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Friday, May 05, 2023

Il déjà-vu. Che peccato, non conosciamo più né i francesi né il francese

Se, come fino a pochi anni fa, ricominciassimo a studiare Molière e Camus, o ad ascoltare Brassens, forse litigheremmo meno. Brevi cenni a una fratellanza che è un peccato smarrire

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 maggio 2023

Il predecessore del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il quale offeso cancella un incontro con la sua omologa francese, andò a Parigi per congratularsi con i teppisti in gilet giallo che mettevano a ferro e a fuoco i boulevards, in odio a Emmanuel Macron. Tanto sgarbo istituzionale non impedì però al presidente francese di incontrare l’ineffabile Luigi Di Maio il quale, dopo un miracolo e due o tre capriole, decise infine di indossare il gilet dell’apprendista statista (e, per scusarsi, si dichiarò ammiratore della “millenaria” democrazia francese. Forse si era confuso con Atene). 

Il problema però, al di là del cabaret politico, esiste e resiste: non pochi italiani detestano i francesi. Quanti italiani? Sicuramente sono aumentati più di qualche decennio fa. Perché? Una delle ragioni, la più semplice e banale, è che non li conosciamo più. 

Fino agli anni Ottanta metà delle cattedre di lingua straniera alle medie inferiori erano di francese (compresa quella di mia madre). Poi ha prevalso l’inglese, giustamente, cosicché oggi quasi nessun italiano under 50 parla francese. E quel che è peggio ignora la cultura della Francia, da Molière ad Albert Camus. Perfino in zone di frontiera come Ventimiglia solo il 10 per cento dei nostri studenti impara il francese.

Risultato: quelli che erano i nostri fratelli, assieme agli spagnoli, ora ci sembrano estranei. Nessuno pronuncia bene menu e déjà-vu, non parliamo di Champs-Élysées. I romani poi, soprattutto in Rai, dicono Courmayer per impedimento glottologico. Dalida, Sylvie Vartan e Françoise Hardy erano ogni settimana in tv, i nostri attori preferiti erano Alain Delon e BB. Ora qualcuno conosce un cantante francese?

È subentrato addirittura astio: ho visto la finale mondiale Francia-Croazia del 2018 in un albergo pugliese, quasi tutti stavano per i croati. Ho chiesto perché: mi risposero che era Africa-Croazia, troppi neri francesi.

I nostri antifascisti, da Sandro Pertini ai fratelli Rosselli, si rifugiavano in Francia. Più recentemente con discutibili motivazioni Parigi ha concesso asilo a ex terroristi. Ma comunque è lì che scappa chi ha problemi con la giustizia: dietro casa, quasi a casa. 

Un mese fa il Salone del libro francese ha onorato l’Italia, celebrandola come Paese ospite d’onore. In quella occasione Alessandro Baricco ha ricordato che per lui e i giovani torinesi era più facile, rapido e semplice andare in treno a Parigi che a Roma, se si voleva raggiungere una capitale europea. Adesso invece qualche esagitato protesta contro il Tav che dimezzerà le otto ore del Torino-Parigi, così come l’alta velocita ha fatto col Torino-Roma.

Pure io andavo ogni anno a Parigi e ogni estate in Costa Azzurra, come tanti sono cresciuto quasi bilingue, ora leggo Michel Houellebecq in originale. La controcultura, cioè la cultura moderna, è nata in Inghilterra con i Beatles e negli Stati Uniti con la contestazione studentesca. Ma tutti ricordano il Maggio ’68 di Parigi, non il ’64 di Berkeley. E gli esistenzialisti francesi degli anni Cinquanta, da Jean-Paul Sartre a Georges Brassens (padre di Fabrizio De André), alla distanza dimostrano più spessore culturale dei poeti beat Usa Allen Ginsberg o Jack Kerouak. 

Sì, lo so che i francesi usano la locuzione italiana “dolcefarniente” per definirci fra l’invidia e il fastidio, che le cose fatte male per loro sono “grossomodò”. La speranza è che grazie a Erasmus e ai voli low cost la conoscenza diretta riprenda e le cose si sistemino. Le Alpi non sono alte, e comunque Emmanuel Macron e Giorgia Meloni sono alti uguale. 

Wednesday, April 15, 2009

Il cowboy di Castelliri

ANITO E LE SUE MUCCHE, SOLO CONTRO TUTTI

Castelliri (Frosinone), 15 aprile 2009

dal nostro inviato Mauro Suttora

E morto il vitellino appena nato. Mentre Anito De Gasperis era in ospedale, la mucca che lo ha partorito di notte nel bosco non è riuscita a riscaldarlo abbastanza. Il figlio di Anito ha chiamato il veterinario, sono corsi su, lo hanno avvolto in una coperta: troppo tardi, troppo freddo.

Anito è il mandriano di Castelliri (Frosinone) diventato famoso dopo le sue due apparizioni su Striscia la notizia: i tremila compaesani lo odiano perché le sue mucche invadono i loro terreni, rovinandoli. «L’anno scorso le tue uàcc mi song mangiat tutt il granone!», gli ha urlato in faccia una donna.

Anito, che si chiama così in omaggio alla focosa Anita moglie di Garibaldi, ha fatto onore al suo nome e non si è tirato indietro durante le risse televisive: «Parli con la faccia o con il c…?», ha apostrofato il sindaco omonimo Sandro De Gasperis («Parente? No, per carità»). Un altro paesano si è beccato un «’mbecill», un altro «’mbrugliunn», finché una donna lo ha minacciato agitandogli la mano a due centimetri dal viso: «Ca tong ‘na pizza, mannaggia!»

Spettacolari baruffe ciociare finite su Youtube e Facebook, aizzate da Capitan Ventosa: quel tizio di Striscia che va in giro a vendicare soprusi con lo sturacessi in testa. Alla fine però Anito, circondato da decine di paesani infuriati, viene spinto, cade, batte la testa, sviene e finisce all’ospedale di Sora.

Lo incontriamo quando torna a casa, pochi giorni dopo: nulla di grave. Intanto, però, il vitello è morto. A parte la tristezza per quegli occhioni sbarrati del cadavere in cortile, è un danno anche economico: «I vitelli me li pagano 2.500 euro se li porto al mattatoio, se invece li macello io valgono cinquemila», spiega. E attacca il sindaco: «Tutta colpa sua. Sono dieci anni che mi perseguita, aizza tutti contro di me. Ha fatto venire Striscia e non sa che mi ha fatto un favore, perché prima l’avevo chiamata io tre-quattro volte, ma non mi avevano risposto».

In questa Italia da Far West dove per risolvere le liti fra cowboys e agricoltori si va in tv, Anito ci espone le sue ragioni: «Castelliri ha 1.200 ettari di bosco comunale, in montagna. Qui è Lazio, ma fino al 1860 c’erano i Borboni, non il Papa. Da sempre gli abitanti possono pascolare e raccogliere legna e funghi nella foresta. Io mi limito a esercitare il diritto di pascolo pagando regolarmente la “fida” al Comune, e rispettando gli usi civici».

La accusano di spadroneggiare con il suo bestiame, di rovinare gli ulivi nei campi altrui.
Anito s’infervora: «Sono loro a occupare abusivamente ettari ed ettari di terre civiche, senza che nessuno si preoccupi di reintegrarle nel demanio collettivo! Venite, venite su e vi faccio vedere».

Ci inerpichiamo per i monti Simbruini sotto la pioggia, sulla jeep. Metà delle sue 80 mucche e 40 vitelli stanno in un avvallamento del bosco in una situazione penosa: il recinto è pieno di fango, dove affondano per metà le zampe degli animali.

Perché non le tiene riparate sotto un capannone? Basta questa domanda a dare la stura a un fiume in piena: «E quello che chiedo da sempre al sindaco, ma dice che per costruire ci vogliono trentamila metri quadri di terreno…» E poi via a forza di Pua (Piani urbanistici attuativi), contributi comunitari, diffide, regolamenti e verifiche demaniali.

In questi dieci anni Anito è diventato espertissimo di leggi, ci mostra documenti dell’800 e mappe con tutte le particelle del territorio di Castelliri. «Mi hanno denunciato ottanta volte per pascolo abusivo: mai condannato. Tre uomini incappucciati mi hanno aggredito: venti punti in testa. Pochi giorni fa il tribunale di Sora ha annullato una multa di 50 mila euro della guardia di finanza, e così ha sbloccato i contributi europei». Che sono ? «Sessantamila euro l’anno, 500 a capo. Però me ne hanno fatti spendere centomila in avvocati, ho solo debiti».

Saliamo ancora per la foresta, dall’altra parte c’è l’Abruzzo. Arriviamo a un altipiano dove stanno pascolando le altre mucche, ecco una staccionata di legno lungo la provinciale per Sora: «L’avevo fatta per proteggerle dalle auto, ma il sindaco me l’ha demolita a metà. Invece i proprietari di un mobilificio hanno potuto mettere questa cancellata di ferro».

Il terreno non è loro? «Le terre demaniali non si possono vendere né prendere per usucapione, sono di tutti. Si possono dare in concessione, ma solo ai residenti del comune».

Il figlio maggiore di Anito, Danilo, è tornato da Torino, dove si sta laureando in ingegneria meccanica, per aiutare suo fratello Sergio, 21 anni, che lavora alla Fiat di Cassino, a tenere le mucche mentre il padre era in ospedale. Ora le spinge giù verso il recinto, a fine giornata. «Tutte vacche marchigiane di razza: non fanno latte, ma la carne è pregiata».

Insomma, Anito, di quanti ettari ha bisogno? «Quattrocento». Un po’ tanti: un terzo del bosco demaniale di Castelliri. «Ma ogni mucca per pascolare ha bisogno di un ettaro di prato, oppure di quattro ettari di bosco». E non può dargli fieno? «No, perché la carne me la pagano cinque euro al chilo, e il fieno costa sei». Ma le mucche non rovinano il sottobosco, mangiando tutti i germogli? «No, quelle sono le capre. Le mucche sono ghiotte di erbacce e trifoglio, disboscano e fanno bene agli alberi».

Ci sono altri allevatori nella zona? «Sì, nei comuni vicini: Sora, Veroli. A Castelliri sono l’unico. Ma col sindaco di prima non avevo problemi».

Come nella canzone di Georges Brassens La cattiva reputazione, Anito in paese non ha amici. Non gli resta che sperare nel prossimo sindaco, che verrà eletto fra due mesi. Quello attuale deve lasciare, dopo dieci anni.

Intanto, per risolvere il caso del cowboy di Castelliri, a Frosinone si è riunito d’urgenza in prefettura il Comitato provinciale per la sicurezza. Presente l’intero gotha delle autorità: prefetto, viceprefetti, procuratore capo, questore, comandanti provinciali di carabinieri, guardia di finanza, forestale e guardie provinciali, direttore dell’Asl, responsabile del servizio veterinario…
La guerra di Anito contro tutti continua.

Mauro Suttora

Saturday, December 22, 2001

Davide Van De Sfroos

Foglio, 22 dicembre 2001

di Mauro Suttora

Van De Sfroos non è un ciclista fiammingo. E’ il nome d’arte di Davide Bernasconi, cantautore dialettale comasco di 36 anni: «van de sfroos» in lariano significa «vanno di frodo». Contrabbandieri e irregolari sono infatti i personaggi delle canzoni di questo artista-rivelazione, che sta collezionando tutti esauriti in ogni concerto che tiene in Lombardia e Svizzera italiana. Così c’è il Bestia, «castig del Signuur, semper spurceleent e vestii cun’t un sacch, ma no l’era mai stracch» («castigo del Signore, sempre sporco e vestito con un sacco, ma non era mai stanco»). C’è quell’altro con «gli occhiali da tafano dell’autogrill di Fiorenzuola, pilota de la malura che scià el Gilera de rüvà ved mea l’ura» («...pilota della malora che sul Gilera di arrivare non vede l’ora»). E c’è naturalmente anche il cuoco del Grand Hotel, come su ogni lago che si rispetti, figura degna di quello di Salò cantato da Francesco De Gregori, solo che questo ha «il maa de schena, e l’è giamò ciucch a la matèna» («il mal di schiena, ed è già ubriaco alla mattina»).

Van de Sfroos, questa specie di Paolo Conte dell’Insubria, è diventato il mito nascosto della Lombardia settentrionale. Riesce a mettere d’accordo tutti: leghisti, ciellini, comunisti, forzisti. Ha vinto il premio Tenco del 1999, e il suo disco «Breva & Tivàn» (i due venti che soffiano regolarmente sul lago di Como, uno al mattino e l’altro al pomeriggio, permettendo per secoli ai «lagheè», gli abitanti del lago, di spostarsi da un paese all’altro), autoprodotto e senza una vera distribuzione, ha venduto 35mila copie spontaneamente, con la sola forza del passaparola.

Ora è uscito il nuovo «E semm partii...» (Siamo partiti), disco di folk rock che ne riconferma la fantasiosa vena poetica. Sul palco del teatro Smeraldo, a Milano, Lella Costa ha voluto leggere le sue poesie. E Ale e Franz, anche loro calati in pianura dalle prealpi (sono i comici sfigati che suonavano al citofono di «Mai dire gol»), lo hanno accompagnato con le loro battute surreali.

Il mondo di Van De Sfroos è pieno di personaggi stralunati, cantati con il suo vocione da cantastorie padano a metà fra Pierangelo Bertoli e Ligabue. Dopo i concerti, che tiene in posti dai nomi buffi come Uggiate Trevano, Zingonia, Guanzate o Tavernerio, giovani e vecchi portano sul palco ingrandimenti fotografici da firmare, bottiglie di vino e salami caserecci.

Da queste parti, fra Valtellina a nord, Brianza a sud, Svizzera a est e Orobie a ovest, il contrabbando è sempre stato qualcosa di più di un espediente per sopravvivere: fa parte della storia di ogni valle, paese e famiglia, dove c’è spesso un nonno o uno zio che andava «de sfroos». Almeno fino agli anni ‘70, quando le cose si sono incattivite e agli spalloni con sigarette e robe da poco si sono sostituiti i mafiosi con pacchi di soldi, droga e armi.

Ma è rimasta l’atavica voglia di libertà, l’insofferenza per le frontiere, la spinta di partire che fa cantare a Van de Sfroos «E sèmm partii per questa America sugnàda in pressa, una valisa che gh’è deent nagòtt, cumè tocch de vedru de un biceer a tocch...» («Siamo partiti per questa America sognata in fretta, una valigia con dentro niente, come pezzi di vetro di un bicchiere rotto...)

Van De Sfroos sa giocare con la nostalgia, e nella canzone «Television» («Quanti dé, quanti nocc su quii pultrùnn, cun chel butùn, come un cujun...»: quanti giorni, quante notti su quella poltrona, con quel bottone, come un coglione...) c’è uno dei versi più belli del suo ultimo disco. Quando, ricordando la notte del luglio 1969 in cui gli astronauti arrivarono sulla Luna, commenta amaro: «Perchè i naven sö la Loena e i purtaven a cà i sass, e in giir sö la Tèra segütàven a cupàss» («Andavano sulla Luna e portavano a casa i sassi, e in giro sulla Terra continuavano a uccidersi»).
La musica è curatissima e moderna: va a ritmo di ska, rock, punk, reggae, in cui perfino uno strumento intrinsecamente triste come la fisarmonica riesce a colorare una melodia, rendendola sorridente.

Il 7 dicembre la città di Milano ha premiato con la sua più alta onoreficenza, l’Ambrogino d’oro, un altro grande cantante dialettale lombardo, Nanni Svampa. Lui è milanese. Anzi, franco-milanese, perché forse le sue canzoni più belle sono quelle ispirate da Georges Brassens, il papà di tutti i cantautori di livello (da Georges Moustaki a Fabrizio De André) scomparso esattamente vent’anni fa. Van De Sfroos si colloca in questa scia, dove la musica profuma di poesia e confina con l’anarchia.