pool, e c’è una ogni dieci docenti».

Insomma, sembra di vivere l’incubo descritto dal filosofo libertario Ivan Illich trent’anni fa, nel suo libro Descolarizzare la società: «Il sistema scolastico, come tutte le burocrazie, serve più ai professori che agli studenti. Così come il sistema sanitario serve più ai medici che ai malati, e quello politico più ai politici di professione che ai cittadini rappresentati».

Gli universitari italiani pagano oggi una media di 720 euro l’anno in tasse (mille in Veneto, Emilia e Lombardia, 450 in Sardegna, Sicilia, Puglia). Ma cosa ricevono in cambio? Un pezzo di carta che serve a poco. L’università si è «democratizzata», il sapere è diventato un «diritto» diffuso, i laureati sono 300 mila all’anno contro i 40 mila di quarant’anni fa. Ma le lauree si sono svalutate.

«Certe università te le tirano dietro», denuncia Dalla Chiesa, «con il meccanismo della conversione in crediti dell’esperienza professionale si possono evitare un sacco di esami. L’immoralità è dilagante. Un esempio? In questi giorni, fateci caso, tutti parlano di “ricerca”. E la didattica? Abbiamo dimenticato che le università sono nate per insegnare? Certo, è noioso per i docenti fare lezione, ricevere gli studenti, seguirli, assisterli, fare gli esami, i seminari, le tesi. Tutti preferiscono fare “ricerca”. Perché? Perché è lì che girano i soldi».
«Il sistema attuale è di una straordinaria iniquità», aggiunge Perotti, «perché le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti. Nessuno viene premiato se è bravo, e nessuno paga per i propri fallimenti».

Che fare, quindi? La soluzione non sono le università private. Che, sorpresa, in Italia sono finanziate anch’esse al 54% con soldi pubblici. Perotti, nella sua brillante requisitoria, non risparmia neppure casa propria. Tornato in Italia a insegnare alla Bocconi nonostante avesse ottenuto una cattedra di ruolo (a vita) alla Columbia di New York, rivela che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa cento persone, e ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell’intera spesa per gli stipendi dei docenti. Calcolando che i migliori professori di economia negli Usa costano 300-400 mila dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi potrebbe costruire il migliore dipartimento d’economia d’Europa».

E stiamo parlando non del corso con otto studenti che l’università di Sassari ha decentrato per motivi clientelari a Tempio Pausania, ma del tempio dell’accademia privata in Italia, che fa pagare quattromila euro l’anno di tasse ai propri universitari.

Mauro Suttora