Showing posts with label freedom house. Show all posts
Showing posts with label freedom house. Show all posts

Wednesday, June 04, 2008

I dittatori più longevi

Nella gara dei tiranni Mugabe batte Mao e Pol Pot

Libero, 4 giugno 2008

di Mauro Suttora

Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che ieri ha parlato al vertice Fao di Roma, è un decano fra i despoti mondiali: è al potere da 28 anni. Più longevi di lui sono soltanto il sultano del Brunei e quattro altri tiranni africani: Omar Bongo (Gabon) che si installò 41 anni fa, il libico Muammar Gheddafi (dal 1969) e, con appena un anno in più al potere di Mugabe, Eduardo Dos Santos (Angola) e Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale). L’Africa, insomma, la fa da padrona in questo triste elenco.

Mugabe, come l’iraniano Ahmadinejad, tecnicamente non potrebbe essere definito «dittatore». Nello Zimbabwe come in Iran, infatti, si svolgono regolarmente elezioni presidenziali. Ma i risultati sono falsati o truccati, a causa della mancanza di libertà.

Secondo Freedom House sono otto le dittature peggiori del mondo: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Subito dopo, lo Zimbabwe di Mugabe assieme a Bielorussia, Cina, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Arabia Saudita e Siria. Al terzo peggior posto Camerun, Ciad, Iran, Swaziland e Vietnam. Ma anche Brunei e Angola vengono considerati Paesi «non liberi». Si «salva» solo Omar Bongo: il suo Gabon è considerato «parzialmente libero».

Ieri al vertice Fao ha preso la parola anche Isaias Afewerki, dittatore dell’Eritrea. Come Mugabe e tanti altri leader africani (da Dos Santos al tanzaniano Nyerere, dal keniota Kenyatta al guineano Houphuet-Boigny), all’inizio era un liberatore e padre della patria. Ma col passare degli anni si è attaccato al potere e incattivito. Esattamente come accade in «The Interpreter» (2006), l’ultimo film con Nicole Kidman e Sean Penn del povero Sydney Pollack, scomparso la scorsa settimana.

Se non avesse abdicato in favore del fratello Raul, in vetta alla classifica ci sarebbe stato Fidel Castro. Per pochi mesi non ha raggiunto i 49 anni di dominio assoluto esercitati dal coreano Kim Il Sung (1945-94), prima di morire lasciando lo scettro al figlio Kim Jong Il (che quindi è già arrivato a 14 anni). Fra gli immarcescibili, notevoli l’albanese Enver Hoxha (40 anni, fino all’85), lo spagnolo Francisco Franco e il persiano Reza Pahlevi (entrambi durati 39anni), e lo jugoslavo Tito (35, come Saddam Hussein).

Relativamente poco hanno resistito Hitler (12 anni) e Mussolini (23). Molto di più i comunisti Stalin (29) e Mao (27).
Naturalmente la durata di un dittatore non è correlata alla sua ferocia. Al cambogiano Pol Pot sono bastati quattro anni per sterminare un quarto dei suoi sudditi.

Incredibile, invece, la quantità di tiranni che riescono a morire tranquilli nel proprio letto. Perfino i cannibali e sanguinari Bokassa e Idi Amin Dada sono riusciti a scappare in esilio. Il tirannicidio, giudicato legittimo dagli antichi greci e perfino dalla Chiesa, non viene più molto praticato. Dove sono finiti gli anarchici dell’Ottocento? Se aspettiamo i tribunali Onu, nessuno verrà punito. Perfino il serbo Milosevic ha fatto in tempo a crepare per conto suo, prima della fine del processo all’Aia.

Mauro Suttora

Thursday, October 20, 2005

Socialisti Usa e radicali

DIASPORE SOCIALISTE USA (E CONTORNO DI RADICALI)

Il Foglio, 20 ottobre 2005

di Mauro Suttora

E' morto Kemble, neocon dal volto umano e capo dei Social democrats, con il pallino della democrazia

New York. E' morto Penn Kemble. Leader socialdemocratico americano, era dirigente della Freedom House, del Consiglio delle Democrazie, e negli otto anni di Bill Clinton era stato vicedirettore dell'Usia (United States Information Agency). Intellettuale stimato e bipartisan, nel 2002 anche l'amministrazione Bush gli aveva dato un incarico, in una commissione sul Sudan. Nello stesso anno ha firmato un appello per la protezione della libertà a Hong Kong del Pnac (Project for a New American Century), il cuore dell'iniziativa politica neocon. E l'anno scorso è stato tra i promotori dell'appello bipartisan del Foglio per l'invio di soldati Nato in Iraq, firmato fra gli altri da Gianfranco Fini, Umberto Ranieri, Franco Marini e Piero Ostellino.

Strani tipi, i socialdemocratici statunitensi. Nella gioventù socialista Usa, fra gli anni Sessanta e Settanta, sono passati personaggi poi famosi come Jeane Kirkpatrick (ambasciatrice di Ronald Reagan all'Onu) e Paul Wolfowitz. Dirigente dell'organizzazione, con Kemble, è stato Joshua Muravchik, oggi colonna dell'Aei (American Enterprise Institute), il think tank neocon. Del gruppo fa parte anche il quotato saggista Paul Berman, che ha appoggiato la guerra in Iraq ma l'anno scorso ha votato John Kerry. Il socialdemocratico con la posizione di governo più importante, anch'egli impermeabile ai cambi di amministrazione, è Carl Gershman, presidente da ben 21 anni del Ned (National Endowment for Democracy), voluto da Ronald Reagan per combattere l’Impero del Male (l’Urss), e oggi impegnato ad assistere finanziariamente i Paesi in transizione verso la democrazia (all'attivo le rivoluzioni nonviolente in Serbia, Georgia e Ucraina).

La lotta per la democrazia. Questa è la principale mission che si sono dati i Social democrats statunitensi. E non da ieri: il congresso della diaspora socialista Usa risale infatti al 1972, un terzo di secolo fa. Allora l'onusto Socialist Party of America si spaccò in tre proprio perchè all'ex trotszkysta Max Shachtman non andava giù la tolleranza per l'Unione Sovietica. La sua corrente vinse il congresso, e gli "equivalentisti" (quelli che mettevano Usa e Urss sullo stesso livello) se ne andarono. Quei "compagni" esistono ancora, anche se ridotti a poche centinaia: stanno nel Socialist Party Usa e nei Democratic socialists. L'Internazionale socialista riconosce come propri membri americani solo questi ultimi, oltre ai Social democrats.

Il legame con i radicali italiani

Contrariamente all'Italia, non c'è alcuna possibilità di riunificazione fra i socialisti e socialdemocratici statunitensi. I Democratic socialists, infatti, sono il classico partitino la cui settarietà e faziosità è inversamente proporzionale alla propria dimensione. Si accontentano di essere una piccola corrente all'interno del partito democratici. I Social democrats, al contrario, hanno da tempo abbandonato la forma partito e operano esclusivamente come club di liberi pensatori. Sulla politica interna ed economica ci sarebbero diversi punti di contatto, ma la politica estera li divide irrimediabilmente: si accusano reciprocamente di essere falchi e molli pacifisti.

Curiosamente, anche negli Usa come in Italia nelle vicende socialiste appaiono i radicali di Marco Pannella. Un pannelliano fiorentino di 30 anni, Matteo Mecacci, rappresentante del partito all'Onu, ha avuto infatti l'onore due settimane fa di essere invitato a parlare dal palco del Ned nello stesso giorno del presidente degli Stati Uniti. Al mattino George Bush ha tenuto un importante discorso nella sede del Ned di Washington, e nel pomeriggio Mecacci ha dibattuto gli stessi temi a New York con il numero due dell’Onu, Mark Malloch Brown, potente capo di gabinetto del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan.

Mecacci è stato presentato con parole lusinghiere da Gershman, il presidente socialdemocratico del Ned, all’auditorium del palazzo McGraw-Hill del Rockefeller Center, di fronte a una qualificata platea di ambasciatori ed esperti di politica estera: «Il partito radicale transnazionale di Emma Bonino si batte per una riforma dell’Onu, in cui le democrazie contino di più e non vengano ostacolate dalle dittature, che sono ormai soltanto una minoranza fra gli stati rappresentati al Palazzo di vetro». Mecacci ha scritto anche vari editoriali con il segretario radicale Daniele Capezzone sul Washington Times, il quotidiano legato al Pentagono. Destra, sinistra, nonviolenza, guerra? Socialdemocratici americani e radicali italiani non vedono contraddizioni e spargono il loro verbo democratizzatore ovunque.

Mauro Suttora

Thursday, March 13, 2003

Vietnam a New York

UNA MOSTRA NEWYORKESE GLORIFICA IL VIETNAM (E TACE SULLE LIBERTÀ VIOLATE)

Due dittature, due misure?

Il Foglio

13 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. Negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti vanno in guerra contro una dittatura, l’American Museum of Natural History (una delle istituzioni culturali più importanti degli Usa, seconda solo allo Smithsonian di Washington) inaugura, sabato 15 marzo, una mostra sulla “vita quotidiana” in Vietnam, altra dittatura che viene però smerciata agli ingenui newyorkesi come simpatica meta vacanziera, dove esoticamente scontare insensati complessi di colpa per la guerra persa 30 anni fa. I ricchi liberal di Manhattan peggio di Chirac? Sembra di sì, a sentire la presidente del Museo Ellen Futter che ha presentato la mostra (visitabile fino al gennaio 2004) in anteprima ai giornalisti: “Vi invitiamo alla più grande esibizione sul Vietnam mai organizzata negli Stati Uniti, in collaborazione con il Museo Etnologico di Hanoi. Vogliamo introdurvi alla conoscenza di una cultura vibrante e della vita quotidiana di una nazione composta da ben 54 gruppi etnici”.

Nella mostra e nei discorsi non si fa il minimo accenno alla desolante situazione delle libertà in Vietnam. A più di dieci anni dalle prime riforme economiche del regime comunista, il bilancio della liberalizzazione politica è nullo. Le speranze di chi si illudeva che alle timide privatizzazioni sarebbero seguite aperture nel campo delle libertà personali sono andate completamente deluse. “Anche l’ultimo anno ha visto nuove repressioni in Vietnam, con decine di persone condannate a lunghe pene in carcere, molte delle quali per reati d’opinione”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto.

Il prigioniero del mese indicato da Amnesty per il febbraio 2003 è Le Chi Quang, laureato 32enne, condannato a quattro anni soltanto per aver osato criticare su Internet il recente accordo sui confini con la Cina. E’ stato arrestato in un Internet cafè il 21 febbraio 2002, e, al processo dell’8 novembre, durato meno di quattro ore, è apparso distrutto fisicamente e moralmente. E’ malato ai reni. “Ma Le Chi Quang è soltanto uno dei numerosi dissidenti nonviolenti arrestati e condannati nel 2002”, avverte Amnesty, “e il governo di Hanoi continua a impedire agli osservatori internazionali di assistere ai processi. Anzi, a nessuna organizzazione per la difesa dei diritti umani è concesso di entrare in Vietnam”.
Lo scorso 20 dicembre il professore di matematica Nguyen Khac Toan, 47 anni, è stato condannato a 12 anni in un altro processo a porte chiuse durato meno di un giorno: accusato di spionaggio solo per aver passato il testo di petizioni a organizzazioni di profughi vietnamiti all’estero.

La repressione dei Montagnards

Tutti gli altri organismi internazionali, da Freedom House a Human Rights Watch, concordano nel definire il Vietnam una dittatura senza libertà di alcun tipo (associazione, espressione, stampa, riunione) e con violazioni dei diritti umani fondamentali. Ma questo non impedisce a molti volonterosi americani di schierarsi dalla parte dei gerarchi comunisti. Lo stesso direttore del Museo Etnologico vietnamita, Nguyen Van Huy, altro non è che un funzionario governativo, e il suo Museo (come la mostra di New York) propaganda un quadro idilliaco di regime.

“La repressione più feroce la stanno subendo i Montagnards”, avverte Marco Perduca, rappresentante del partito radicale all’Onu, “una popolazione che abita gli altipiani del Vietnam centrale. Più di 200 di loro sono stati arrestati negli ultimi mesi, quasi 100 ci risultano attualmente detenuti e picchiati in prigione, e migliaia di loro vengono costretti a fuggire in Cambogia”. Alla faccia della “vibrante diversità” esaltata dalla ignara (o connivente) presidente Futter del Museo di New York, le minoranze vietnamite subiscono una vera e propria deportazione, con tanto di campi profughi oltre confine.

Se i Montagnards (o Dega) hanno la colpa di essere cristiani protestanti, anche i buddisti vietnamiti non se la passano bene. “L’86enne Thich Huyen Quang, patriarca della Chiesa buddista unificata, è detenuto senza processo dal 1982, senza conoscere nemmeno le ragioni del suo arresto”, denuncia l’eurodeputato radicale Olivier Dupuis, che nel 2001 è stato arrestato durante una sua visita in Vietnam. “Ma tutti i membri delle Chiese non riconosciute ufficialmente dal governo vengono perseguitati”. Il quotidiano New York Post e la televisione Fox hanno criticato la mostra. Ma i liberal newyorkesi di sinistra sembrano felici di assolvere il regime di Hanoi.