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Wednesday, November 12, 2014

Chi sono gli anti-Renzi


I NEMICI? IN CASA
Le opposizioni fanno il loro mestiere. Ma le vere minacce per il premier arrivano dalle minoranze Pd e dai sindacalisti di sinistra Camusso e Landini. I "rottamati" ex comunisti potrebbero andarsene e fondare un nuovo partito

Oggi, 5 novembre 2014

di Mauro Suttora

«Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io». I problemi, per il premier Matteo Renzi, arrivano più dai suoi compagni del Partito democratico che dagli avversari. Di qualunque cosa si discuta, infatti - riforma del Senato, nuova legge elettorale, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - le resistenze più forti, fastidiose e inaspettate giungono dall’interno del Pd.

Gianni Cuperlo, suo avversario alle primarie per la segreteria un anno fa (prese il 18% dei voti, contro il 67% di Renzi): «Il progetto di Renzi è vecchio, ma resto nel partito per rilanciare la sinistra», ha detto, preferendo andare alla manifestazione Cgil contro il governo del 25 ottobre, piuttosto che a quella contemporanea dei renziani all’ex stazione Leopolda di Firenze.

Anche Pippo Civati, forte del suo 14% alle primarie, è in odore di scissione: potrebbe confluire in un nuovo partito di sinistra con quel che resta di Sel (Sinistra, ecologia e libertà) di Nichi Vendola, gli ex grillini, la Fiom di Maurizio Landini e dissidenti Pd come l’ex giornalista Corradino Mineo o l’ex magistrato Felice Casson. Il suo prossimo campo di battaglia è il Jobs Act (riforma del lavoro): «È di destra. Voterò contro».

Punto debole: il senato

Alla Camera Renzi può permettersi che qualche dissidente non voti le numerose fiducie che il suo governo impone (strozzando i dibattiti) per stare nei tempi dei decreti legge: 60 giorni dalla loro emanazione. Ma al Senato la maggioranza Pd-Ncd-Udc-Scelta civica ha solo una ventina di senatori in più dell’opposizione, quindi i voti sono spesso sul filo del rasoio.

Ormai gli ex pesi massimi del Pd sono stati rottamati e umiliati in ogni modo da Renzi: da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani, da Rosy Bindi a Walter Veltroni ed Enrico Letta. Normale, quindi, che non perdano occasione per criticarlo. Ma le loro correnti ormai si sono sfaldate: chi è passato dalla parte del segretario-premier è stato premiato (con la presidenza del Pd Matteo Orfini, con il ministero della Cultura Dario Franceschini). Quelli che resistono, come l’ex viceministro dell’Economia nel governo Letta, Stefano Fassina, si sentono sempre più stranieri in casa loro.

Forte del 40,8% ottenuto alle Europee di cinque mesi fa, e dei sondaggi che lo vedono sempre con una popolarità personale del 50-60%, Renzi avanza baldanzoso, noncurante delle critiche. Che però cominciano ad arrivargli da personaggi che finora lo avevano guardato con simpatia. Ferruccio de Bortoli a settembre lo accusò di inconcludenza. Da allora comunque il suo Corriere della Sera non si è accanito contro il governo, pur avendone il motivo: il raddoppio delle tasse sulle pensioni integrative previsto dalla legge di stabilità. L’altro grande quotidiano, Repubblica, continua a pubblicare ogni domenica le reprimende del fondatore Eugenio Scalfari.

Ma, in campo giornalistico, è soprattutto la tenaglia fra la sinistra del Fatto (Antonio Padellaro e Marco Travaglio) e la destra di Libero (Maurizio Belpietro) ad angustiare Renzi. Non passa giorno senza che questi due quotidiani lo accusino come minimo di golpismo e bancarotta.

Anche Il Giornale di Alessandro Sallusti non è tenero, ma deve tener conto della posizione del proprio editore. E la famiglia Berlusconi, dopo il famoso patto del Nazareno siglato a inizio anno fra Silvio e Renzi, è gentile con il premier. Conta su di lui per non arrivare a elezioni nel 2015, che vedrebbero il tracollo di Forza Italia (data al 15-17% nei sondaggi). Ma, soprattutto, c’è la simpatia personale di Berlusconi verso Renzi. «Peccato che sia di sinistra», ripete spesso il Cavaliere. Il quale tende a considerare il premier quasi un figlioccio, più affidabile dei vari traditori Fini e Alfano.

Così, sulla scia del capo anche i berlusconiani - in teoria all’opposizione - sono benevoli con Renzi. Alcuni addirittura entusiasti (Giuliano Ferrara e Denis Verdini, che tiene i contatti giornalieri col governo). Altri con scetticismo, come Vittorio Feltri e Daniela Santanchè. Irriducibili antirenziani rimangono solo il presidente dei deputati Renato Brunetta, Raffaele Fitto e Daniele Capezzone. Ma, in caso di difficoltà del governo con i numeri al Senato, i forzisti potrebbero arrivare in aiuto.

Insomma, alla fine gli unici veri oppositori di Renzi sono Susanna Camusso, segretaria della Cgil lanciata verso lo sciopero generale, Beppe Grillo, Matteo Salvini della Lega e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Ma è normale che facciano il loro lavoro. Più insidioso, per Renzi, è il fronte interno. Quello di un Pd che si sta sfaldando (iscritti crollati dai 500 mila di un anno fa ai 200 mila di oggi), di giornali del suo partito che chiudono (Unità, Europa), e di suoi parlamentari che non vedono l’ora di logorarlo sui singoli provvedimenti, come fece Vannino Chiti a luglio sulla riforma del Senato.

Per questo è possibile che a gennaio, finito il semestre europeo e con un presidente Giorgio Napolitano stanco per ragioni d’età, Renzi rompa gli indugi e convochi un voto anticipato primaverile. Con qualsiasi legge elettorale, sperando di replicare il 41% dello scorso maggio. E di piazzare in Parlamento dei veri amici.
Mauro Suttora

Wednesday, May 25, 2011

Parla Walter Sisti

INTERVISTA ALL'EX DIRIGENTE DELL'EXTRASINISTRA CHE AVREBBE DOVUTO ESSERE RAPITO DAGLI AUTONOMI

Volevano coprirlo di catrame e impiumarlo, come nel Far West

di Mauro Suttora

Oggi, 14 maggio 2011

Volevano incatramarlo e impiumarlo, come nel Far West. Perciò gli autonomi del centro sociale milanese di via Decembrio nel 1977 avevano progettato di sequestrare William Sisti, (foto sopra, con Mario Capanna nel ’73) oggi 59enne, allora dirigente del Movimento lavoratori per il socialismo. Che oggi ricorda così quell’episodio: «Il vicequestore Lucchese mi convocò in questura e mi disse che erano state arrestate due persone dell’area dell’autonomia armata, vicini al gruppo terroristico Prima linea. Avevano rubato un furgone con cui volevano rapirmi per farmi un processo politico».

E lei si impaurì?

«Caddi dalle nuvole. Alla sera quando tornavo a casa mi guardavo dietro per controllare se qualcuno mi seguiva. Ma anche nel clima di quegli anni sembrava una cosa strana. Probabilmente c’era stata una soffiata».

Estremisti di sinistra che volevano colpire non un fascista, ma un dirigente della sinistra extraparlamentare.

«Il nostro movimento era assolutamente contrario alla lotta armata. Le pistole nei cortei erano vietate. Invece dal gruppo di Potere operaio erano nati gli autonomi, che teorizzavano lo scontro armato e l’“attacco al cuore dello stato”. Come sempre, a sinistra si passava la maggior parte del tempo a litigare al proprio interno».

Seppe il nome di Pisapia?

«Assolutamente no. E non seguii il processo negli anni Ottanta, perché non ero parte lesa. Avevo lasciato la politica per il mio attuale lavoro di immobiliarista, dopo un periodo nel Psi nel quale Martelli aveva invitato molti di noi ex sessantottini».

Che effetto le fa rievocare quei tempi, dopo 35 anni?

«Se la Moratti vuole dimostrare che Pisapia non ha origini liberaldemocratiche,
non c’era bisogno di scomodare la contestazione studentesca. Alla quale partecipò buona parte dell’attuale classe dirigente italiana: politici, finanzieri, avvocati, medici, scienziati...»

Compreso lo stimato architetto Stefano Boeri, oggi leader Pd.

«Che era mio compagno nel movimento studentesco. Siamo ancora amici. Il nostro leader era Mario Capanna, ma con noi c’erano anche Gino Strada, Nando dalla Chiesa, Ferruccio de Bortoli, Dario Di Vico, Michele Cucuzza, Sergio Cusani, e tantissimi altri. Oggi sono tutti ottimi professionisti. In Germania l’ex sessantottino e adesso verde Joschka Fischer potrebbe addirittura diventare cancelliere dopo Angela Merkel».

Mauro Suttora

Wednesday, August 18, 2010

Estate calda per i politici

Quest'anno tutti al mare (in attesa di votare...)

VACANZE AVVELENATE: I POLITICI NON SMETTONO DI DIRSELE E DARSELE

Non era mai successo: in pieno agosto governo e opposizione lottano ancora. Ma è soprattutto dentro la maggioranza che la guerra infuria. Così i potenti si rovinano le ferie. Ecco come

di Mauro Suttora

Oggi, 18 agosto 2010

Non era mai successo. Quest' anno la politica non va in vacanza. I politici, in teoria, sì: Gianfranco Fini ad Ansedonia (Grosseto), il presidente Giorgio Napolitano a Stromboli, Pier Luigi Bersani in Ogliastra (Sardegna), Massimo D'Alema a Gallipoli in Puglia dove come sempre troverà l'autoctono Rocco Buttiglione.

Ma, contrariamente agli anni scorsi, i problemi politici rimangono bollenti quanto il sole d' agosto. E continuano a occupare i titoli principali di giornali e telegiornali: «Tregua fra Berlusconi e Fini o rottura?». E in caso di rottura: «Il governo cade?» E se cade: «Un altro governo o elezioni?». E in caso di elezioni: «A novembre o a marzo?»

FERRAGOSTO IN CARCERE
Ormai siamo a Ferragosto. A fine mese, con i festival dei partiti e il meeting di Cl a Rimini, riprende la stagione politica. L'8 settembre riapre la Camera. Ma questa volta l'estate non placa le polemiche. Mai, nel recente passato, le fibrillazioni del Palazzo erano riuscite a fare notizia in modo così ossessivo. Viene registrato ogni sospiro di Italo Bocchino da Panarea, ogni vaticinio di Umberto Bossi dalla Valcamonica, ogni auspicio di Benedetto Della Vedova dalla contigua Valtellina. Il simbolo di questa frenesia senza soste è Silvio Berlusconi. Che rinuncia addirittura alle ferie, e a Villa Certosa (Porto Rotondo) preferisce Tor Crescenza (periferia di Roma). «Sempre di stracchino si tratta...», scherza qualcuno.

L'unico altro politico che rimane nella capitale, perché odia le vacanze, è Marco Pannella: passa come sempre il Ferragosto visitando i carcerati a Regina Coeli. Dovranno invece visitare il premier (non a Regina Coeli come auspicherebbe Antonio Di Pietro dal suo trattore a Montenero di Bisaccia, Molise) gli sfortunati collaboratori più stretti: Sandro Bondi e Denis Verdini pendolari dalla Versilia, Ignazio La Russa dalla Sicilia, Fabrizio Cicchitto pure lui ad Ansedonia, vicino di villa di Fini e Giuliano Amato.

Ma perché tutto questo tourbillon ? «Piaccia o no», risponde Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, «alla maggioranza degli italiani sembra ancora piacere Berlusconi. La realtà è questa. Dunque, niente elezioni anticipate né altri governi». E allora, come se ne esce? «In un solo modo: con un accordo di legislatura fra tutte le componenti del centrodestra: Pdl, Lega, Futuro e Libertà di Fini». Possibile? «Obbligato».

Dissente il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari: «Le lingue dei politici sono biforcute per definizione, ma mai come ora il gioco degli inganni è stato lo strumento principe per la conquista del potere. Berlusconi è il figlio imbarbarito dell' antipolitica, del qualunquismo e dell' anarchismo. Inutile sperare di trasformarlo in un leader liberal-democratico».

INNAMORATO RESPINTO
Paradossalmente, concorda con Scalfari dalla sponda opposta di destra Vittorio Feltri, direttore del Giornale . Anche lui ritiene impossibile un accordo Berlusconi-Fini, perché quest' ultimo dopo l' espulsione dal Pdl «è come un innamorato folle respinto dalla fidanzata: si vendica uccidendola, poi si spara». Elezioni anticipate, allora? «Sarebbe la soluzione più corretta. Ma non è sicuro che Napolitano la adotti. Nulla gli vieta di tentare la formazione di un nuovo esecutivo con dentro tutti: Pd, Idv, finiani, Udc. Al Senato non avrebbero la maggioranza, perché Pdl e Lega conservano un senatore in più. Ma volete che i ribaltonisti non riescano a comprarsi un tizio qualunque per trenta denari?».

Intanto i ministri Alfano, Calderoli, Tremonti e Fitto preparano un accordo Berlusconi-Fini su quattro punti: giustizia, federalismo, fisco e Sud. «Un'intesa può essere raggiunta facilmente», sostiene De Bortoli, «tranne che sulla giustizia. Quello è uno scoglio difficilmente superabile. La saggezza suggerirebbe di accantonare le leggi ad personam e mettere al primo posto le esigenze dei cittadini».

Come la velocizzazione della giustizia civile: riforma auspicata anche da Adolfo Urso, viceministro finiano rimasto nel governo assieme ad Andrea Ronchi, e che per questo ha votato diversamente dai 43 fuoriusciti sulla mozione Caliendo. Ma ai berlusconiani stanno molto più a cuore la nuova legge Alfano (di livello costituzionale, dopo la bocciatura della Corte) per l'immunità delle alte cariche dello Stato, e quella sul processo «breve». «È proprio qui il nocciolo del problema: Fini spera che prima o poi le grane giudiziarie eliminino Berlusconi», dice Feltri.

«Sarà Bossi a decidere la partita», prevede Scalfari, «è lui a tenere in pugno il manico del bastone. La giustizia non gli interessa: per la Lega quella è solo merce di scambio, l'ha già ceduta a Berlusconi. I leghisti vogliono invece carta bianca sul federalismo e su fisco e Sud, che ne sono due sfaccettature. Sul federalismo Bossi non accetta condizionamenti».

In effetti, è da 23 anni - da quando entrarono per la prima volta in Parlamento - che i leghisti si battono per il federalismo. E ora che è in dirittura d'arrivo, se non lo ottengono o se lo vedono annacquato, tornerebbero a minacciare la secessione. Ma è difficile che i finiani, in buona parte provenienti dal Sud, accettino il federalismo, che inevitabilmente penalizzerà le loro regioni.

Quindi elezioni anticipate? I leghisti non le temono, i sondaggi dicono che farebbero il pieno al Nord. Anche a spese del Pdl. Quanto al Pd, è quello messo peggio, quindi farà di tutto per evitare il voto. Intanto, prosegue il martellamento dei giornali di Berlusconi contro Fini. «Cacciamo gli affaristi!», è lo slogan con cui il presidente della Camera ha aperto la campagna di iscrizioni per il suo nuovo partito, Futuro e libertà. Ma i berlusconiani gli rinfacciano la casa di Montecarlo lasciata ad An da una ricca ereditiera, e finita chissà come al fratello della compagna di Fini dopo un'apparente svendita a una società caraibica. L'estate è calda.

Mauro Suttora

Wednesday, October 21, 2009

Berlusconi dopo il no al lodo Alfano

È davvero iniziato l' autunno del premier?

LA POLITICA E LA CRISI

Oggi, 21 ottobre 2009

Dopo la bocciatura del lodo Alfano, la politica si surriscalda. Il presidente del Consiglio accusa i critici con toni sempre più accesi. Perché si sente forte, o per non dare segni di debolezza?

di Mauro Suttora

Lo «sputtanamento»: parola non elegante, quella usata da Silvio Berlusconi in un comizio a Benevento. Finora era nota soprattutto come titolo di una canzone del 1978 di Cochi e Renato. Adesso, invece, secondo il presidente del Consiglio, è ciò che i suoi avversari provocano quando lo criticano: «Pensano di attaccare me, ma in realtà rovinano l' immagine dell' Italia intera».

Berlusconi è fuori di sé per la bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. Questo significa che tornerà a essere processabile. E i magistrati si apprestano a ricominciare i quattro procedimenti nei quali era coinvolto prima della sospensione garantita, appunto, dal lodo. Ma il timore dei berlusconiani è che qualsiasi pubblico ministero, adesso, ne approfitterà per inviare ulteriori avvisi di garanzia a palazzo Grazioli. Una specie di tiro al bersaglio.

DIFFICILE ESSERE NEUTRALI

Insomma, la temperatura politica è alta. Giornali e opinione pubblica sono sempre più divisi: pro o contro Berlusconi? Si riduce lo spazio per i neutrali, come denuncia il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli: «Nostro compito è raccontare i fatti, senza metterli al servizio delle opinioni ». Invece i giornali delle sponde opposte (Repubblica a sinistra, il Giornale a destra) organizzano raccolte di firme contro gli editori dell' avversario di carta (da una parte il finanziere Carlo De Benedetti, che ha appena ottenuto un risarcimento da 750 milioni di euro da Berlusconi; dall'altra la famiglia del premier).

Per orientarci, abbiamo posto nove domande ad alcuni fra i migliori commentatori del nostro Paese. Alcuni neutrali, altri schieratissimi (Giuliano Ferrara, Marco Travaglio). Come sempre, i lettori di Oggi si faranno una propria opinione da soli. Ben sapendo, però, che i veri problemi del l'Italia (crisi economica, disoccupazione, servizi pubblici, tasse) sono purtroppo ben altri.

Thursday, April 02, 2009

Stipendi d'oro

MACCHE' CRISI, C'E' CHI GUADAGNA

In America è guerra ai "bonus" immeritati. E in Italia?

Aggiramenti dei tetti di legge. Gratifiche automatiche. Azioni in regalo. Abbiamo messo nel mirino i superpremi. Risultato...

Oggi, 25 marzo 2009

di Mauro Suttora

Piove sul bagnato. In queste settimane decine di migliaia di contratti a termine sono disdetti, migliaia di persone perdono il lavoro, altre migliaia vanno in cassa integrazione. Metà dei nostri risparmi investiti in azioni sono andati in fumo.
Ma per qualcuno la crisi non esiste. I tredici dirigenti della Regione Veneto, per esempio, ai quali è stato appena regalato un bonus di 15 mila euro (vedi riquadro qui sotto). Ma la cuccagna vale per 90 dirigenti pubblici su cento, ai quali viene quasi automaticamente riconosciuto il bonus: il 5% in più sullo stipendio nei ministeri, il 7 nei Comuni e il 10 nelle Regioni. In Germania i bonus vanno solo ai meritevoli: non più di 15 su cento. Negli Usa al massimo sei su cento. In Italia, invece, todos caballeros.
"Ma così diventa impossibile premiare il merito e stimolare la produttività", avverte Nicola Bellè, docente alla Bocconi.

Nelle società private è facile determinare i bonus: basta ancorarli a fatturati e ricavi. Ma se un' azienda viene salvata dallo Stato, com' è capitato alle assicurazioni Aig negli Stati Uniti, diventa immorale usare i soldi dei contribuenti per premiare i manager. "Per i quali, d' altronde, negli ultimi decenni è stata sempre festa", rileva Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Oggi infatti gli alti dirigenti italiani guadagnano 243 volte uno stipendio medio. La forbice si è allargata moltissimo rispetto agli Anni 70, quando la distanza fra il compenso massimo e quello minimo in un' azienda era di 30 40 volte.

Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, quindi. Il presidente Obama ha rimediato allo scandalo Aig (almeno 165 milioni di premi pagati a coloro che avevano minato i bilanci della compagnia, costringendola a chiedere allo Stato 182,5 miliardi di fondi pubblici) proponendo di tassare al 90 per cento i bonus immeritati.

In Italia invece il tetto di 290 mila euro annui agli stipendi dei dirigenti pubblici, deciso con la Finanziaria dell' anno scorso, viene ignorato o eluso. Il trucco più utilizzato: cumulare le cariche di presidente, amministratore delegato e direttore generale. Come vuole fare Elio Catania all'Atm di Milano. Già nel mirino per la liquidazione di 6,7 milioni concessagli dalle Fs tre anni fa, Catania non vuole scendere dal suo attuale mezzo milione annuo a 87 mila euro: l' 80% rispetto al sindaco Letizia Moratti, come previsto dalla legge per le municipalizzate.
Risparmi in vista invece alla società per l' Expo 2015 milanese: dal milione annuo promesso a Paolo Glisenti (consulente comunale da 900 euro al giorno) si è scesi ai 50 mila della presidente Diana Bracco.

"Un altro problema è che le retribuzioni dei manager spesso sono poco trasparenti", dice Fara, "perché la parte variabile del loro stipendio ha assunto negli anni un peso sempre più forte. Spesso supera il 60 per cento del totale". Insomma, il premio di risultato, in certi casi, è diventato un modo per alzare gli stipendi (più o meno dimenticandosi del risultato).

La struttura dei bonus è una giungla. Le aziende vi ricorrono anche per motivi fiscali: concedere l'auto di servizio o in leasing, pagare l' affitto di un appartamento, fornire una pingue assicurazione sulla vita, una polizza sanitaria integrativa privata o la scuola dei figli fuori busta paga è conveniente sia per chi dà, sia per chi riceve. La rincorsa fra il fisco e le nuove forme di elusione è perenne.

La grossa fetta della torta, però, per i manager delle società quotate in Borsa, sono le stock option. Essere pagati con azioni della società che si guida è un' arma a doppio taglio. Innanzitutto per l'azienda stessa, che da una parte incentiva il risultato, ma dall'altra rischia di ottenere solo miglioramenti immediati, da esibire sul bilancio annuale cui sono legati i compensi, senza strategie lungimiranti di lungo periodo. Al manager non interessa costruire per il futuro, sacrificare il profitto veloce per avere frutti dopo dieci anni.
Ovviamente i rischi li corre anche il dirigente, che vede le sue azioni fluttuare e magari crollare, com'è successo nell' ultimo anno.

"Sono proprio le stock options una delle cause principali della crisi", dice l' economista Giulio Sapelli, che ha appena scritto il libro La crisi economica mondiale (Bollati Boringhieri). Infine il meccanismo più vergognoso: quello per cui l' ammontare di bonus e stock option viene deciso spesso dagli stessi interessati, o dai loro amici nei consigli d' amministrazione.
In teoria c' è il controllo della proprietà, ma quando questa è polverizzata in decine di migliaia di piccoli azionisti, i manager diventano quasi onnipotenti. E la crisi viene pagata dai piccoli risparmiatori.


RIQUADRO

E noi ce lo abbassiamo

Gennaro Gattuso si è detto disponibile a ridursi l'ingaggio di 4,5 milioni all' anno, dopo che il presidente Silvio Berlusconi ha ventilato l' idea di abbassare gli ingaggi del Milan del 30 per cento. E fuori dal calcio cosa succede?
La banca Unicredit taglia 35 milioni di bonus ai venti megadirigenti che li avevano percepiti nel 2008. Per l'amministratore delegato Alessandro Profumo sei milioni in meno: gli restano i 3,4 milioni dello stipendio fisso.
Piergaetano Marchetti, presidente della Rizzoli (la società che edita Oggi), rinuncia al 20% del proprio compenso. E al bonus dicono addio Ferruccio de Bortoli e Claudio Calabi, direttore e amministratore delegato del Sole 24 Ore.
Riduzione spontanea del 10% fra i dirigenti della Ducati Motors a Bologna, e niente bonus anche per quelli della fabbrica di elettrodomestici Elica di Fabriano (Ancona). Il sindaco di Cittadella (Padova) Massimo Bigonci rinuncia all' indennità. Stessa decisione a Milena (Caltanissetta) e a S. Elisabetta (Agrigento).

Mauro Suttora