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Saturday, January 21, 2023

David Crosby e la scia lunga e luminosissima del primo supergruppo della storia del rock



Chi ha meno di 60 anni non può rendersi conto di quanto sia stato importante l'acronimo CSN&Y nella musica contemporanea

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 gennaio 2023 

Chi è stato il più bravo fra Crosby, Stills, Nash e Young? Mi mette in difficoltà la domanda di mia moglie, dopo la morte di David Crosby. È impossibile stabilire una classifica, perché loro nel 1969 furono il primo supergruppo nella storia del rock. "Supergroup" significava una band formata dai migliori provenienti dalle migliori band: Crosby dai Byrds di Mr. Tambourine Man, Steve Stills e Neil Young dai Buffalo Springfield di For What It's Worth (successo poi campionato da tutti i dj negli anni 90), l'inglese Graham Nash dagli Hollies.

Qualcuno sostiene che i Cream siano stati il primo supergruppo, già nel 1966. Ma in realtà solo Eric Clapton era una star, gli altri due - Ginger Baker e Jack Bruce - li conoscevano in pochi.

Chi ha meno di 60 anni non può rendersi conto di quanto sia stato importante l'acronimo CSN&Y nella musica contemporanea. Provate voi a essere scelti come sigla d'apertura per il film simbolo degli anni 60, quello sul festival di Woodstock: Long Time Gone era un brano di Crosby. E nel 1970 il quartetto era così popolare che fu il primo al mondo a esibirsi soltanto negli stadi, nel loro lungo tour Usa: teatri e palasport risultavano troppo piccoli per contenere il loro immenso pubblico. Sì, c'era stato il concerto dei Beatles allo Shea stadium di New York cinque anni prima. Ma fu un evento isolato, e anche i Rolling Stones arrivarono solo nel 1972 alle tournée industriali con aereo privato, logo e merchandising. 

Soprattutto, CSN&Y sono stati un'incredibile meteora. Durati solo due anni, lo spazio di due dischi in studio (all'inizio senza Young, poi Déja Vu) e un doppio live (Four Way Street). Ma come tutte le comete, le quattro star hanno lasciato una scia lunga e luminosissima. Sopraffatti dal successo e dalle droghe, Crosby e amici hanno litigato e si sono continuamente ritrovati per mezzo secolo. La prima reunion nel '74, poi il memorabile disco del '77. Fino a quelli degli ultimi anni, ormai ottuagenari. 

Sempre a geometria variabile: un disco Stills con Young, un altro Crosby con Nash, oppure in tre, in quattro. Come i musicisti jazz, mai imprigionabili nella gabbia di un solo complesso. Nei loro album da soli invitavano a cantare e suonare tutti gli altri. 

Il lavoro solitario insuperabile di Crosby è If I Could Only Remember My Name del 1971. 'Se potessi solo ricordare il mio nome', il titolo dice tutto sul grado di allucinazione dell'epoca. C'è dentro l'intera musica californiana della controcultura e della contestazione, dai Jefferson Airplane ai Grateful Dead. Vendite non milionarie, ma atmosfera "seminal", come dicono in inglese: avanguardia, pietra miliare, punto di arrivo e di partenza per centinaia di musicisti degli anni 60 e 70, dal pop all'acido, dal folk-rock allo psichedelico.

La sua canzone più bella è probabilmente Cowboy Movie, chitarra solista di Jerry Garcia, sogno-incubo dolce e paranoico con un riferimento alla pistola, contraddittorio aggeggio che Crosby portava sempre con sè nonostante lui e i suoi baffoni fossero l'epitome dell'hippy peace&love. Dopo i delitti John Kennedy, Martin Luther King e Robert Kennedy il pacifista Crosby viveva nella paura costante di fare la stessa fine. Quindi girava armato, e l'assassinio di John Lennon gli diede ragione. Ma finì anche in prigione per porto d'armi abusivo e droga. Oltre che in ospedale per trapianto di fegato nel 1994. 

"Pensavo di aver incontrato un uomo che diceva di conoscere un uomo che sapeva quel che stava succedendo. Mi sbagliavo, era solo un altro sconosciuto", canta Crosby in Laughing, e mai lo smarrimento esistenziale della generazione Vietnam suonò più poetico.  

Poi ci sono i manifesti politici: "Come si chiamano? In quale via abitano gli uomini che governano veramente il nostro Paese? Vorrei andare da loro questo pomeriggio per parlare di pace. Pace non mi sembra una cosa così grande da chiedere", è il testo dell'inno antimilitarista What are their Names. 

Il libertario Crosby non crede più nelle elezioni, deluso dal voto del 1968 che nonostante tanti cortei studenteschi portò la destra di Nixon alla Casa Bianca: "Non cercare di farti eleggere. Se ci provi, dovrai tagliarti i capelli", ovvero rinunciare ai tuoi ideali (Long Time Gone). Mentre lui ha preferito fino all'ultimo tenerli lunghi: "Lascio sventolare la mia bandiera freak" (Almost Cut my Hair). Lo abbiamo visto indomito in concerto l'ultima volta nel settembre 2018 al teatro Dal Verme di Milano. Ormai era un nonno dei fiori sorridente e saggio.

Thursday, July 29, 2021

Concerto per il Bangladesh: mezzo secolo di carità in musica

L’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con l'idea di George Harrison

di 
Mauro Suttora

HuffPost, 29 luglio 2021

È tutto cominciato 50 anni fa al Madison Square Garden di New York: l’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con quello per il Bangladesh organizzato da George Harrison.

Il più giovane e tranquillo dei Beatles era appassionato di India da quando, primo al mondo, inserì un sitar nella canzone ‘Norwegian Wood’. Poi l’infatuazione per il guru Maharishi, le inascoltabili nenie indiane piazzate nei dischi dei Fab Four e il pellegrinaggio collettivo sul Gange (dove fece gettare le sue ceneri nel 2001). L’atarassia raggiunta grazie all’induismo gli servì soprattutto per sopportare il tradimento della moglie Pattie Boyd col suo migliore amico, Eric Clapton.

Quando scoppia la guerra di indipendenza del Bangladesh contro il Pakistan, a ruota arriva una tremenda carestia. Il sitarista Ravi Shankar (poi padre di Norah Jones) prega Harrison di fare qualcosa. E in sole cinque settimane George organizza il concerto di raccolta fondi.

È la quinta grande storica esibizione rock dopo quelle di Monterey 1967 (con gli hippies di San Francisco), Woodstock 1969, Altamont con il morto durante il set degli Stones, e l’annuale kermesse europea dell’isola di Wight, dal 1968 al ’70.

Ma è il primo benefit concert. Un centinaio di milioni di dollari andarono agli affamati grazie agli incassi di biglietti, dischi e film. Però le liti col fisco Usa che non voleva applicare l’aliquota agevolata riconosciuta alle fondazioni (Harrison non pensò a costituirne una) si protrassero per dieci anni.

Musicalmente, il concerto fu un miracolo. Harrison riuscì a riportare Bob Dylan su un palco Usa dopo ben cinque anni. E se John Lennon avesse accettato di esibirsi senza Yoko, e Paul McCartney si fosse irrigidito per la presenza dell’odiato manager Allen Klein, si sarebbero riformati i Beatles.

Infatti il batterista Ringo Starr era presente, anche se dimenticò le parole della sua canzone (‘It Don’t Come Easy’). Nel supergruppo brillavano Clapton alla chitarra solista e al piano Leon Russell, reduce da un trionfale tour mondiale con Joe Cocker.

Probabilmente la versione di ‘My Sweet Lord’ del concerto è migliore di quella con cui Harrison aveva appena dominato le hit parades del pianeta. Era lui il Beatle che, dopo lo scioglimento del 1970, aveva raccolto i maggiori successi. Lennon lo eguagliò pochi mesi dopo con ‘Imagine’. E McCartney solo nel 1973 con ‘My love’.

Dopo il concerto per il Bangladesh sono state tante le buone cause accoppiate a buona musica, fino all’ineguagliato exploit intercontinentale del 1985 con il Live Aid di Bob Geldof, e ai numerosi Pavarotti & Friends.

Dal No Nukes del 1979 al concerto per New York dopo l′11 settembre 2001, fino all’ultimo prima della pandemia, per le vittime degli incendi in Australia nel febbraio 2020, le rockstar si sono esibite spesso gratis.

A volte perfino troppo, quando hanno approfittato dei benefit concert per rinverdire fortune declinanti. Scherzò una volta Jackson Browne: “Cosa farebbero Crosby, Stills e Nash senza i charity?”

Mauro Suttora

Wednesday, January 11, 2012

2012: rivincita per Aung San Suu Kyi?

Nel 1990 la signora della nonviolenza vinse le elezioni in Birmania con l’82 per cento. Finì agli arresti, isolata per 21 anni. Ma ora è libera, e il nuovo presidente promette un nuovo voto entro giugno

di Mauro Suttora

Rangoon, 4 gennaio 2012

Nelson Mandela è rimasto in prigione 27 anni. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è arrivata a 21 (seppure agli arresti domiciliari). I dittatori birmani la arrestarono nel 1990, dopo che vinse le prime elezioni libere conquistando l’82 per cento dei seggi. Lei non ha più potuto riabbracciare neppure il marito inglese, morto a Londra nel 1999.

Da qualche mese, però, le cose in Birmania sembrano cambiate. C’è una specie di Gorbaciov, il generale Thein Sein, presidente dallo scorso marzo, che sta liberalizzando il regime. Ha promesso nuove elezioni per il 2012. La signora Suu Kyi ha riacquistato la libertà, e questa volta il suo partito parteciperà al voto. Tutto sembra cambiato rispetto alle sanguinose proteste del 2007 guidate dai monaci buddisti, che emozionarono il mondo intero.

La signora è figlia del Garibaldi birmano: Aung San combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947. Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, anche perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.

Lei andò in esilio con la famiglia nel ’62, quando i generali si impadronirono di questo stupendo Paese di 50 milioni di abitanti Tornò nell’88 a Rangoon solo perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader.

I generali non l’hanno liberata neanche dopo il 1991, quando le diedero il Nobel per la pace. La dittatura birmana sta in piedi solo grazie all’appoggio della vicina Cina, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si è sempre opposta a sanzioni dell’Onu, e perfino la democratica India, che trova conveniente commerciare con la Birmania.

Ma adesso i generali cominciano a temere lo strapotere della Cina, e per la prima volta dal 1955 hanno invitato un segretario di Stato statunitense (Hillary Clinton) in visita ufficiale.

Mai una parola di odio

Restano ancora in prigione un migliaio di prigionieri politici, ma il clima è migliorato e Aung San Suu Kyi ha accettato di partecipare alle prossime elezioni. Lei da 22 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca: «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello.

Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che nel 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.

Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone Walk On (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco (For the Lady), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting. Il 2012 potrebbe essere l’anno della svolta.

Wednesday, October 10, 2007

Aung San Suu Kyi

CHI E' LA DONNA CHE FA TREMARE I GENERALI BIRMANI

di Mauro Suttora

Rangoon (Birmania), 10 ottobre 2007

Il fratello di suo bisnonno capeggiò gli oppositori degli inglesi, che nel 1886 annessero la Birmania al loro impero. Suo padre Aung San è il padre della Birmania libera: combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947.

Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, se non altro perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Se la parola «eroe» si potesse pronunciare al femminile senza diventare diminutivamente «eroina», la si potrebbe chiamare così. Dimenticando che quella parola è anche il nome del prodotto più contrabbandato dai generali birmani che opprimono il Paese.

La signora Suu Kyi è viva. Questa è l’unica buona notizia arrivata dalla Birmania nell’ultima settimana. L’ha incontrata l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari. Da anni soltanto lui può vederla. La signora è infatti in prigione o agli arresti domiciliari dal 1990, quando vinse le elezioni con l’82 per cento dei voti. L’ultima volta si erano incontrati a casa della Suu Kyi nel novembre 2006. Non si sa cosa si siano detti: il segreto è una delle condizioni che i dittatori impongono per autorizzare questi colloqui.

Nessuno saprà mai neanche quanti siano i morti della rivolta nonviolenta in corso in Birmania. Poche decine, come afferma la giunta militare? O centinaia, come dicono i dissidenti? L’ultima volta che i birmani si ribellarono ai propri soldati furono tremila. Per scendere in strada avevano scelto una data che pensavano beneaugurante: l’8/8/88. Invece quell’8 agosto fu un bagno di sangue. Come ora. Eppure anche allora si presentarono a mani nude di fronte ai fucili.

La signora Suu Kyi era appena tornata dall’autoesilio di 26 anni che si era inflitta dopo che i generali avevano imposto la dittatura nel 1962. Ed era tornata a Rangoon soltanto perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader, perché in Birmania la signora ha lo stesso prestigio che potrebbe avere in Italia una figlia di Garibaldi.
Aung San Suu Kyi si può veramente definire, assieme a pochissimi altri personaggi viventi, un eroe del mondo moderno. Nelson Mandela in Sudafrica, Vaclav Havel in Cecoslovacchia... Anche il polacco Lech Walesa e il russo Michail Gorbaciov hanno vinto il premio Nobel per la Pace - come la Suu Kyi nel ’91 - per avere acceso rivoluzioni nonviolente, ma sui loro nomi già si accende qualche discussione. Sulla signora birmana, invece, regna l’unanimità: è considerata un’apostola della libertà.

Ce la farà, o dovrà arrivare ai 26 anni di carcere di Mandela? Ce la faranno i ragazzi e i monaci di Rangoon, oppure finiranno come i giovani di piazza Tien An Men, falciati dai gerarchi comunisti cinesi nel 1989? Anche oggi la Cina c’entra, e molto, con la repressione orrenda degli inermi. La dittatura birmana infatti sta in piedi soltanto grazie all’appoggio di Pechino, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si oppone a sanzioni economiche dell’Onu, e perfino la democratica India ha appena firmato un accordo commerciale con Than Shwe, il 69enne capo dei generali birmani.

Aung San Suu Kyi da 18 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca durante le rare interviste che ha potuto concedere. «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello. Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che il 9 giugno 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.

Allora si era temuto il peggio.

Come nel ’99, quando Suu Kyi perse l’amato marito inglese Michael Aris: si era ammalato di cancro alla prostata tre anni prima, ma i militari non gli avevano mai dato il permesso di visitare per l’ultima volta sua moglie. Lei avrebbe potuto raggiungerlo a Londra, ma sapeva che se avesse lasciato la Birmania non avrebbe più potuto tornare. E fra l’amore per il proprio Paese e quello per il marito morente ha scelto il primo.

Si erano conosciuti all’università di Oxford nel ’67, l’allora 22enne bellissima Suu Kyi e Michael, studente buddhista di Storia asiatica. Era l’epoca dei Beatles e il buddhismo andava di moda, ma per lui era una cosa seria. Divenne professore delle stesse materie, e andò in Bhutan come istitutore del figlio del re. La sua giovane moglie fu felice di seguirlo, così come era stata felice di seguire la madre nel ’60 quando venne nominata ambasciatrice in India.

Speravano che prima o poi le cose in Birmania sarebbero migliorate, che la libertà sarebbe tornata e quindi anche loro sarebbero tornati. Invece niente. Così Suu Kyi tornò mestamente a Oxford con Michael, si sposarono nel ’72, ebbero due figli (Alexander, oggi 34 anni, e Kim, 30). Lei per due anni andò a lavorare all’Onu a New York. Poi tornò a Londra, una vita tranquilla con l’unico stipendio da professore del marito.

Insomma, come spesso accade, gli eroi diventano tali controvoglia. Non c’era e non c’è nulla nella signora Suu Kyi che possa infiammare gli animi. Nei suoi discorsi in pubblico non ha mai alzato la voce. Ha sempre predicato l’amore, la legalità, il rispetto. Una rivoluzionaria tranquilla.

Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone "Walk On" (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco ("For the Lady"), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting.

Speriamo che la Lady prima o poi ce la faccia. Dolce e paziente, è il simbolo di tutte le donne della Terra. E i monaci e gli studenti che s’immolano per lei ci appaiono più forti e coraggiosi dei coetanei soldati che li uccidono tremando.

Mauro Suttora

Sunday, September 08, 2002

Peter Gabriel ad Arzachena

concerto anteprima del nuovo disco "Up"

Peter Gabriel suona in Sardegna alla festa patronale

Il concerto ad Arzachena prima del tour mondiale, tra il pubblico Eric Clapton. La voce si è sparsa rapidamente e nella piazza c' era una grande folla. Il 16 e il 18 sarà a Milano prima del lancio del nuovo album «Up»

Corriere della Sera, 8 settembre 2002

di Mauro Suttora

ARZACHENA (Sassari) - Grazie a Peter Gabriel, Arzachena è diventata per una notte il centro della musica mondiale. Il cinquantaduenne musicista inglese, voce dei Genesis fino al 1975 e poi inventore della musica «world», ha infatti scelto il capoluogo della Costa Smeralda per il debutto del suo nuovo, attesissimo tour planetario.

Una specie di «prova aperta» dopo un mese di segretissime session nella palestra di Abbiadori, a due passi da Porto Cervo. Per ringraziare il sindaco Piero Filigheddu dell' ospitalità, Gabriel prima di lasciare la sua villa sarda ha deciso di beneficiare locali e turisti con un concerto a sorpresa, non pubblicizzato nel timore che nella piazza del paese arrivasse troppa gente.

Arzachena si è riempita ugualmente, anche perché ieri si festeggiavano i tre patroni della cittadina: Santa Maria, Sant' Antonio e Sant' Isidoro. «Doveva venire a suonare Raf, ma all' ultimo momento ha dato forfait. Meglio così, ci abbiamo sicuramente guadagnato», è stato il sarcastico commento di un ragazzo del posto in attesa dell' esibizione dell'ex Genesis.

Comunque la voce si è sparsa ugualmente e in giornata frotte di giornalisti musicali da tutta Europa si sono precipitati in aereo a Olbia per l' evento. E' arrivato perfino Eric Clapton, che ne ha approfittato per prendere un po' di sole nella spiaggia di Cala di Volpe. Il concerto è stato un' anteprima del nuovo disco di Gabriel, «Up», che arriva a ben dieci anni di distanza dal suo ultimo in studio, «Us».

Si è trattato dell' album con la gestazione più lunga nella storia del rock. «Uscirà a settembre, ma non so in quale anno», scherzava Gabriel due anni fa. Ora la data è decisa: 21 settembre. Il pezzo forte è una canzone dal titolo «The Barry Williams Show», il cui video è stato diretto da Sean Penn, e che esce domani nei negozi di tutto il mondo come singolo. Peter Gabriel cura maniacalmente la qualità dei suoi video: non per niente «Sledgehammer» ha vinto la classifica della rivista Rolling Stone come migliore video di tutti i tempi.

Gli altri pezzi più orecchiabili sono stati «Growing Up», «Darkness», «Sky Blue», «No Way Out». La band ha esibito un suono compatto, con la figlia di Peter Gabriel, Melanie, ai cori, Tony Levin al basso, David Rhodes e Richard Evans alle chitarre, Gad Lynch alla batteria e Rachel Z. alle tastiere.

Accontentati i fans che speravano anche in qualche recupero dal passato: Gabriel ha aperto il concerto con «Solsbury Hill», l' hit del suo primo album da solista del ' 77 dopo il sodalizio con i Genesis. L' artista inglese non ha voluto confermare la voce secondo la quale in uno dei due concerti previsti a Milano il 16 e 18 settembre, oppure a Parigi il 21, farebbe una comparsata il suo vecchio collega Phil Collins.
Dopo questo omaggio alla sua Sardegna, Gabriel è partito per Londra assieme alla moglie irlandese Meah Flynn, sposata il 9 giugno scorso, sempre ad Arzachena.

Mauro Suttora

Friday, September 17, 1999

Beatles: Abbey Road

I BEATLES, O DELLA CAPACITA’ SUBLIME DI SAPER SCOMPARIRE AL MOMENTO GIUSTO

di Mauro Suttora

Il Foglio, settembre 1999

Trent’anni fa, il 26 settembre 1969, usciva nei negozi di tutto il mondo “Abbey Road”, l’ultimo disco dei Beatles. Sulla copertina, una foto di loro quattro che attraversano in fila indiana le strisce pedonali. Quelle di Abbey Road, appunto, una strada del quartiere londinese chic di Saint John’s Wood dove si trovano ancor oggi gli studi della casa discografica Emi. E dove tuttora, ogni giorno, centinaia di fans si esercitano nella discutibile operazione di farsi fotografare sulle stesse strisce pedonali, come souvenir. Risultato: code di macchine, perché in Gran Bretagna le zebre vengono rispettate, e in teoria se il flusso dei pedoni su di esse fosse continuo (come lo è quando ad Abbey Road transitano mandrie di beatlemaniaci) il traffico si bloccherebbe completamente.

Molti sono convinti che l’ultimo disco dei Beatles sia “Let it be”. Ciò è vero e falso assieme. Vero, perché effettivamente “Let it be” fu pubblicato nel maggio 1970. Ma le sue canzoni erano state registrate già nel gennaio ‘69, prima di “Abbey Road”. Che si può quindi fregiare del titolo di canto del cigno del complesso più famoso del secolo.

Stesso dilemma per la vera data di scioglimento del gruppo. Gli esegeti più rigorosi la fanno risalire al 10 aprile ‘70, quando Paul McCartney annunciò pubblicamente di non voler più incidere con i Beatles. Ma, come in tutte le coppie che scoppiano, il dissidio fra lui e John Lennon era esploso assai prima. Già nel 1968 si poteva parlare di «separati in casa», visto che grazie alle nuove tecniche di incisione ognuno dei membri del quartetto andava in studio a registrare la propria parte di canzone indipendentemente dagli altri.

Non è arbitrario, quindi, fissare al settembre ‘69 la data di scioglimento dei Beatles, facendola coincidere con l’ultima traccia della loro produzione artistica. Pochi giorni fa sono stati ben 300 mila i fans accorsi a Liverpool per commemorare il trentennale con la riedizione del cartone animato “Yellow Submarine”. Ma cosa facevano i Fab Four in quell’epoca? Intanto, erano giovanissimi. George Harrison aveva 26 anni, McCartney 27, Lennon 28 e Ringo Starr 29. È incredibile pensare che musicisti paragonati a Bach e Mozart, o perlomeno a Duke Ellington e George Gershwin (per restare nel Novecento), abbiano deciso di sciogliere un sodalizio così proficuo a un’età così precoce. Se poi si calcola che fino a metà 1963 erano degli sconosciuti, si scopre che tutta la loro arte si è concentrata in appena sei anni di attività: un prodigio anche questo. Ma, soprattutto, va riconosciuta ai Beatles (e a loro soltanto) la capacità sublime di saper scomparire al momento giusto.

Il 1969, infatti, rappresenta un anno cardine nella storia del rock. Soltanto il 1967 può eguagliarlo come ricchezza musicale. In quel periodo di grandi cambiamenti, la musica e il costume evolvevano di mese in mese. Naturalmente erano i Beatles a dettare il passo. Ma, in qualche modo, nel ‘69 si era spezzato qualcosa. Era stato raggiunto un apice insuperabile, e tutti i musicisti più avveduti se ne rendevano conto. In California quell’estate con la strage di Charles Manson a Bel Air (vittima Sharon Tate, bellissima moglie di Roman Polanski) era finita l’era degli hippies peace&love.

I festival di Woodstock e dell’isola di Wight (a quest’ultimo tutti i Beatles tranne Paul parteciparono il 31 agosto ‘69, come spettatori dell’esibizione di Bob Dylan) rappresentavano anch’essi uno zenit, seguìto a poche settimane dal disastro di Altamont, dove a un concerto dei Rolling Stones fu ucciso uno spettatore. Perfino l’uso della droga fra i musicisti delineava una parabola fatale: innocua marijuana nel ‘66, lsd nel ‘67, cocaina nel ‘68, eroina nel ‘69. Come nella guerra del Vietnam, era un’escalation senza ritorno. Lo stesso Lennon diventò eroinomane assieme alla sua Yoko Ono nel ‘69, ma riuscì a disintossicarsi quasi subito e raccontò il tremendo tunnel della crisi d’astinenza nel 45 giri “Cold Turkey”, che uscì in ottobre.

I Beatles fiutarono la fine del periodo d’oro dei favolosi anni Sessanta e chiusero bottega in bellezza, evitando l’agonia di tutti gli altri complessi, compreso l’attuale gerontorock degli Stones. Non hanno mai accettato le offerte favolose per riunirsi anche solo una volta, e ciò ha reso eterno il loro mito. «Meglio bruciare che arrugginire/ma il rock&roll non morirà mai», canterà Neil Young. I Beatles non sono né bruciati né arrugginiti: grazie ad “Abbey Road”, si sono semplicemente congedati con un coloratissimo capolavoro. Nel quale, pochissimi lo sanno, c’è lo zampino della nostra Sardegna. In Costa Smeralda, infatti, era scappato Ringo Starr dopo una lite con McCartney che pretendeva di costringerlo a suonare la batteria in un certo modo. Lì, folgorato dalla bellezza dei fondali durante un’immersione, compose il suo unico capolavoro: “Octopus’s Garden” (“Il giardino delle piovre”). Ringo raccontò a George quant’era bella Porto Cervo, e così anche Harrison ci passò tre settimane nel giugno ‘69 con la moglie Patty.

Al suo ritorno cominciarono le sedute di registrazione ad Abbey Road. Andarono avanti per due mesi, ma per gli inglesi è naturale lavorare d’estate. Tanto, a Londra piove anche in agosto. La prima canzone a essere registrata fu “Something” di Harrison. Il povero George era sempre stato snobbato dal duo Lennon-McCartney: era considerato il cucciolo del gruppo, e in ogni disco gli lasciavano spazio per un suo solo brano. Questa volta però Harrison si presentò negli studi Emi con due capolavori: “Something” e “Here comes the sun”. «“Something” è la più grande canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni», sentenziò nientemeno che Frank Sinatra, e in effetti è stata superata soltanto da “Yesterday”, fra tutte le canzoni beatlesiane, come numero di versioni registrate da altri cantanti.

“Here comes the sun“ (“Ecco che torna il sole“) ha invece una genesi piccante. Harrison la compose, estasiato per il ritorno della primavera in un pomeriggio di pallido sole britannico, nel giardino della villa del suo grande amico Eric Clapton. Il quale però nel frattempo seduceva e gli rubava sua moglie Patty, alla quale l’anno dopo avrebbe dedicato il proprio capolavoro “Layla”. George, obnubilato dalla filosofia indiana, commentò rassegnato: «Meglio che Patty stia con un ubriacone come Eric, piuttosto che con qualche eroinomane». E gliela lasciò volentieri, rimanendogli amico (i due suonarono assieme nel memorabile Concerto per il Bangladesh dell’agosto ‘71, padre di tutti i Live Aid della futura carità rock).

La canzone più famosa di “Abbey Road” è “Come together” di John Lennon. Il ritornello sporcaccione («Vieni assieme/proprio adesso/su di me») è un inno all’orgasmo simultaneo, ma i fans più politici andarono in visibilio per la frase «One thing I can tell you is you got to be free» («L’unica cosa che posso dirti è che devi essere libero»). Purtroppo la musica è completamente copiata da “You can’t catch me” di Chuck Berry, i cui avvocati citarono Lennon e lo obbligarono, per risarcirlo, a incidere tre sue canzoni - pagando i relativi diritti d’autore - nell’album “Rock’n’roll” del ‘75. Ma John in quel periodo era così preso dall’eroina e da Yoko (due droghe per lui egualmente letali) che non si peritò neppure di celare il plagio, e anzi lasciò proprio all’inizio della canzone una frase del testo di Berry (“Here comes old flat-top, he come”). Lennon come Mauro Pili, il forzista sardo «ispirato» da Roberto Formigoni?

Il particolare più inquietante di “Come together”, però, risiede nel sussurro di John dopo i battiti di mani nelle prime quattro battute: «Shoot me» («Sparami»), dice, consiglio preso alla lettera dal suo assassino pazzo Mark Chapman nel 1980.

“Abbey Road“ nasconde dentro sé una miriade di gioielli semisconosciuti, canzoncine lunghe neanche un minuto cucite assieme in un «medley» confezionato sapientemente da McCartney e dal produttore George Martin. Sul modello di “A day in the life” del 1967, in cui 40 secondi composti da Paul erano incastonati in un brano di John, questa volta alla notevole “Because” di Lennon segue “You never give me your money” di McCartney (allusione acida contro il manager Allen Klein accusato di lucrare sui proventi miliardari del gruppo), e poi tre frammenti bizzarri di Lennon (“Sun king”, “Mean Mr. Mustard”, “Polythene Pam”, che esibiscono raffinati coretti con sovrapposizioni di voci in quarta, quinta e undicesima tonalità), per poi sfociare nella ”She came in through the bathrooom window” (“Entrò dalla finestra del bagno”) di McCartney, che racconta un episodio realmente accaduto di una fan penetrata a casa sua, canzone resa celeberrima dalla versione di Joe Cocker.

Rauco come Cocker Paul volle diventarlo per esibirsi in "Oh! Darling", una parodia di canzone anni Cinquanta splendidamente riuscita. Poiché da tre anni non si esibiva più in pubblico (tranne il concerto sul tetto dell’edificio Apple nel gennaio ‘69), dovette arrivare in studio il mattino presto e urlare come un ossesso, finché la sua ugola non fu riallenata allo stile Little Richard. Un’altra chicca è la brevissima canzone “Her majesty”, sottile presa in giro di qualche misteriosa principessa reale un po’ stupidina. Dice il testo: «Sua maestà è una ragazza proprio carina/ ma non ha molto da dire/ Sua maestà è proprio carina, ma cambia da un giorno all’altro...» Nessuna reazione dalle parti di Buckingham Palace, ma i sudditi britannici trovarono il brano deliziosamente «naughty», impertinente.

Anche “Abbey Road”, come tutti gli Lp dei Beatles, contiene delle vere e proprie schifezze. È il caso di “Maxwell’s silver hammer”, imputabile a Paul, e di “I want you”, rumoroso obbrobrio di John dedicato alla nociva Yoko. Lennon e McCartney continuavano a firmare assieme i loro brani per forza d’inerzia, ma ciascuno detestava queste due canzoni: John si rifiutò perfino di incidere la sua chitarra su “Maxwell’s...”

La fine di “Abbey Road”, invece, è entusiasmante. Perfettamente consci di essere giunti al capolinea della loro carriera di complesso, i Beatles titolarono la loro ultima canzone “The end”. E il loro verso conclusivo è scolpibile nel marmo o incartabile in un bacio Perugina, a seconda dei gusti: «And in the end/the love you take/ is equal to the love you make» («Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»). Per i cantori del decennio della libertà, della gioventù, della pace e dell’amore, l’unico sorridente epitaffio possibile. Il sogno era finito. Addio anni Sessanta. Addio, Beatles.

Mauro Suttora