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Wednesday, October 29, 2003

Nicolas Cage e la figlia di Presley

CHE BELLO RISPOSARE MIA MOGLIE

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 ottobre 2003

Lui non è nuovo ai ripensamenti: nel febbraio 2000 chiese il divorzio dalla prima moglie Patricia Arquette dopo cinque anni di matrimonio, ma dopo soli cinque giorni cambiò idea. Nel novembre dello stesso anno, tuttavia, fu lei a decidere di separarsi definitivamente, dopo che lui la tradì con Penelope Cruz (oggi fidanzata di Tom Cruise) sul set a Cefalonia del film Il violino del capitano Corelli che stavano girando assieme.

La notizia di questi giorni, tuttavia, è clamorosa: Nicolas Cage, 39 anni, vuole risposare la seconda moglie Lisa Marie Presley, 35 anni, figlia di Elvis, con la quale aveva convissuto per appena 108 giorni l’estate scorsa. E lei è felicissima. L’11 ottobre, infatti, sul palco del suo concerto all’Avalon di Hollywood, era così distesa che ha perfino accennato a qualche passo di danza.
 
Stranissimo, per lei che notoriamente è preda di attacchi di panico ogni volta che si esibisce in pubblico: appariva gentile con tutti, altro comportamento assai inusuale. «Era da mesi che non la vedevo così in forma, di buonumore e sexy», ha confidato un suo amico, «e il concerto è stato ottimo».

La ragione di questa ventata positiva è semplice: Cage le aveva appena telefonato da Filadelfia, dove sta girando un film, confermandole il proprio desiderio di risposarla all’inizio della prossima primavera.
 
Questa volta, però, non sarà più una cerimonia fra pochi intimi, con soli trenta strettissimi parenti e amici invitati, come avvenne lo scorso agosto a Mauna Lani Bay nelle isole Hawaii: i due vogliono che tutto il mondo sappia della loro riconciliazione, ci sarà una festa colossale, e pare che il luogo prescelto sia addirittura Graceland, a Memphis (Tennessee), il palazzo di Elvis dove il cantante rock più famoso di tutti i tempi morì nel ‘77, e che da allora è stato trasformato in un museo con decine di migliaia di visitatori adoranti ogni anno.

Ma cos’è successo di così importante da far cambiare di nuovo idea all’attore premio Oscar e alla cantante che ha venduto 600 mila copie del suo disco To Whom It May Concern uscito in aprile? 
«La verità è che sono fatti l’uno per l’altra», dice un amico della coppia, «si amano ancora e a lui piace il carattere forte di Lisa Marie. Tutte le altre donne con cui Nic è stato non erano alla sua altezza. Siccome lui è un attore famoso, erano succubi e gli dicevano sempre di sì. Si sottomettevano. Ma a lui questo comportamento non interessa».

Si era molto discusso sulle cause del divorzio lampo, l’anno scorso. Secondo alcuni Cage aveva sposato la Presle y soprattutto perchè è un grande fan di Elvis, e stando con la figlia gli sembrava quasi di entrare in contatto più stretto con il fondatore della musica rock. «Tutte cretinate, è di te che sono innamorato», le ha assicurato lui durante due recenti cene intime in un ristorante italiano vicino alla casa di lei nella zona di Hidden Hills, a Los Angeles.
 
Non che la celebrità del padre non sia un fardello notevole per Lisa Marie: «Non sa mai se gli amici e anche i fidanzati sono attirati soprattutto dal suo cognome, e quindi non si fida di nessuno», spiega uno stretto conoscente.

Anche Nicolas Cage, del resto, ha dovuto fare i conti con la fama riflessa: «Lo ammiro proprio per questo», ha dichiarato la Presley, «perchè si è staccato dal cognome Coppola [il regista del Padrino Francis Ford, ndr] e si è costruito una carriera per conto suo. Sia lui che io abbiamo un carattere ribelle e indipendente». 

Quanto siano indipendenti se ne sono accorti nei poco più di tre mesi di convivenza. Lei non sopportava che lui continuasse a passare tanto tempo con i propri amici maschi, in un’atmosfera di goliardia perenne. Si sentiva trascurata, anche per il parecchio tempo che Nic trascorre con il figlio dodicenne Weston, avuto dall’ex fidanzata Kristina Fulton. E non le piaceva che il marito fosse troppo arrendevole e condiscendente con i due figli che lei ha avuto dal primo matrimonio, con il musicista Danny Keough: Danielle, 13 anni, e Benjamin, 11.

La Presley, dopo quella prima relazione, si è sposata brevemente ma disastrosamente con Michael Jackson, e questa disavventura non ha certo giovato al suo equilibrio. Un’altra notevole fonte di disaccordo sembrava fossero i futuri figli: Nic li voleva subito e Lisa Marie no. Oppure viceversa, fatto sta che anche su questo i litigi sono stati continui. 

Entrambi assai focosi, le loro discussioni finivano quasi sempre con uno dei due che se ne andava di casa sbattendo la porta. Cage abita in una specie di finto castello, con tanto di torrette e spalti, nella sterminata zona residenziale di Los Angeles. 

«Le loro litigate, come anche il loro amore, erano assai spontanee», rivela la gola profonda della coppia, «si surriscaldavano per un nonnulla, e ciascuno non voleva cedere semplicemente per una ragione d’orgoglio».

Lo stesso orgoglio che ha impedito a Cage di ritirare l’istanza di separazione che si era quasi subito pentito di aver presentato al tribunale: ormai non poteva più tornare indietro. Un comportamento puerile, finché un pomeriggio, dopo numerose e lunghe telefonate quasi giornaliere, Nic ha preso la motocicletta ed è andato a casa di lei. Dopo un lungo giro si sono fermati sulle colline che sovrastano Hollywood, e hanno entrambi convenuto che erano stati stupidi a lasciarsi. Subito dopo hanno dovuto riconoscere di essere ancora innamorati l’uno dell’altra. «In realtà, a pensarci bene, abbiamo convissuto in totale per appena due settimane», ha ammesso la Presley, «perchè Nic, che è appassionato del proprio lavoro, era sempre via».

Già lo scorso marzo, in diretta televisiva dalla cerimonia degli Oscar (dov’era candidato per il film Adaptation di Spike Jonze), il disperato Cage aveva confessato davanti al mondo intero di essere ancora innamoratissimo della sua Lisa Marie. Poi ha cominciato ad assistere ai suoi concerti ogni volta che poteva, e le ha perfino mandato il suo aereo personale per farla tornare a casa in giornata.

In settembre i due si sono rivisti dopo un concerto di lei alla House of Blues di Las Vegas, si sono chiusi in un albergo e non sono usciti dalla loro camera per due giorni interi. Il legame si è rinsaldato, e fra un mese dovrebbe arrivare l’annuncio: matrimonio bis.
Mauro Suttora

GLI A LTRI DIVORZI FALLITI

Pare che in realtà, giuridicamente, Nicolas Cage e Lisa Marie Presley non abbiano mai divorziato. Lui lo scorso novembre aveva presentato istanza di divorzio, ma lei non ha mai risposto positivamente o negativamente, e gli avvocati di lui non hanno poi più insistito per avere una risposta.
 
Peccato, perché altrimenti, se il divorzio fosse stato formalizzato, la coppia avrebbe battuto lo storico record stabilito 28 anni fa da Elizabeth Taylor e Richard Burton. I quali divorziarono nel giugno 1974 dopo dieci anni di matrimonio (il secondo per lui, il quinto per lei). Ma appena sedici mesi dopo, nell’ottobre '75, si risposarono. 
La seconda unione fra l’attrice americana e il turbolento gallese, tuttavia, non durò molto: meno di un anno dopo, nell’agosto ‘76, divorziarono per la seconda volta. Lei nel dicembre dello stesso anno procedette al settimo matrimonio, con il senatore John Warner (seguito poi da quello con Larry Fortensky, terminato nel ‘97), mentre Burton, prima di morire nell’84 a soli 59 anni per emorragia cerebrale, fece in tempo a sposarsi altre due volte.

Un altro famoso tiramolla fra vip riguarda la bionda pettoruta Pamela Anderson di Baywatch e il marito musicista Tommy Lee: separatisi la prima volta nel '96, si riconciliarono quasi subito e fecero due figli. Nel '98 Lee fu arrestato perchè menava sia la moglie che i figli, e lei chiese il divorzio. Ma l’anno seguente lo perdonò e se lo riprese in casa, solo per separarsi definitivamente nel 2000.

Ci sono poi i casi di John Lennon e Yoko Ono, separatisi per un solo anno nel ‘74, e di Harrison Ford e della moglie Melissa Mathison, che si separarono nel novembre 2000, tornarono assieme sette mesi dopo, ma alla fine si lasciarono quando lui conobbe Calista Flockhart. 

Anche il cantante Eminem pare si sia riconciliato con la moglie Kimberly Mathers, dopo il divorzio dell’ottobre 2001. A casa nostra, infine, sono tornati assieme Claudio Amendola e Francesca Neri, che però non si erano mai sposati.
Mauro Suttora

Wednesday, January 22, 2003

Attori e guerra in Iraq

Presidente, Hollywood non vuole questo brutto film di guerra

I divi del cinema dicono tanti "no" al conflitto contro l' Iraq

"Appoggio la lotta al terrorismo", spiega Whoopi Goldberg, "ma prima bisogna sconfiggere Al Qaeda". "Agiamo solo su mandato dell'Onu", afferma Martin Sheen. E se gli americani sono convinti che Saddam vada spodestato, il dubbio è sui mezzi da usare. Con la domanda di sempre: un intervento per la libertà o per il petrolio ?

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 22 gennaio 2003

Barbra Streisand e Robert Redford sono contrari. Clint Eastwood e Tom Cruise sono a favore. E con loro tutta Hollywood, tutta l' America è divisa. La guerra contro l' Iraq, fortemente voluta da George Bush, non scalda gli animi. Dove è finita l' unanimità con cui quindici mesi fa gli Stati Uniti occuparono l'Afghanistan?

I sondaggi lo ripetono: la grande maggioranza dei cittadini statunitensi ha fiducia in Bush, ed è convinta che al dittatore iracheno Saddam Hussein vada data una lezione. Sul come darla, però, c' è divergenza di opinioni. Anche e soprattutto tra i vip. "Dobbiamo agire soltanto su mandato Onu, come per la guerra del Golfo nel 1991", sostiene l' attore Martin Sheen, che impersona il presidente in una serie Tv, West Wing. Per un finto presidente pacifista, eccone un altro militarista: Harrison Ford, che si rifiuta di firmare gli appelli per la pace.

Il 67 per cento degli statunitensi è favorevole all' invasione dell' Iraq, ma la percentuale cala al 54 quando si fa presente che molti soldati americani potrebbero non tornare. E la maggioranza diventa minoranza di fronte alla tentazione di agire senza aspettare "le lungaggini di quei burocrati delle Nazioni Unite", come dice il quotidiano New York Post.

Il falco dei falchi di Hollywood, questa volta, non è Arnold Schwarzenegger, l' unico repubblicano della famiglia Kennedy. "Terminator" ha dichiarato: "Mi devono ancora convincere che invadere l' Iraq sia l' unica soluzione". Ammansitosi il muscoloso marito di Maria Shriver Kennedy, il divo più bellicoso è Harvey Keitel. L' ex marine ha riproposto la leva: "Non penso sia una buona idea avere forze armate composte solo da volontari. Tutti dovrebbero fare il servizio militare. Ogni giovane deve rendersi conto che talvolta è necessario combattere per difendere le libertà che ci stanno a cuore".

Tra i pacifisti, il più cattivo è Harry Belafonte. Il cantante ha attaccato il segretario di Stato Colin Powell, di colore come lui: "Powell è come uno schiavo della piantagione ammesso dal padrone (il presidente Bush, ndr) a frequentare il suo palazzo, e che ora, per riconoscenza, ripete a pappagallo le sue opinioni". I dubbi di Hollywood riflettono quelli del Paese. Un parallelismo non casuale per un popolo abituato a guardare la politica come una scena sul grande schermo. Così, il direttore della rivista di cinema Variety spiega perché l' opinione pubblica è fredda sull' invasione dell' Iraq: "Al pubblico piacciono i film lineari, senza rimaneggiamenti dell' ultimo momento. Invece, a un certo punto Osama Bin Laden è sparito e Saddam lo ha sostituito nella parte del cattivo".

Ecco, quindi, il commento di Whoopi Goldberg: "Appoggio la guerra contro i terroristi, ma vorrei che prima si finisse il lavoro con Al Qaeda. Poi si potrà portare la democrazia in Iraq con i carri armati". Un anno fa, all' indomani dell' 11 settembre, quasi nessuno a Hollywood osava schierarsi contro la politica estera americana. Anche oggi, però, chi critica Bush qualcosa rischia. I dubbi, infatti, riguardano i mezzi più che il fine, che per l' americano medio si riassume in "Kill Saddam".

Ecco perché molte star, per non diventare impopolari, evitano di prendere posizione: "Sono solo un' attrice", si schermisce Gwyneth Paltrow, "non vedo perché si debba sapere la mia opinione". Per farsi un' opinione, viceversa, c' è chi è andato a Baghdad. Come l' attore Sean Penn, che però, tornato nel continente americano per passare le vacanze di Natale in un lussuoso resort messicano, è stato preso in giro: "Sean, come sta il tuo amico Saddam ?". Penn non s' è limitato al turismo politico: in ottobre ha sborsato 56 mila dollari (circa 56 mila euro) per pagarsi una pagina di pubblicità pacifista sul Washington Post, in cui ha sostenuto che "un attacco preventivo contro una nazione sovrana provocherebbe vergogna e orrore".

Anche Robin Williams è partito per l'Asia. La sua meta è stata l'Afghanistan, per far divertire le truppe americane, sulle orme di John Wayne, ai tempi del Vietnam. E per quanto Warren Beatty consideri assurdo "che chi esprime riserve venga liquidato come non patriottico", silenziosi rimangono i giovani pesi massimi: Julia Roberts, Leonardo DiCaprio, Jennifer Lopez, Ben Affleck, Sandra Bullock o Cameron Diaz.

Pure Bruce Willis, amico di Bush, questa volta tace. Insomma, la gente dello spettacolo sa di muoversi su un terreno minato, e che il radicalismo non paga. Lo sanno il regista Oliver Stone e l' attore Alec Baldwin, che hanno visto le carriere danneggiate dalle sparate anti Bush. O Jessica Lange, che del presidente, chissà perché, ha detto: "Lo odio". O Eric Roberts, il fratello scapestrato di Julia, che si è lanciato in congetture da delirio: "Bush è un fascista e cospira con Osama per distruggere l' economia". Woody Harrelson, sul quotidiano inglese Guardian, ha stigmatizzato "la guerra razzista e imperialista condotta dai guerrafondai che si sono rubati la Casa Bianca". Debole in geografia la Streisand, che ha definito iraniano Saddam.

Per reperire opinioni più meditate, gli americani devono rivolgersi ai giornali. Scalpore ha suscitato la copertina del supplemento domenicale del New York Times dal titolo "Impero americano: facciamoci l' abitudine". Per la prima volta un quotidiano "di sinistra" prendeva atto che ormai gli Stati Uniti sono un impero come quello romano, senza rivali al mondo, e che quindi tocca a Washington mantenere pace e ordine, a costo di apparire imperialisti. Altre verità sulle motivazioni di Bush sono troppo scottanti per poterle pubblicare sulla stampa americana. E così c' è chi si è rivolto all' estero, ai giornali di Londra, patria del "compagno di battaglia" Tony Blair. Come l' anonimo alto funzionario del Pentagono che ammette, sul Sunday Express, come il motivo più pressante della campagna d' Iraq sia la necessità americana di conservare la leadership mondiale: "È reale la minaccia che Saddam disponga di armi di distruzione di massa e le usi. Ci sono, quindi, motivi fondati per affrontarlo. Ma alcuni sono importanti per il presente, altri per il futuro. A lungo termine, il nostro grande rivale sarà la Cina. Il modo migliore di contenere Pechino è rafforzare i nostri alleati in Estremo Oriente: Giappone e Corea del Sud. Le cui economie si basano in gran parte sull'industria petrolchimica. Se controlliamo le riserve di petrolio irachene, possiamo garantire ai nostri alleati la prosperità necessaria per controbilanciare l'espansionismo economico cinese".

Altrettanto esplicita, sul Mirror, Sara Flounders, pacifista dell' American International Action Center: "Le compagnie petrolifere angloamericane vogliono accesso illimitato ai giacimenti iracheni". Non è difficile, ragiona il quotidiano, capire perché Washington ammassi truppe nel Golfo, perché l'esercito statunitense sia presente in ogni Paese produttore di petrolio o confinante con un produttore, perché il 20 per cento dell' enorme bilancio militare americano sia destinato alla difesa di giacimenti petroliferi. Basta ricordare il '91 quando Bush senior, padre dell' attuale presidente, veleggiava su indici di gradimento altissimi dopo la vittoria su Saddam. Pochi mesi dopo, la sua carriera politica era finita: colpa di un rincaro della benzina che gli americani, popolo di automobilisti, non gli perdonarono.

Il Bush di oggi non dimentica e, per tenere stabili i prezzi del petrolio, evitando picchi ma anche crolli, ha fatto accumulare nelle miniere abbandonate del Texas e della Louisiana enormi riserve. Non sufficienti, però, per fare a meno della collaborazione dei sauditi che, con i loro 300 miliardi di barili, fanno il bello e il cattivo tempo sul mercato. Tutto bene, finché sono alleati. Ma, come sottolineano gli esperti di politica ed economia mondiale della Rand Corporation al Pentagono, esiste il rischio che i fondamentalisti islamici spodestino il filoamericano Re Fahd e chiudano i rubinetti, con conseguenze catastrofiche.

Perciò Bush ha fretta di affrancarsi dalla dipendenza verso i sauditi. E lo può fare solo installando a Baghdad un governo amico e mettendo le mani sui giacimenti di Saddam che, come ha osservato il vicepresidente Dick Cheney, "ha sotto il suo sedere il dieci per cento delle riserve mondiali". Paradossalmente, oggi sono proprio i militari i più riluttanti a invadere l'Iraq. Temono di rimanerci invischiati per anni, come capitò in Vietnam e come accade in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Ma, visto che Bush ha aumentato le spese militari da 300 miliardi di dollari a quasi 400 in due anni, è fatale che prima o poi una guerra scoppi. "Anche se sarebbe più economico eliminare Saddam con una sola pallottola", scherza macabro Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca, alludendo all'ingaggio di un possibile sicario. Quanto a chi accusa il petroliere Bush di far guerra per il petrolio, Peter Beinart del prestigioso settimanale New Republic risponde drastico: "E allora? Ci mancherebbe che non difendessimo i nostri interessi. A tutti piace pagare poco la benzina".
Mauro Suttora