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Wednesday, July 12, 2023

La grande fortuna di non essere giudici in un caso di stupro

Ho seguito il processo al figlio di Beppe Grillo, e non vorrei essere nei panni di chi dovrà decidere se uno è stupratore o calunniato, l’altra vittima o calunniatrice, senza vie di mezzo. Storie andate di bevute in frasca e amori consumati sull’inglese dei Rolling Stones

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 12 luglio 2023

"Mi hai stuprato. Ti denuncio".


"Ieri sera alla festa? Ma dopo l'amore abbiamo parlato. Mi sembravi contenta".


"Ero ubriaca".


"Anch'io".


"Hai approfittato di me".


"Ma se mi hai mormorato 'Come on!'"


"Appunto".


"'Come on' vuol dire 'Dai, forza, vai avanti'"


"Neanche per sogno. Significa 'Dai, smettila, fermati'".

Nel 1976 frequentavo l'ultimo anno di liceo (high school) a Madison, Connecticut (Usa) grazie agli scambi Intercultura/Afs. "You raped me, I'll sue you", mi minacciò l'incantevole Cheryl, compagna di scuola. Eppure ero convinto che nella loro canzone "Come On" i Rolling Stones fossero stati chiari: si trattava di un esplicito invito. "And I don't mean maybe", aggiungeva Mick Jagger, "non voglio dire forse". La mia rudimentale conoscenza dell'inglese si basava sui testi rock, e comunque alla fine la graziosa mi graziò. Ma per qualche giorno fu un incubo. 

Per questo non vorrei mai essere un giudice che deve decidere su certe denunce di violenza sessuale assai scivolose. In cui si fronteggiano due versioni indimostrabili dell'intimità più intima, senza testimoni. La mia parola contro la tua.

Lo dimostra il processo surreale che si trascina da ben quattro anni a Tempio Pausania (Sassari) per lo stupro di gruppo di cui è accusato Ciro Grillo, figlio di Beppe. Lo seguo con acribia, è più complicato di un giallo di Agatha Christie. L'ultima udienza si è tenuta lunedì, la prossima il 22 settembre. Ormai ci siamo assuefatti, ci sembra normale che in Italia ogni volta le corti si aggiornino non a domani, come nei film, ma dopo due-tre mesi. La scusa è che "le parti e il collegio giudicante devono avere il tempo di studiare gli atti acquisiti". Eppure il processo Johnny Depp/Amber Heard si è risolto in un mese e mezzo. 

Invece fra registrazioni, video, foto, chat, testimonianze e relazioni, i consulenti hanno inondato i magistrati di Tempio con materiale informatico misurabile non in giga, ma in terabyte. Miliardi di bit, migliaia di pagine di trascrizioni. Un esercito di avvocati, perché i giovani imputati sono quattro e ognuno ne ha nominati due. I genitori dell'accusatrice hanno ingaggiato Giulia Bongiorno, senatrice leghista, ex ministra. A ogni udienza eccoli arrivare tutti in aereo a Olbia da Genova, Roma, Milano con i loro assistenti e valigie colme di hard disk, per poi trasferirsi nel cuore della Gallura fra i boschi di querce da sughero.

Tanto dispiegamento per accertare se in quella notte del luglio 2019 a Porto Cervo, dopo il Billionaire, la ragazza era abbastanza consenziente o troppo ubriaca per un rapporto sessuale. Così, avanti col filmato della telecamera di sorveglianza di un tabaccaio di Abbiadori dove la giovane andò in auto la mattina dopo accompagnata dagli stessi suoi presunti stupratori per comprare le sigarette. Che espressione aveva il suo volto? Tranquilla, disperata, arrabbiata? E poi il testimone istruttore di kitesurf a Porto Pollo con cui aveva appuntamento il giorno dopo per una lezione: "Era stordita, mi disse che aveva fatto una cazzata, aveva bisogno di parlarmi". I talk tv gli hanno offerto soldi per invitarlo, l'Arena di Massimo Giletti ha mostrato un suo video gratis in cui il 45enne geme: "Mi sento violentato anch'io da questo assedio mediatico".

Ai tre poveri giudici prima o poi toccherà emettere una sentenza. Che inevitabilmente trasformerà Ciro e i suoi amici in mostri o martiri, e la ragazza in vittima o calunniatrice. Niente vie di mezzo. Intanto però i loro genitori – tutti – sono accomunati dal salasso di centinaia di migliaia di euro in spese legali. Poi l'appello, poi la Cassazione. E ci si meraviglia che l'accusatrice di Grillo junior abbia fatto passare otto giorni prima di denunciarlo, e quella di Leonardo Apache La Russa 40 giorni?

Se io venissi violentato andrei in commissariato nel giro di due ore, subito dopo la perizia in ospedale. Ma è comprensibile che le ragazze ci mettano giorni prima di realizzare appieno, o che le famiglie ci pensino mille volte prima di imbarcarsi in un costoso calvario pluriennale. Forse la sfortuna di Ciro e Apache è stata quella di (far) finire a letto (con) figlie di benestanti. Perché là fuori, dopo ogni discoteca, in tutte le notti italiane, quante sono le ragazze stuprate o costrette al sesso da figli di papà, ma senza genitori con le spalle abbastanza larghe e le tasche così capienti da potersi permettere avvocati al livello della Bongiorno?

Noialtri provinciali, che siamo dovuti emigrare da Udine fino in America per fare l'amore a 17 anni, non correvamo questi rischi. Possiamo solo ringraziare le bottiglie di Verduzzo fatte bere alle nostre stupende coetanee friulane in osteria o in frasca. Ci hanno aperto varie porte verso il settimo cielo. Un mio amico calcolò scientificamente che occorreva arrivare a due-tre bicchieri per superare la riluttanza, ma mai oltrepassare il quarto perché subentrava il sonno. Era questo il nostro limite, il confine invalicabile fra disinibire e drogare che salvava l'innocenza: era inconcepibile far sesso con una ragazza a sua insaputa. 

D'altronde, quale gusto perverso può esserci nel possedere un corpo inerte, a parte ogni considerazione giuridica sulla mancanza di libero consenso? E chi cianciava di "vis grata puellae" era considerato burino, troglo. Sfigato, soprattutto, perché non riusciva a 'conquistare' con baci e carezze con-vincenti. Eravamo tutti belli brilli, certo, la mattina dopo qualcuna faceva finta di non ricordare bene se si era spinta troppo in là. Certi rimediavano fidanzandosi. Abbiamo cominciato a regalar soldi ad avvocati e a intasare tribunali solo molti anni più tardi, dopo sposati e separati.

Tuesday, April 20, 2021

Grillo scagiona il figlio

“E tutte le vittime tritate dal populismo a 5 Stelle?”

intervista a Mauro Suttora di Federico Ferraù

Ilsussidiario.net, 20 aprile 2021

“Grillo dovrebbe ricordarsi di tutti politici e personaggi tritati dal populismo a 5 Stelle negli ultimi 15 anni, da Bassolino a Bertolaso. Ora è la nemesi”

Arriva e si siede davanti alla webcam. Esplode, subito. “Mio figlio è su tutti i giornali come uno stupratore seriale”. Eccolo il motivo. È un crescendo. Grillo gesticola, urla. Se la prende con l’informazione. Ciro Grillo, il figlio del fondatore e garante del Movimento 5 Stelle, è indagato con tre amici dalla procura di Tempio Pausania con l’accusa di violenza sessuale di gruppo.

I fatti risalgono alla notte tra il 15 e il 16 luglio 2019, la vittima è una ragazza italo-svedese. “Gli stupratori vengono presi e interrogati in galera o ai domiciliari”, invece suo figlio e gli amici “sono lasciati liberi per due anni, perché?”, urla Grillo. “Perché vi siete resi conto che non è vero niente che c’è stato lo stupro. Perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia… vi è sembrato strano. Sì, è strano” grida come una furia il leader di M5s. E ancora: “C’è il video, si vede che lei è consenziente, che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni”. Lo show disperato di Grillo finisce poco dopo.

Un messaggio violento e sessista: le reazioni sono pressoché concordi nel condannare il nuovo abuso mediatico della vittima. La famiglia della ragazza, attraverso il legale Giulia Bongiorno, parla di “farsa ripugnante”. Qualcuno fa notare che dall’exploit di Grillo traspare un’ignoranza completa delle più elementari nozioni di giustizia penale, insieme ad un’immagine della giustizia come arma brutale, la stessa che il giustizialista Grillo ha sventolato per anni nelle piazze. “Io ci ho messo 6 mesi per denunciare la violenza”, dice Federica Daga, deputata M5s.

“Grillo dovrebbe ricordarsi di tutti politici e personaggi tritati dal populismo a 5 Stelle negli ultimi 15 anni, da Bassolino a Bertolaso. Ora è la nemesi” dice Mauro Suttora, giornalista, collaboratore dell’Huffington, giornalista e scrittore, da anni attento osservatore del fenomeno grillino. “In un Paese normale” commenta “il 19 aprile 2021 segnerebbe la fine del Grillo politico”.

Ciro Grillo è innocente fino al terzo grado di giudizio. Se ne parliamo è a motivo del padre, che ieri ha diffuso un messaggio immediatamente subissato di critiche. Perché è intervenuto?

Per una plateale crisi isterica, direi. Non so trovare altri motivi. Non si era mai visto un politico, un comico, un padre, o semplicemente un uomo, perdere la testa in modo così evidente e violento. E volersi mostrare in pubblico, filmandosi e offrendosi online. Se non fosse grottesco, sarebbe tragico: una specie di re Lear al pesto genovese.

Abbiamo visto lo sfogo di un Grillo iper-garantista. I conti tornano?

Guardandolo urlare mi è venuta in mente Federica Guidi, figlia di un potente industriale. Oggi probabilmente nessuno la ricorda, ma fu ministra dello Sviluppo economico dal 2014 al 2016, nel governo Renzi. Se passerà alla storia, sarà per essersi lamentata col fidanzato perché lui la trattava come una “sguattera guatemalteca”. Li intercettavano, e per la soddisfazione di Grillo quelle sue parole furono pubblicate, illegalmente perché erano umiliazioni private, senza alcun nesso con l’accusa di “traffico di influenze” per cui era indagato il fidanzato. Lei no, non era neppure indagata. Però i forcaioli grillini chiesero subito le sue dimissioni, e le ottennero. Un anno dopo il caso fu archiviato, ma alla Guidi non ridiedero la poltrona. Solo che lei ci risparmiò una sceneggiata alla Grillo, cui avrebbe avuto diritto.

Allora chi altri dovrebbe difendere, Grillo, oltre al proprio figlio?

Dovrebbe ricordarsi di tutti politici e personaggi tritati dal populismo a 5 Stelle negli ultimi 15 anni, da Bassolino a Bertolaso. Ora è la nemesi.

“Che Beppe Grillo usi il suo potere mediatico e politico per assolvere il figlio è vergognoso” ha detto la Boschi. Che cosa ci dice dal punto di vista mediatico l’iniziativa di Grillo?

Ci dice che in realtà i meno colpevoli per la disavventura del figlio siamo proprio noi giornalisti. Che abbiamo sempre trattato coi guanti i guai privati dei suoi figli. Tutti sapevamo di certe vicende di droga del passato – non di Ciro – ma nessuno le ha mai sfruttate, la privacy familiare è stata rispettata. E così in questi quasi due anni di inchiesta per il presunto stupro di Porto Cervo. Un’eternità. Quasi tutti i tg non avevano neanche dato la notizia dell’imminente incriminazione. Se il padre non avesse sbroccato, la maggioranza degli italiani l’avrebbe ignorata.

Come commenti le poche difese imbarazzate provenienti da M5s?

È questo il risvolto più grave, da un punto di vista politico. Perché i grillini sono ancora il partito più grosso in Parlamento, e accettano di essere guidati da un uomo con evidenti problemi di equilibrio. I più furbi si sono chiusi in un dignitoso silenzio, ma nessuno osa prenderne le distanze.

Lo sfogo mediatico di Grillo non dovrebbe imporre una svolta garantista?

Il garantismo non lo conoscono, i grillini. Sarebbe come pretendere che un felino diventi vegetariano. Per la legge del contrappasso, il povero Ciro è stato più danneggiato che difeso dalla piazzata paterna.

Come inciderà questa vicenda?

In un Paese normale il 19 aprile 2021 segnerebbe la fine del Grillo politico. Ma un Paese che tre anni fa gli ha dato un terzo dei voti non è normale. I grillini più accorti si sono già riciclati. Di Maio si è definito “liberale e moderato”. Di Battista almeno evita certi trasformismi alla Conte.

A proposito di Conte e non solo lui; in M5s è il caos.

Dopodomani scade l’ultimatum del rampollo Casaleggio, che pretende 450mila euro dai parlamentari grillini. Se non glieli danno, lui si terrà il prezioso indirizzario dei 190mila registrati al Movimento. Ne vedremo di tutti i colori.

Federico Ferraù

Wednesday, May 15, 2013

Giulio Andreotti


Oggi, 6 maggio 2013

di Mauro Suttora

Questa volta è vero. Aveva scherzato tante volte, Giulio Andreotti, sulla propria morte. «La notizia mi pare francamente esagerata», commentava ogni volta che si spargeva la voce di una sua dipartita dopo l’ennesimo ricovero d’urgenza in ospedale per «scompensi» o «malori». Una volta, cinque anni fa, quasi scomparve in diretta tv la domenica pomeriggio. «Presidente…»: Paola Perego gli aveva rivolto una domanda, ma lui restava muto seduto in poltrona, con lo sguardo fisso nel vuoto. Occhi aperti, però. Superata la crisi, l’inevitabile battuta: «Ringrazio il principale per la proroga».

Un anno prima era ancora vivacissimo: nel 2007 lo andai a trovare nel suo ufficio privato di piazza San Lorenzo in Lucina a Roma per un’intervista sulla moschea di Roma, che lui fece costruire in accordo col re saudita negli anni 70. 
Aveva il vezzo di dare appuntamenti a ore impensabili per le latitudini romane: otto in punto. Non c’era più la fedele e mitica segretaria, signora Enea, e lui fissava gli appuntamenti da solo a chi gli telefonava sulla linea diretta. La semplicità del vero potere: niente pompa borbonica, addetti stampa, attese. Poi, appena apriva bocca, il fascino della conversazione ad alto livello: mai una banalità, sempre (auto)ironico, il gusto dell’aneddoto spiazzante, la memoria prodigiosa: «Non è un uomo, è un archivio», dicevano, temendolo, i colleghi democristiani.

Peccato che i grillini non lo abbiano conosciuto. Avrebbero potuto imparare molto da lui, simbolo del potere per mezzo secolo: quintessenza del «regime», ma anche navigatore abilissimo e felpato. Molti ex avversari giurati sono rimasti vittima del suo fascino. Quasi diabolico, e infatti faceva Belzebù di soprannome. 
Era al potere già nel 1945, quando Alcide De Gasperi scelse quel giovane alto e già un po’ curvo, conosciuto nella biblioteca vaticana durante la guerra, come sottogretario alla Presidenza. Perfetta volpe di oratorio, un po’ come Enrico Letta sottosegretario di Romano Prodi nel 2006-8.

Si occupa di cinema, gli piace frequentare attori e registi anche se sono quasi tutti di sinistra. Intanto, comincia a coltivare l’orticello elettorale nel collegio ciociaro. Morto De Gasperi diventa ministro dell’Interno nel primo governo di Amintore Fanfani. Ha solo 34 anni, il più giovane nella storia repubblicana. Da allora è stato ministro ben 26 volte, in dieci dicasteri diversi, e presidente del Consiglio sette volte: tutti record mondiali. 
Otto volte ministro della Difesa, ininterrottamente dal 1959 al ’66. Sono anni difficili: rivolta a Genova nel ’60 contro il governo Tambroni, minacce di golpe nel ’64 contro il primo centrosinistra e l’apertura al Psi. Lì si crea la fama inquietante di uomo della destra dc, con una sua corrente autonoma: piccola, mai più del 12-20%, ma sempre decisiva fra la sinistra e i dorotei.

Nel 1972 è premier la prima volta, in un governo di centrodestra senza i socialisti e col ritorno dei liberali. Poi, la giravolta. Il suo vecchio amico Aldo Moro (gli successe nel ’42 alla guida degli universitari cattolici) gli affida dal ’76 i governi dell’apertura al Pci: «solidarietà nazionale» con la scusa di terroristi e crisi economica, comunisti mai direttamente al governo ma decisivi con l’astensione. E Andreotti a garantire presso americani e ambienti conservatori.

Il dramma del rapimento Moro lo colpisce in pieno. Sceglie la «fermezza» contro le Brigate Rosse: niente trattativa. E quelle uccidono il presidente dc. È un colpo duro: per quattro anni non torna al governo. «La vecchia volpe è finita in pellicceria», si illude Bettino Craxi, segretario Psi. Che però poi ricorre proprio a lui offrendogli l’ennesima giravolta: quando diventa premier nel 1984-87, primo socialista alla guida dell’Italia, gli affida gli Esteri. In pratica Andreotti è il numero due del governo, sempre come copertura a destra.

Ho un ricordo personale del 1987. Avevo scoperto, per il settimanale Europeo di cui il «divo Giulio» (scrittore di successo per l’editore Rizzoli) era commentatore, il traffico di armamenti Valsella-Tirrena-Bofors: l’Italia e altri Paesi europei vendevano armi ed esplosivi a Iran e Iraq in guerra, violando l’embargo Onu. Chiaramente Andreotti sapeva. E chiaramente lo scandalo non finì in copertina. Lui non ne fu toccato.

Nel 1988 Ciriaco De Mita riesce a sconfiggere Craxi e a conquistare palazzo Chigi. Ma dura solo un anno: ultimo giro di valzer, Andreotti cambia cavallo e dalla sinistra demitiana passa alla destra di Arnaldo Forlani. In cambio Craxi gli dà per tre anni, fino al ’92, la guida del governo. È il famoso Caf (Craxi-Andreotti-Forlani).

A 73 anni Giulio, senatore a vita, spera di coronare la carriera al Quirinale. Ma Tangentopoli travolge anche lui, viene eletto Oscar Luigi Scalfaro. Perso il potere, arriva l’accusa più tremenda: complice della mafia. Il suo proconsole siciliano, Salvo Lima, assassinato per aver violato qualche patto. Andreotti accusato da un pentito di avere baciato il boss Totò Riina. 
Ma lui non fa come Silvio Berlusconi, non grida al complotto dei magistrati. Si sottopone docilmente al processo per dieci anni, difeso dagli avvocati Franco Coppi (oggi legale di Berlusconi) e Giulia Bongiorno. Nel 2003 la Cassazione lo assolve per i fatti dopo il 1980. Per quelli precedenti, scatta la prescrizione.
Altra grande ombra su Andreotti: l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Condannato in appello a 24 anni, assolto in Cassazione. Ma sono tanti i segreti che l’uomo più imperturbabile d’Italia si porta nella tomba.
Mauro Suttora

Wednesday, September 01, 2010

Fare futuro

LE PROVOCAZIONI DI FILIPPO ROSSI E DEGLI ALTRI GIORNALISTI FINIANI

di Mauro Suttora

Oggi, 25 agosto 2010

Provate a cercare su Google la parola «Fare futuro». Il nome della fondazione di Gianfranco Fini batte «fare l’amore» e «fare soldi» per cinque milioni di risultati contro mezzo milione e 400 mila, rispettivamente. Incredibile: le due attività più piacevoli della vita stracciate da un sito politico. Questo spiega ed è spiegato (causa ed effetto) dall’estate più pazza nella storia dei partiti italiani: un intero agosto passato da tv e giornali a registrare ogni sospiro di Fini e del suo nuovo avversario, il premier Silvio Berlusconi che lo rese «presentabile» nel 1993, e col quale appena due anni fa aveva fondato il Popolo della Libertà.

«Il berlusconismo è fatto di ricatti, menzogne, editti e killeraggio», ha scritto Filippo Rossi, direttore della rivista online di Fare futuro. Definizione durissima, che neppure gli oppositori del Partito democratico userebbero. Ormai siamo in territorio Di Pietro-Grillo. Presa di distanza immediata, quindi da parte dei 44 parlamentari transfughi finiani: «Editoriale fuori misura», hanno tagliato corto i capigruppo Italo Bocchino e Pasquale Viespoli.

Ma l’autore non fa marcia indietro: «A Fare futuro siamo commentatori e giornalisti», ci dice Rossi, «non facciamo direttamente politica, ma cultura. E registriamo sensazioni che abbiamo dentro di noi o attorno a noi».
Rossi come Vittorio Feltri? Il direttore del webmagazine finiano come quello de Il Giornale berlusconiano, che dopo la rottura non lascia passar giorno senza un titolo a nove colonne in prima pagina contro Fini? Giornalisti entrambi, Rossi e Feltri mitragliano all’impazzata. Poi arrivano i politici a smentire, attenuare, minimizzare. Ma intanto il danno è fatto, le parole sono state dette e scritte, il clima avvelenato.

Rossi non accetta il paragone con Feltri (o con Maurizio Belpietro, direttore di Libero, l’altro quotidiano belusconofilo altrettanto aggressivo): «Noi facciamo analisi politiche, non attacchi personali». Beh, accusare i berlusconiani di essere dei killer... «E cosa fanno da un anno, se non accusare Fini di qualsiasi nefandezza? Gettano cacca nel ventilatore, e alla fine qualche schizzo resta attaccato. Si sono ridotti ad attaccare il fratello della compagna di Fini, oppure a rovistare fra le fatture di una cucina Scavolini».

A proposito: non sarebbe meglio che Fini, per tacitare le accuse, dicesse sempre tutto e subito?
«In che senso?»
Che spieghi chi c’è dietro le società fantasma che hanno acquistato la casa di Montecarlo affittata dal fratello della sua compagna Elisabetta Tulliani, e se quella cucina l’ha comprata per lui. Magari aggiungendo: «Se ho commesso qualche stupidaggine, l’ho fatto per amore». Gli italiani capirebbero. Almeno quelli che tengono famiglia. Cioè quasi tutti.

«Ma figurarsi se il presidente della Camera deve abbassarsi a rispondere. Non può partecipare a questo gioco al massacro. Ha già dato abbastanza spiegazioni. D’altra parte, lo stesso Feltri ammette che si tratta soltanto di “questioni di galateo politico”. Non stiamo parlando certo di reati, di cui invece sono formalmente accusati vari dirigenti berlusconiani. Insomma, non è ridicolo che tutto il dibattito politico di una nazione, con i problemi che abbiamo, debba ruotare attorno a un piano rialzato a Montecarlo, una cucina componibile, una schedina Enalotto?»
Beh, è capitato anche a Clinton e Monica, a Sarkozy e Carla.
«Ecco. Invece noi vorremmo parlare di politica, possibilmente».

À la guerre comme à la guerre, però. Quindi, adesso ai giornali berlusconiani Elisabetta Tulliani risponde solo con querele: contro Il Giornale, Libero, il settimanale Panorama. Una linea dura suggerita probabilmente da Giulia Bongiorno, l’avvocata-deputata in questi giorni più vicina alla coppia Fini-Tulliani. Era stata lei a mettere una pietra tombale sul primo matrimonio di Fini con Daniela Di Sotto, trovando un accordo che impedisse alla signora di recriminare. Ora, invece, nessuna spiegazione all’opinione pubblica, nessun cedimento.

E poi ci sono i giornalisti mandati avanti a lanciare provocazioni, un po’ come vent’anni fa Gorbacev utilizzava Eltsin, «kamikaze della perestroika». Oltre a Rossi (ex Tempo e Italia Settimanale di Marcello Veneziani e Pietrangelo Buttafuoco) fra i finiani brilla la stella di Flavia Perina, direttrice del quotidiano dell’ex An, Il Secolo. Una somiglianza con la governatrice del Lazio Renata Polverini, ogni volta che apre bocca è un carico da novanta. I metodi del Pdl? «Stalinisti». La legge sul «processo breve», ritenuta non trattabile da Berlusconi? «Deve servire solo a snellire la macchina della giustizia». E poi, sul suo giornale, giù paginate urticanti per i benpensanti della destra vandeana. «Aperture» su tutto: coppie di fatto, testamento biologico, cittadinanza agli immigrati, procreazione assistita...
Gli ex missini sono diventati radicali? Hanno rubato loro il mestiere di baluardo della laicità? Con «dibattiti culturali» come questi, da parte dei finiani, scintille garantite.

Mauro Suttora