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Monday, September 13, 2021

Perù: Abimael Guzman, un vivace assassino seriale arrivato fuori tempo massimo

La crudeltà estrema del fondatore di Sendero Luminoso lo ha esentato dalla curiosa ammirazione di certi europei per altri 'comandanti' o sub

di Mauro Suttora

HuffPost, 13 settembre 2021

La colpa più grande di Abimael Guzman, il fondatore peruviano di Sendero Luminoso morto in carcere a 86 anni, è quella di essere arrivato fuori tempo massimo.

In ritardo di vent'anni su Fidel Castro e Che Guevara, e di dieci sugli altri gruppi rivoluzionari sudamericani che accesero l'immaginazione di tanti nostri giovani: i tupamaros uruguayani, i montoneros argentini.

Nel 1973, appena entrato al liceo classico Sarpi di Bergamo, fui accolto da un cineforum con questi quattro film: Z L'Orgia del potere e L'Amerikano di Costa-Gavras, La Battaglia di Algeri e Queimada di Gillo Pontecorvo. Se non si diventava terroristi dopo tale scorpacciata, era un miracolo.

L'esordio di Sendero Luminoso in Perù avvenne molto dopo, all'inizio degli anni '80. Ma il suo comandante, il compagno Gonzalo, ci mise poco a superare il bilancio di sangue degli altri Paesi latinoamericani. Il terrorismo maoista è costato 70mila morti al Perù (metà vittime dei guerriglieri, metà del governo di Alberto Fujimori): il doppio dell'Argentina, venti volte più di Pinochet in Cile, duecento volte più dei 300 morti in Uruguay.

Insomma, Guzman è stato un vivace assassino seriale, più simile al cambogiano Pol Pot che ai rivoluzionari del suo continente.

Questa estrema crudeltà lo ha salvato dalla curiosa ammirazione di certi europei per altri 'comandanti' o sub, dal messicano Marcos del Chiapas zapatista al venezuelano Chavez. Come ha spiegato Mario Vargas Llosa, abbiamo occhi romantici che traslocano con la fantasia in America Latina i nostri sogni politici, non potendo realizzarli (per fortuna) a casa nostra.

Il figlio del premio Nobel peruviano, Alvaro Vargas Llosa, è stato più severo: nel 1997 ha compilato il 'Manuale del perfetto idiota italo-latino americano' (edito da Bietti, oggi purtroppo introvabile), con staffilate per la nostra propensione a spiegare tutte le (grandi e vere) ingiustizie di quel continente con lo schema loro/noi: loro sono poveri perché noi siamo ricchi, borghesi, sfruttatori e, se non amerikani, occidentali.

Questo era il credo del comandante Gonzalo. Allievo di liceo privato cattolico come Marcos, e come lui laureato e poi prof universitario di filosofia. Per riscattare la vergognosa miseria degli indios in Ayacucho ha voluto imitare Mao, e nel 1965 ha frequentato in Cina un corso di guerriglia imparando a confezionare bombe, come racconta Gabriella Saba nel bel libro 'Un continente da favola. Trenta leggendarie storie latinoamericane' (Rosenberg & Sellier, 2018).

La prima azione nonviolenta nel 1980, un falò di schede elettorali.

Poi, la spirale del terrore. Tutto il credito che Sendero Luminoso aveva accumulato fornendo assistenza sanitaria e istruzione ai campesinos diseredati fu presto sperperato nelle rappresaglie contro i villaggi  sospettati di collaborare col governo peruviano. 

Il quale, quanto a ferocia, non si tirò indietro: l'83enne ex presidente Fujimori ora si trova pure lui in carcere per le stragi dei suoi paramilitari, così come il suo capo dei Servizi segreti Montesinos, che nel 1992 catturò Guzman in una villa di Lima grazie alla traccia delle medicine contro la psoriasi che il capo guerrigliero lasciava nella spazzatura.

Durante gli ultimi trent'anni in carcere il comandante ha lanciato appelli per la fine della lotta armata. Ma lo scorso maggio gli ultimi terroristi di Sendero Luminoso, ormai trasformatisi in trafficanti di coca, hanno fatto ancora 16 morti.

Mauro Suttora 

Monday, January 25, 2016

Sean Penn e El Chapo


Centomila morti dal 2005. Migliaia di desaparecidos. Fosse comuni con i cadaveri di studenti che hanno osato ribellarsi ai trafficanti. Il Messico è da quasi mezzo secolo in guerra per la droga. E dal 2003 Joaquin Guzman, detto El Chapo, è il capo assoluto dei boss che esportano eroina, coca, anfetamine e marijuana negli Stati Uniti.

«Più potente di Pablo Escobar», dicono i dirigenti della Dea (Drug Enforcement Agency) americana, ricordando il criminale colombiano del cartello di Medellin ucciso nel 1993. Come Escobar, el Chapo controlla una delle principali industrie del suo Paese. Si vanta di possedere una flotta di navi, aerei, tir e perfino sottomarini per il suo traffico multimiliardario. Ma proprio questa sua vanteria, fatta all’attore Sean Penn in un’intervista clandestina per la rivista Usa Rolling Stone, lo ha tradito.

Gli agenti messicani, seguendo le tracce di Penn e della sua bella intermediaria, l’attrice messicana di telenovelas Kate del Castillo, hanno scoperto il suo rifugio segreto. Nonostante tutte le precauzioni usate dall’attore: «Buttavo i telefonini dopo averli usati una sola volta, indirizzi e-mail anonimi e messaggi criptati».

Niente da fare. Sean Penn ha funzionato da esca inconsapevole, e dopo due mesi di appostamenti i poliziotti hanno individuato el Chapo. Ancora una volta, come quando evase di prigione lo scorso luglio, il boss si è calato nelle fogne ed è riemerso da un tombino con la propria guardia del corpo a centinaia di metri dalla villa dove si nascondeva. Imbracciando un mitra ha fermato una macchina e ha continuato la fuga. Ma ormai era braccato dagli elicotteri, e alla fine ha dovuto arrendersi.

Ora Sean Penn rischia grosso. Il suo pseudoscoop significa complicità e favoreggiamento. Le domande rivolte al Chapo sono ridicole: «Tanto valeva che gli dicesse “Parli di un argomento a piacere, cominci da dove vuole e dica quel che le pare”», dice a Oggi Gabriella Saba, esperta di letteratura latino-americana. «Sean Penn è anti-yankee, vede el Chapo come Robin Hood e, nel caso fosse andato in porto il suo progetto di film sul boss, mi domando come avrebbe conciliato il culto di se stesso con quello del suo idolo. La prima domanda da fargli in realtà era: quanti giornalisti ha fatto uccidere?»

Invece el Chapo ci ha informati di avere spedito tre mesi in Germania suoi ingegneri, per imparare a scavare la galleria di un chilometro e mezzo in cui è fuggito dal carcere di massima sicurezza. Dice di non essere violento («Mi limito a difendermi»), e vorrebbe tanto un film sulla propria vita.
Fra le tante imprese del miliardario pluriassassino (trentesimo nella classifica degli uomini più potenti al mondo), il capolavoro forse è stato il suo terzo matrimonio con una delle donne più belle del Messico: l’ex miss Caffè Emma Coronel, figlia di un coltivatore di droga e spacciatore, e nipote di un socio del Chapo.

L’ha conosciuta quando aveva 17 anni, l’ha sposata a 18, e nel 2011 ha avuto da lei due figlie. Anche lei serve per rintracciare el Chapo ogni volta che lui scappa di prigione corrompendo le guardie: o nascosto in un cesto della biancheria sporca dei detenuti, o attraverso un tunnel sotto la prigione.

Lo zio di Emma, Nacho, fondò il cartello di Sinaloa col Chapo dopo che nel 2000 era diventato famoso come «re dei cristalli»: la metanfetamina che trasportava in Arizona. Spietato, uccideva chiunque lo ostacolasse. Ma nel 2010 fu lui ad essere ammazzato dall’esercito messicano. Il mausoleo di famiglia a Culiacan, costato mezzo milione di dollari, ha il wi-fi, l’aria condizionata, ed è sorvegliato 24 ore su 24.

Il Messico è in balia dei narcos. I turisti non se ne accorgono, perché i loro percorsi sono protetti. Ma fuori dalle zone sicure c’è violenza e disperazione. Ormai il Paese ha superato la Colombia come primo fornitore di droga degli Stati Uniti. Da due anni l’export di marijuana è diminuito, perché alcuni stati (Colorado, Oregon, Washington) l’hanno legalizzata. La stessa Corte costituzionale messicana ora permette il consumo personale di droghe leggere. Ma il business di quelle pesanti continua indisturbato
.
Criminali come El Chapo prosperano grazie al proibizionismo. Anche in Messico qualcuno propone di tagliare le gambe del narcotraffico legalizzando almeno le droghe leggere come in Uruguay: lo stato ci guadagnerebbe pure, incassando le tasse. Ma il presidente Enrique Pena Nieto è contrario, anche se disponibile a indire un referendum. Che vincerebbe, perché secondo i sondaggi sette messicani su dieci sono per il proibizionismo.

Insomma, finché gli statunitensi compreranno droghe, ci saranno sempre boss messicani a prosperare. Ad alimentare una quantità di serial tv e film americani (l’ultimo: Sicario con Benicio del Toro) sull’argomento. E ad affascinare attori come Sean Penn.
Mauro Suttora