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Wednesday, March 28, 2007

Impero militare Usa

L’impero delle 737 basi militari

Il Diario, 23 marzo 2007

di Mauro Suttora

Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».

È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.

Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.

Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...

Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».

Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.

Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.

Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.

Wednesday, June 14, 2006

11 settembre: la fantaverità

New York (Stati Uniti)

Sulle Torri gemelle l'ombra del sospetto

«Crollarono perché qualcuno le aveva minate», sostengono i teorici del complotto riuniti in convegno a Chicago. Ecco tutto ciò che non quadra nella versione ufficiale dell’attacco agli Stati Uniti. E che lascia incredulo un americano su tre

Oggi, 14 giugno 2006

di Mauro Suttora

La Cia sapeva. Un anno prima che i quattro aerei dei terroristi islamici si schiantassero sulle Torri Gemelle e sul Pentagono l’11 settembre 2001, provocando tremila morti, una squadra speciale dei servizi segreti militari Usa aveva già individuato Mohamed Atta, capo del commando.

Si chiamava «Able Danger» (Pericolo possibile), quella squadra, ed era stata creata nel 1999 proprio per combattere il terrorismo internazionale e in particolare Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. Perché non lo fermarono?

Di questo e di molti altri misteri si è parlato lo scorso fine settimana a Chicago, durante un congresso dell’associazione «9/11: Revealing the Truth» («11 settembre: Rivelare la verità»), che ha denunciato tutte le contraddizioni che avvolgono la strage. «Ci sono ancora un sacco di aspetti poco chiari sul crollo delle Torri a New York, sull’aereo che avrebbe colpito il Pentagono, e su quello che secondo le versioni ufficiali sarebbe stato fatto cadere dagli stessi viaggiatori, opponendosi ai terroristi che volevano farlo schiantare sulla Casa Bianca», dice Janice Matthews, direttrice dell’organizzazione.

Molti liquidano i sostenitori della «teoria del complotto» come visionari. Ma ben 70 milioni di americani, secondo i sondaggi, non credono al governo e ritengono impossibile che 19 terroristi abbiano potuto circolare impunemente per anni negli Usa.
Curt Weldon, per esempio, è il contrario di un pacifista: 58 anni, da ben venti deputato repubblicano per la Pennsylvania (stesso partito del presidente George Bush junior), vicepresidente della commissione Forze armate.
Nell’estate 2005 Weldon ha lanciato un’accusa gravissima: «L’unità Able Danger aveva identificato Atta e tre complici. Non solo l’allarme cadde nel vuoto, perchè la Cia era gelosa e non voleva invasioni di campo da parte di un’altra agenzia spionistica, ma la squadra venne sciolta nel 2000».

Le accuse di Weldon sono confermate dall’ex direttore dell’Fbi Louis Freeh, dal colonnello decorato che dirigeva la squadra segreta e da quattro suoi colleghi. La traduttrice dell’Fbi Sibel Edmonds, 33 anni, aggiunge: «Ho visto con i miei occhi documenti che dettagliavano attacchi di quel tipo, contro città con grattacieli». Ma il Congresso, nonostante le firme di 235 deputati, non ha mai aperto un’inchiesta sul perchè la Cia insabbiò la preziosa segnalazione.

Il Pentagono, dopo aver sostenuto per mesi che tutta la documentazione sull’attività di Able Danger era stata distrutta, tre settimane fa ha ammesso che esistono 9.500 pagine di documenti che riguardano la squadra. Ha negato però che contengano riferimenti scritti ad Atta. In ogni caso rifiuta di rendere pubbliche le pagine, e impedisce ai propri dirigenti di affrontare l’argomento sotto giuramento davanti al Congresso.

Gli scettici non capiscono come i terroristi abbiano potuto frequentare scuole di volo americane senza essere notati, e chiedono altre indagini sul fallimento delle ben quindici agenzie di spionaggio americano, che nonostante costino ai contribuenti una trentina di miliardi di dollari annui (perfino la cifra totale è segreta), sembrano passare la maggior parte del loro tempo a farsi la guerra fra loro, e non sono riuscite a localizzare né Osama Bin Laden, né il suo vice Al Zawahiri, né il capo dei talebani afgani mullah Omar.

D’altra parte, è da 43 anni che dura il mistero sull’assassinio del presidente John Kennedy. E certo non aiuta a stabilire la verità il comportamento di Cia e Pentagono, che a quasi cinque anni dall’avvenimento oppongono ancora il segreto a una completa ricostruzione dei fatti. «Se rivelassimo certi particolari danneggeremmo la lotta al terrorismo», sostengono le gerarchie militari. Ma quando lo fanno, a volte peggiorano le cose. Come con la recente pubblicazione di alcuni fermo-immagine dell’aereo che si abbatté sul palazzo del Pentagono, quartier generale delle forze armate statunitensi a Washington (che per ironia della sorte venne inaugurato l’11 settembre 1941, esattamente sessant’anni prima dell’attacco).

«L’Fbi tiene sotto sequestro ben 85 videotape dell’attacco al Pentagono», hanno commentato gli scettici a Chicago, «ma ci permette di vedere solo poche e confuse inquadrature di un qualcosa che forse è un aereo, incredibilmente in volo per quasi un chilometro rasoterra, con manovra degna più di un pilota acrobatico che di un terrorista arabo apprendista pilota. Ma potrebbe essere un missile, anche perché un tecnico della Rolls Royce non ha riconosciuto fra i resti quelli del motore abitualmente montato sui Boeing 757. Mostrateci piuttosto le immagini provenienti dalle telecamere del vicino hotel Sheraton, del benzinaio Citgo o del ministero dei Trasporti della Virginia, che presumibilmente sono più chiare».
«Il video del Pentagono non chiarifica nulla, non si vede un aereo in quelle immagini», conferma Michael Berger, portavoce di 911Truth.org.

Fra gli scettici ci sono, comprensibilmente, parecchi familiari delle tremila vittime. E anche dei trecento fra poliziotti e pompieri newyorkesi che si sarebbero salvati se le Torri non fossero cadute. Ed è proprio questo uno dei punti controversi: alcune foto mostrano infatti delle piccole esplosioni avvenire poche secondi prima del crollo, come se nella struttura ci fossero state delle cariche esplosive. Che potrebbero essere benissimo degli scoppi provocati dall’incendio: ma anche in questo caso occorrerebbe più trasparenza da parte delle autorità.

«È impossibile che le strutture di acciaio delle Torri gemelle si siano sciolte per l’incendio», accusa Kevin Ryan, chimico di professione e dirigente della società che ne certificò la solidità. Ed è strano anche che le Torri siano crollate su se stesse, come accade appunto quando si vuole abbattere un edificio sotto controllo, piazzando esplosivi in punti determinati.

Molte altre risposte non sono state date. Eccone alcune.

1) L’antrace: chi mise la micidiale polverina su alcune lettere spedite per posta, ammazzando cinque persone e spargendo terrore per settimane in tutti gli Stati Uniti?

2) Condoleezza Rice: che cosa ha veramente scritto nel suo memorandum su Al Qaeda del 6 agosto 2001 al presidente? Bush non ha mai voluto rivelarne il testo.

3) Perché il ministro della Giustizia John Ashcroft e alcuni dirigenti del Pentagono cancellarono i loro viaggi su voli di linea, prendendo aerei privati nei giorni precedenti l’attacco? Era circolato un allarme?

4) Come mai la potentissima difesa aerea americana, allenata da decenni a intercettare immediatamente il più piccolo aereo sospetto, ci mise 25 minuti per capire che un aereo era stato dirottato e si stava dirigendo su New York? Perché non fece nulla per 47 minuti contro l’aereo che colpì il Pentagono? E come mai nessuno è stato punito per l’inefficienza più grave dai tempi di Pearl Harbor?

5) Viceversa, perché non ipotizzare che il volo 93, caduto in Pennsylvania, sia stato abbattuto da caccia militari? Sarebbe stata un’azione agghiacciante ma necessaria, visto che i terroristi lo stavano dirigendo verso la Casa Bianca. Ora anche un film (che presto arriverà sugli schermi italiani) prende automaticamente per buona la tesi ufficiale di un’eroica resistenza da parte dei passeggeri, che avrebbe causato la caduta.

6) Dove sono finite le quattro scatole nere «indistruttibili» dei due aerei delle Torri Gemelle?

7) Perché il ministro della Difesa Donald Rumsfeld cercò subito di incolpare dell’attacco Saddam Hussein? Aveva bisogno di un casus belli? Nel 2000 un centro studi neocon (servatore) aveva profetizzato testualmente che per far accettare agli americani un aumento delle spese militari c’era bisogno di «un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor».

I sostenitori della teoria del complotto non arrivano ad accusare Bush di avere provocato deliberatamente l’11 settembre, nè di aver chiuso un occhio. Però constatano che le spese militari Usa, che erano di 300 miliardi di dollari annui nel 2001, oggi superano l’astronomica cifra di 500 miliardi.
Esattamente come Bush aveva promesso ai suoi finanziatori delle industrie di armamenti e ai generali in campagna elettorale. «In questo senso, purtroppo, l’11 settembre è stato come il cacio sui maccheroni», commenta il professore universitario Chalmers Johnson, autore del libro 'Le Lacrime dell’Impero', tradotto in Italia l’anno scorso da Garzanti.

Mauro Suttora