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Friday, September 30, 2016

È a Cambridge la verità su Regeni

INCREDIBILE: LA PIÚ PRESTIGIOSA UNIVERSITÀ INGLESE OPPONE AGLI INVESTIGATORI ITALIANI UN’OMERTÀ SIMILE A QUELLA DELL’EGITTO

di Mauro Suttora

Oggi, 30 settembre 2016

Inutile girarci attorno. La verità su Giulio Regeni si trova in una palazzina di Cambridge, nella più prestigiosa – con Oxford – università inglese.
Nel Girton College insegna la professoressa egiziana Maha Abdelrahman, che era la tutor per il master dello studente friulano 28enne. 
È stata lei a mandarlo a fare la “ricerca partecipata” sui sindacati egiziani che gli è costata la vita, dopo tremende torture.
Ma dopo la morte di Giulio, invece di collaborare con gli investigatori italiani, la professoressa ha rifiutato di rispondere alle loro domande.

Un comportamento incredibile, omertoso quasi quanto quello del governo egiziano, che non vuole consegnare alla nostra giustizia i responsabili dell’assassinio. 
Ma mentre nel caso dell’Egitto abbiamo a che fare con un regime autoritario, chiaramente in difficoltà per le prove evidenti che portano alla polizia o ai servizi segreti del Cairo, Cambridge è una delle università più importanti del mondo, che dovrebbe avere a cuore la verità sul caso Regeni quanto i genitori dello sfortunato giovane.

La professoressa Abdelrahman era venuta in Italia per partecipare al funerale di Giulio lo scorso febbraio. Lì un sostituto procuratore le aveva rivolto alcune prime domande sommarie, cui lei aveva risposto. Ma pare che poi si sia lamentata per la “durezza” dei nostri magistrati, e da allora rifiuta di farsi interrogare.
Per questo Mario Giro, sottosegretario agli Esteri, ora accusa apertamente l’ateneo britannico di non cooperare, e di volere solo autoproteggersi.

Cambridge assicura di voler fare tutto il possibile per assistere le autorità italiane. Ma di fatto la prof non è disponibile. Siamo venuti a Cambridge a cercarla, dopo che lei si è fatta negare al telefono. Niente da fare. Scomparsa. Nel suo dipartimento di sociologia ci dicono che sarebbe in “leave of absence”: aspettativa.
Per carità, non pretendiamo certo che la prof dica a noi giornalisti quel che rifiuta di dire ai magistrati italiani. Ma intanto le domande e i dubbi restano.

Giro è stato pesantissimo contro Cambridge: “Vergognatevi. Per voi sono più importanti le vostre ‘ricerche segrete’ della vita di un vostro studente. Cosa state nascondendo? Vogliamo la verità”.
Regeni è scomparso al Cairo il 25 gennaio di quest’anno, e il suo cadavere è stato ritrovato in un fosso sulla strada per Alessandria una settimana dopo, torturato e mutilato.
Da allora il nostro governo chiede inutilmente la verità al presidente egiziano Abdel Al-Sisi, e i rapporti diplomatici fra Italia ed Egitto sono ai minimi termini.

Ma anche il comportamento di Cambridge suscita molti interrogativi. L’università ha fatto abbastanza per proteggere il suo ricercatore che stava conducendo un’indagine in un Paese che rispetta poco i diritti umani, e il cui regime è autoritario se non dittatoriale?

Cambridge svicola: David Runciman, direttore del dipartimento di Studi politici internazionali, e Susan Smith del Girton College dicono di aver scritto al console egiziano a Londra e all’ambasciatore britannico in Egitto esprimendo il proprio “stato di shock” e chiedendo di essere tenuti al corrente delle indagini.

Ma il problema è ben altro. La professoressa egiziana ha mandato Regeni allo sbaraglio? Si è comportata più da attivista politica antigovernativa che da docente universitaria imparziale?
Dopo le primavere arabe del 2011 e le proteste di piazza Tharir al Cairo, il presidente Hosni Mubarak era caduto e il partito dei Fratelli musulmani aveva vinto le elezioni.

Ma dopo sei mesi di governo anche i Fratelli musulmani sono stati travolti dalla propria incompetenza e intolleranza, e sono tornati al potere i militari guidati dal generale Al Sisi. In una situazione così esplosiva, con centinaia di morti e migliaia di oppositori in carcere, è stato prudente mandare Giulio Regeni a condurre uno studio “partecipato” sui sindacati che si oppongono al governo?

La tortura è pratica comune nelle carceri egiziane. Come illudersi che uno studente, solo per il fatto di essere straniero, potesse muoversi impunemente negli ambienti dell’opposizione? I servizi segreti e la polizia egiziana avevano già espulso nel 2015 una studentessa universitaria francese che conduceva un’indagine simile a quella del povero Giulio.
E poi, cosa vuol dire “inchiesta partecipata”? Significa che Regeni “partecipava” alle attività dell’opposizione, abbandonando la neutralità accademica?

Tutte domande che certo non diminuiscono le tremende responsabilità degli assassini e torturatori, né del governo egiziano che li copre. Ma che aspettano di ricevere risposta anche dagli esimi professori di Cambridge.
Mauro Suttora

Tuesday, November 24, 2015

Viaggiare sicuri

METE TRANQUILLE PER LE VACANZE INVERNALI

di Mauro Suttora

Oggi, 18 novembre 2015

Dicembre, andiamo, è tempo di viaggiare. Ora i turisti lascian l’Italia e vanno verso il mare. Ma dove prenotare per le vacanze di Natale e Capodanno? Con l’aiuto del sito www.viaggiaresicuri.it del ministero degli Esteri e del Global Peace Index, ecco una guida ragionata alle zone «calde» del mondo. Per evitare quelle ad alta temperatura politica, e godere invece del sole tropicale o equatoriale.
Tenendo presente che la situazione può evolvere di giorno in giorno, e che anche nei Paesi più pacifici ci sono alcune zone off-limits.

Egitto giù, Tunisia su

Purtroppo, dopo l’attacco dell’Isis al jet russo sul Sinai, Sharm-el-Sheikh ma anche le crociere sul Nilo e le piramidi del Cairo non sono consigliabili. Diciamo purtroppo, perché l’Egitto invece ha bisogno degli introiti turistici proprio per evitare che i giovani, impoveriti, siano attratti dal fondamentalismo islamista.

Stesso discorso per la Tunisia: il governo è riuscito a ripristinare un clima di fiducia dopo gli attacchi della scorsa estate, e i turisti occidentali stanno tornando.
Ma gli unici Paesi arabi dove il rischio politico è inesistente sono Oman ed Emirati (Dubai, Abu Dhabi) ad est, e Marocco all’estremo opposto, sull’oceano Atlantico.

Ovviamente da escludere le zone di guerra: Iraq, Siria, Libia, Yemen. Per Israele e Giordania (Petra) c’è il solito discorso: da un giorno all’altro potrebbero rinfocolarsi guerriglie decennali, con attacchi improvvisi per strada. C’è comunque da dire che mai turisti sono stati coinvolti nelle varie intifade o rivolte palestinesi.

In Turchia si sperava che dopo le recenti elezioni il presidente Recep Erdogan riportasse un po’ di stabilità. Invece il governo continua a usare il pugno duro contro i curdi, i quali a loro volta rispondono con attentati anche a Istanbul e Ankara.

Tutto sommato, l’Iran offre una situazione più rassicurante. La recente apertura politica è accompagnata da un boom turistico: a Teheran, Isfahan e Persepoli gli hotel registrano da un anno il tutto esaurito, con centinaia di bus colmi di turisti occidentali.

Certo, gli ayatollah continuano a imporre la censura (nessun collegamento internet è possibile con i siti dei giornali esteri), e i guardiani della rivoluzione sono fastidiosi nell’imporre il velo alle turiste donna col capo scoperto. Ma la maggioranza della popolazione è amichevole, lontana da certi fanatismi.

Pace in tutte le isole

Nessun problema per le classiche (e costose, ora che l’euro è debole) mete di mare invernali: Mauritius, Seychelles, Zanzibar, Maldive. Queste ultime hanno impensierito nelle ultime settimane per alcuni disordini politici nella capitale Male, che però è lontana dall’unico aeroporto internazionale e dagli itinerari turistici.

Anche l’arcipelago di Capo Verde, sull’Atlantico, è una meta sicura (e più economica), così come i Caraibi e tutta l’America Latina. Uniche eccezioni: il Messico per la criminalità comune, il Venezuela per possibili dimostrazioni politiche, e il Brasile in alcuni quartieri di alcune grandi città in alcune ore.

In Asia da escludere il Pakistan per il persistente rischio islamista, mentre la recente uccisione di un italiano nel Bangla Desh sembra sia stato un episodio isolato.

Asia ok tranne Pakistan

Negli anni scorsi non sono mancati attentati terroristici in India (Bombay) e Indonesia (Bali), ma statisticamente adesso il rischio è quasi zero.

Non abbiamo colorato di verde la Birmania soltanto perché, dopo la stupenda vittoria della premio Nobel della Pace Aung San Suu Kyi, non sappiamo ancora se e come reagiranno i generali dell’esercito. Ma si spera che la situazione rimanga tranquilla, come nella vicina Thailandia dopo l’attacco all’albergo di Bangkok. Le località turistiche (Phuket), comunque, sono sorvegliatissime.

Dalla nostra mappa mondiale abbiamo ovviamente tralasciato Paesi bellissimi ma non mete abituali di vacanze invernali: dal Canada all’Australia, dalla Russia alla Cina, dal Giappone al Sudafrica.

Mauro Suttora

Wednesday, February 09, 2011

parla il principe Idris Al Senussi

"ATTENTI, L'AFRICA È TUTTA IN FIAMME"

Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"

Oggi, 9 febbraio 2011

di Mauro Suttora

«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».

Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».

Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?

«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».

Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?

«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».

La Libia sembra tranquilla.

«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».

Che è usato anche in Egitto.

«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».

In Marocco c’è calma.

«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».

E in Libano?

«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».

Che cosa può fare l’Italia?

«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».

Si candida a tornare in Libia?

«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».

Mauro Suttora