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Monday, September 12, 2022

La guerra lunga può diventare una trappola per Zelensky

Non è mai positivo quando i conflitti si trascinano a lungo. C'è una costante che li accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. Colpisce indiscriminatamente, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 Settembre 2022 

Nella primavera 2011 guardavo i ragazzi sul lungomare di Bengasi. Tornavano dai combattimenti contro i soldati di Gheddafi a Sirte, trasportati su pickup con mitragliatrice. Da qualche settimana i libici si erano ribellati al loro dittatore, e quei giovani con divise raffazzonate erano corsi volontari a sfidare la morte, coraggiosi. Al loro rientro in città erano giustamente accolti da eroi: esibivano orgogliosi i kalashnikov recuperati nelle caserme abbandonate dai militari regolari. Come capita a tutti i ventenni, piaceva loro far colpo soprattutto sulle ragazze. 

Sappiamo com'è andata a finire: da dieci anni la Libia è in preda all'anarchia. Molti di quei ragazzi sono rimasti arruolati nelle milizie che perpetuano la guerra civile. Affascinati dallo status garantito dalla divisa, esaltati dal machismo, riluttanti a tornare nel triste trantran della vita precedente: studio, lavoro? Che fatica, che noia.

Per questo non è mai positivo quando le guerre si trascinano a lungo. Neanche in Ucraina. C'è infatti una costante che le accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. La quale non cambia molto fra vincitori e vinti, aggrediti e aggressori. Perché le conseguenze negative di una guerra prolungata colpiscono entrambi i fronti. Col tempo, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile.


Sono state scritte biblioteche sulle esiziali conseguenze della prima guerra mondiale nella psiche delle masse smobilitate nel 1919, dopo cinque lunghi anni. I reduci italiani furono fra le principali cause del fascismo, le insoddisfazioni tedesche ci regalarono Hitler. Le vittorie sono sempre mutilate, le sconfitte sempre umilianti. La via d'uscita è facilmente la mistica dell'uomo forte. Gli ex combattenti diventano disadattati, disabituati alla pace. 

I mujaheddin afghani plasmati dalla resistenza antisovietica negli anni 80 hanno prodotto Osama Bin Laden e i talebani. Quando la guerra s'incancrenisce, l'unica stabilizzazione che si ottiene è quella del nemico. I tre quarti di secolo dei campi profughi palestinesi, con quattro generazioni cresciute nel mito della violenza, oggi promettono solo ulteriori decenni di odio. Che ha contagiato anche la controparte israeliana.

Egualmente, il Kosovo liberato 23 anni fa ha ancora bisogno del peacekeeping Nato, e si scopre ai bordi della legge quasi quanto la Serbia di Milosevic. Dal 2020 il suo eroe nazionale Hashim Thaci, che l'ha governato prima come capo militare, poi da premier e presidente, langue in una cella dell'Aja a poche centinaia di metri da quella dove si suicidò Milosevic nel 2006: entrambi accusati di crimini di guerra. 

Ma anche le più avanzate Croazia e Slovenia, accolte nella Ue e nell'euro (Zagabria fra quattro mesi), conservano piccole incrostazioni nazionaliste che impediscono loro di sciogliere una comica disputa sulle reciproche acque territoriali davanti a Trieste.

Insomma, le scorie del militarismo sono sempre difficili da smaltire. Anche nelle nostre democrazie. Nel 1960 fu proprio un ex generale, il presidente Usa Eisenhower, ad ammonirci contro il pericolo del 'complesso militare industriale': la perversa alleanza fra industria bellica e alte gerarchie delle forze armate, che per forza d'inerzia spinge ad aumentare le spese per armamenti. 

Pochi anni dopo il dramma del Vietnam gli diede ragione. Ma allora la reazione dei giovani statunitensi spinse alla pace e all'abolizione della leva. Paradossalmente invece, tanto più una guerra è di popolo, popolare, percepita come giusta (e la resistenza ucraina lo è), tanto più alti sono i rischi di un'escalation delle rivendicazioni. 

Perciò Zelensky è sicuramente un eroe, ma gli auguriamo di smettere al più presto la sua maglietta mimetica. Altrimenti diventerà lui stesso prigioniero di un revanscismo illimitato che impedirà la pace. Se oserà dire l'ovvio, e cioè che la Crimea e quel quarto di Donbass invasi dalla Russia nell'ormai lontano 2014 sono trattabili, verrà accusato di tradimento dai militaristi ucraini. Rischierà la fine di Rabin o Gandhi: assassinati non da nemici, ma da fanatici della propria parte. Induriti e impazziti a causa di guerre troppo lunghe. 

Thursday, November 23, 2017

L'ultima bufala su Hitler



Desecretato un rapporto Cia del 1955: finta foto dalla Colombia

di Mauro Suttora

Oggi, 16 novembre 2017

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha fatto desecretare migliaia di documenti riservati della Cia (Central intelligence agency). Si aspettavano novità sensazionali sull’assassinio di John Kennedy. Ma la verità sull’omicidio di Dallas (22 novembre 1963) è probabilmente rimasta nei 500 «files» che Cia e Fbi hanno ottenuto di non divulgare ancora, in nome del «segreto di stato».

Però possiamo consolarci con un documento che riguarda un altro dei grandi misteri del ’900: la fine di Adolf Hitler. Non pochi, infatti, hanno sostenuto che il dittatore nazista sia riuscito a fuggire in Sud America nel 1945.

Siamo nel 1955. Il 29 settembre un agente col nome in codice Cimelody-3 viene contattato da un amico fidato che aveva lavorato sotto di lui in Europa. Cimelody non ne rivela il nome: scrive solo che risiede a Maracaibo (Venezuela).

Questa fonte racconta che nella seconda metà di settembre un certo Phillip Citroen, ex SS tedesco, gli ha detto che «Adolph [sic] Hitler è ancora vivo». Citroen lo avrebbe incontrato in Colombia, durante un viaggio di lavoro da Maracaibo come dipendente di una società olandese di trasporti marittimi. E si sarebbe anche fatto fotografare con lui, ma non gli mostra la foto.

Secondo Citroen Hitler lasciò la Colombia per l’Argentina nel gennaio del 1955. E non avrebbe più potuto essere processato come criminale di guerra, perché erano passati dieci anni dalla fine del conflitto.

«Sottrasse la foto»
Il 28 settembre l’amico di Cimelody riesce a sottrarre la foto di Citroen con Hitler. E il giorno dopo la mostra all’agente segreto statunitense. David Brixnor, capo della stazione Cia di Caracas, il 3 ottobre 1955 scrive nel suo rapporto alla sede centrale: «Naturalmente Cimelody-3 non è stato in grado di esprimere alcuna valutazione sulla possibile veridicità di questa storia fantastica. Tuttavia, ha preso in prestito la foto per farne delle copie, prima di restituirla al proprietario il giorno dopo».

Nella foto appare Citroen accanto allo pseudo-Hitler. Nel retro c’è scritto: «Adolf Schrittelmayor, Tunga, Colombia, 1954».
Che a Tunja nel dopoguerra si fossero rifugiati dei nazisti, è possibile. Ma che quell’ometto con i baffetti e i capelli ancora nerissimi potesse essere un 65enne Hitler, è assai improbabile. Infatti quel rapporto finì nella cantine della Cia, e fu riesumato nel 1963 solo per essere microfilmato e tornare nel giusto oblio. Soltanto uno stupido, infatti, avrebbe potuto conservare i baffi che lo identificavano immediatamente. E Hitler stupido non era.

Fantasie complottiste
Naturalmente sono stati decine gli avvistamenti del dittatore tedesco da parte dei più fantasiosi complottisti, fino agli anni 70. E c’era chi li prendeva sul serio. Per esempio Edgar Hoover, potente capo dell’Fbi  fino al 1972: faceva investigare a fondo su tutte le segnalazioni, provenienti soprattutto dal Sud America, dove in effetti trovarono rifugio diversi ex gerarchi nazisti. Anche il presidente Usa Dwight Eisenhower sospettava che il Führer fosse sopravvissuto.

Ma alla fine la verità più probabile è che Hitler sia veramente morto suicida nel suo bunker di Berlino il 30 aprile 1945, poche ore prima che arrivassero i soldati sovietici.
Stalin ordinò che i cadaveri del capo nazista e della sua Eva Braun fossero distrutti, per evitare che una eventuale tomba diventasse luogo di culto per i nostalgici. I sovietici diffusero la foto di un corpo prima che venisse bruciato. Ma pare che fosse quello di un sosia (che Hitler si teneva sempre vicino, per sviare gli attentati), perché i nazisti avevano già cremato il loro capo, come lui aveva ordinato.

Il cranio di una donna
I sovietici dicevano di aver conservato alcuni resti di Hitler. Lo scienziato statunitense Nick Bellantoni (Università del Connecticut) esaminò quei frammenti di teschio nel 2009: è risultato che appartenessero a una donna tra i 20 e i 40 anni. Il Führer ne aveva già 56 quand’è morto.
Mauro Suttora


Wednesday, May 30, 2012

Cassino: ecco chi la sacrificò

IL VERO MOTIVO DELLA BATTAGLIA CHE DISTRUSSE L'ABBAZIA:
Gli alleati volevano tenere i tedeschi lontani dalla Francia. Così assediarono per otto mesi il monastero. Ora un documentario su History svela cosa accadde e perché

di Mauro Suttora

Oggi, 23 maggio 2012

È stata una delle battaglie più lunghe della storia: quasi nove mesi. E fra le più sanguinose: 50 mila soldati alleati morti, 20 mila tedeschi e migliaia di civili italiani. Il primo spaventoso bombardamento angloamericano su Cassino (Frosinone) avvenne appena due giorni dopo l’illusione che con l’armistizio la guerra fosse finita: il 10 settembre 1943. Ma la cittadina e la sovrastante abbazia, fondata da San Benedetto nel 529, furono liberate soltanto il 18 maggio ’44.

Perché ci volle così tanto tempo? Il documentario Cassino, 9 mesi all’inferno, in onda su History (canale 407 di Sky) venerdì 25 maggio alle 21, rivela che la vera strategia alleata non era vincere presto, ma combattere a lungo. Grazie a documenti e testimonianze inedite, il regista Fabio Toncelli ha ricostruito i retroscena politico-militari della campagna anglo-americana in Italia nell’inverno 1943-44, i drammatici errori dei comandi, e le reciproche diffidenze nello schieramento alleato.

Cassino si trovava proprio sulla Linea Gustav che tagliava l’Italia in due fra il Tirreno (foce del Garigliano) e l’Adriatico (all’altezza di Ortona, in provincia di Chieti). Questa linea di fortificazioni era stata costruita dai nazisti dopo il «tradimento» dell’Italia non più fascista, guidata dal maresciallo Pietro Badoglio. Le truppe tedesche la scelsero come fronte di resistenza dopo lo sbarco alleato a Salerno, nel settembre ’43, perché era il punto più stretto della penisola italiana. Ma soprattutto perché l’abbazia di Montecassino controllava da un’altura la principale via d’accesso a Roma, con la statale Casilina.

Sacrificarsi per la Normandia

In attesa dello sbarco in Francia, il compito assegnato agli alleati in Italia era tenere impegnata la macchina bellica nazista, a qualunque costo e il più a lungo possibile. E questo segnò il destino di Cassino.

Dall’attacco a Monte Lungo a quello al fiume Rapido, fino al bombardamento del monastero, fu un susseguirsi di operazioni militari definite dagli stessi protagonisti “suicide”, e spesso basate su presupposti errati.
I documenti d’archivio con le clamorose dichiarazioni del premier britannico Winston Churchill e del generale Dwight Eisenhower, comandante delle truppe statunitensi in Europa, fanno capire le vere finalità della campagna di Cassino. Sono confermate dalle testimonianze dei soldati e dai racconti dei civili, ormai ottantenni.

La linea Gustav a Cassino era imprendibile. Già negli ultimi mesi del ’43 gli alleati avevano capito che, nonostante i bombardamenti, era impossibile sfondare in quella parte del fronte. I tedeschi erano ben piazzati sulle alture, anche se non si erano installati dentro l’abbazia.

Il generale francese Alphonse Juin, che comandava le truppe francesi composte in gran parte da arabi delle colonie (i «marocchini» diventati poi tristemente famosi per la libertà di stupro loro concessa, come mostra il film La Ciociara con Sophia Loren), lanciò quindi i suoi a dicembre in una spedizione di aggiramento all’interno, sulle Mainarde. Riuscirono a creare un varco, ma poi gli alleati non insistettero.

Perché? In realtà, quel che volevano Churchill ed Eisenhower, svanita la speranza di una veloce liberazione dell’Italia, era impegnare il maggior numero possibile di divisioni naziste nella nostra penisola. Obiettivo: distoglierle il più a lungo possibile dal già previsto sbarco in Francia. Indecisi inizialmente fra il Mediterraneo e la Normandia, alla fine gli alleati optarono per quest’ultima.

In quei mesi eroici e convulsi soltanto Churchill aveva capito il vero problema della guerra. Che non era più vincere i tedeschi, ma contenere la futura minaccia sovietica. Il premier britannico avrebbe fatto di tutto per impedire che Stalin si impadronisse di metà Europa, come poi accadde. Di qui le trattative segrete con Benito Mussolini per una pace separata con Salò: se il Duce avesse convinto Adolf Hitler a ritirare le sue truppe dall’Italia, i nazisti le avrebbero inviate sul fronte orientale, rallentando l’avanzata russa. E gli alleati avrebbero potuto egualmente sbarcare in Francia.

Carneficina anche ad Anzio

È nel quadro di queste strategie, e nel timore che i tedeschi riuscissero ad arrivare alla bomba atomica prima degli americani, che si spiega lo stallo di Cassino.

Il generale Mark Clark, comandante delle truppe statunitensi in Italia, mordeva invece il freno. Voleva passare alla storia come il liberatore di Roma, e per questo sbarcò ad Anzio nel gennaio ’44, alle spalle di Cassino. Si era quindi stabilita una testa di ponte a soli 50 km dalla capitale, aggirando ancora un volta la linea Gustav. Niente da fare. Nonostante la via verso Roma fosse libera e raggiungibile in poche ore, le truppe da sbarco alleate preferirono consolidare le loro posizioni. Così i tedeschi ebbero il tempo di riorganizzarsi, di contrattaccare, e fu una carneficina.

Dovettero passare altri quattro mesi fino alla liberazione della capitale, il 4 giugno 1944. Nel frattempo, ci andò di mezzo anche l’abbazia. Che, in quanto territorio neutrale (apparteneva giuridicamente allo Stato della Città del Vaticano), non poteva essere bombardata dagli alleati, i quali detenevano il dominio dell’aria.

Ma i nazisti ne approfittarono: stiparono a pochi metri dalle mura esterne enormi depositi di munizioni. Gli angloamericani sostenevano che erano anche entrati nell’abbazia, e da lì bersagliavano gli assedianti. Non era così, e nella guerra della propaganda i tedeschi nei mesi seguenti usarono le foto dell’abbazia distrutta come esempio di una pretesa «barbarie» degli alleati.

In ogni caso, nel maggio ’44 tutto è pronto per lo sbarco segreto in Normandia. Churchill ed Eisenhower non hanno più bisogno di tenere impegnate le otto divisioni tedesche in Italia, per paura che ripieghino in Francia. Danno quindi il via libera a Clark. E, ancora una volta, la Linea Gustav viene aggirata dai francesi, questa volta sui monti Aurunci.
Mauro Suttora

Wednesday, March 28, 2007

Impero militare Usa

L’impero delle 737 basi militari

Il Diario, 23 marzo 2007

di Mauro Suttora

Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».

È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.

Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.

Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...

Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».

Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.

Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.

Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.