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Wednesday, April 13, 2011

Viaggio nella Libia libera

DAL CAIRO A BENGASI, 1.400 KM DI AUTO NEL DESERTO

dal nostro inviato Mauro Suttora

Oggi, 3 aprile 2011

Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.

«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.

In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.

Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».

Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.

Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.

La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?

Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.

Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.

Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.

Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.

La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?

Mauro Suttora