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Thursday, September 10, 2020

De Laurentis e i vip del virus

di Mauro Suttora

10 settembre 2020

Ci mancano, in fondo, i cinepanettoni che Aurelio De Laurentiis non produce più da anni. In compenso ora c'è il virus. E dopo la surreale visita letale di Briatore a Berlusconi a Ferragosto, i vip continuano a regalarci buonumore. 

Naturalmente auguriamo a tutti il miglior lieto fine: di farsi il covid in forma blanda, come sembra stia succedendo a Mr. Billionaire chez Santanché ("Non ne posso più di averlo in casa", confessa però la pitonessa a Vanity Fair); di lasciare presto il San Raffaele scampando anche al medico personale Zangrillo, nel caso del Trilionario vero da Arcore; e che al presidente del Napoli la polmonite non sfiori neppure un interstizio.

Nel frattempo, però, la città dell'isola di Creta sinonimo di casino totale (Canea) si sta inevitabilmente scatenando in queste ore contro De Laurentis sui social.
Statisticamente c'è poco da fare: nove italiani su dieci non tifano Napoli, quindi il sarcasmo è d'obbligo fra i tifosi avversari. Imbufaliti perché Aurelione, come il cavallo di Troia, ha portato il virus proprio dentro la città delle massime meraviglie italiane: le venti squadre di serie A, i cui presidenti ieri sono stati per ore assieme a lui in una riunione della Lega Calcio a Milano.

Li ha infettati in blocco, visto che era senza mascherina? "Abbiamo rispettato la distanza sociale", giurano tutti. Il problema è che De Laurentis pare sia entrato nel consesso dell'Hilton barcollando. Ma che abbia attribuito a una fantastica indigestione di ostriche i propri sintomi già evidenti.

Lo sventurato non può neanche farsi scudo con gli affetti familiari, come la figlia di Berlusconi. Barbara si è salvata in corner dal ruolo di untrice perché alla fine perfino la sorellastra Marina è risultata impestata. E quindi diventa irrilevante che lei sia stata a pazziare mask-free per un'intera notte all'Anema e Core di Capri, mentre la prudente primogenita si era eclissata per mesi nella sua villa francese, obbligando pure il papi all'esilio terapeutico.

Pure la moglie di De Laurentis risulta infetta. Ma ai tifosi del Napoli sta a cuore la rosa dei giocatori. E quelli sono rimasti in ritiro col presidente fino a giovedì scorso. Con quanto uso di mascherine, lo si può solo immaginare. 

D'altra parte, altro che negazionisti: il colpo letale contro le fastidiose copribocca (alzarle sul naso è sempre più optional) lo ha appena sferrato la virologa Ilaria Capua: "Sono come i preservativi", ha sentenziato martedì sera. Verità da oltreoceano fuggita: il maschio italiano medio, da sempre allergico ai rapporti protetti, le schifa uguale.

Ora la parola magica è "periodo di latenza": ai presidenti delle squadre di calcio e ai giocatori del Napoli non resta che aggrapparsi alla speranza che nei prossimi giorni, se risulteranno negativi ai tamponi, lo siano veramente, e non solo perché il virus delaurentisiano tarda a palesarsi. Altrimenti, o presidente avrà mandato in vacca il campionato. E pure i diritti tv.

Perché, diciamolo con onestà: ormai nessuno ci capisce più niente. I nostri bimbi non possono andare in asilo se osano fare uno starnuto, mentre nel massimo luogo del potere italiano (che non è il consiglio dei ministri, ma la Lega calcio di serie A) sono liberi di scatarrarsi addosso.

Fra i vip dell'era virus comunque il posto d'onore se l'è conquistato il capolista pd alla regione Veneto. Il suo video in cui stramazza ben due volte al suolo durante un dibattito streaming è ormai un crudelissimo cult. Meglio di De Laurentis. Ma guai ad ammetterlo: sarebbe antipolitica.
Mauro Suttora

Saturday, December 24, 2016

Politici non laureati

di Mauro Suttora

settimanale Oggi, 24 dicembre 2016

Probabilmente Valeria Fedeli sarà una brava ministra dell’Istruzione, perché ha l’esperienza più preziosa per quel posto: è una sindacalista, quindi andrà d’accordo con il turbolento mondo dei professori. Non è laureata, ma è finita nei guai per non averlo detto, più che per non averlo fatto. Aveva spacciato come dottorato un corso triennale di assistenti sociali. In più ora si scopre che non ha neanche la maturità: i suoi tre anni di scuola magistrale non gliel’hanno fatta raggiungere.

Ma la simpatica signora bergamasca si trova in folta e ottima compagnia. La metà dei capi dei quattro principali partiti italiani, infatti, non ha la laurea: Beppe Grillo è ragioniere, Matteo Salvini ha la maturità classica. Così come illustri premier del passato: Bettino Craxi si iscrisse a ben tre università (Milano, Perugia, Urbino) senza cavare un ragno dal buco e facendo arrabbiare suo padre; Massimo D’Alema fu ammesso alla prestigiosa Normale di Pisa ma anche lui abbandonò gli studi per la politica a tempo pieno.

La precoce attività di partito ha amputato anche gli studi di Walter Veltroni (diploma di una scuola professionale per la cinematografia), del presidente del Pd Matteo Orfini (pochi esami di archeologia) e di tre ministri colleghi della Fedeli: alla Sanità Beatrice Lorenzin, 50/60 alla maturità classica, al Lavoro l’agrotecnico Giuliano Poletti, e alla Giustizia Andrea Orlando, liceo classico.

Francesco Rutelli si è da poco reiscritto a 62 anni ad Architettura: gli mancano due esami e la tesi, «mi laureo come voleva mio padre». Anche la senatrice grillina Paola Taverna vuole recuperare: si è iscritta a Scienze politiche. Esigenza non condivisa da Umberto Bossi, che per anni fece finta di andare all’università di Medicina a Milano, mentre in realtà andava ad attaccare manifesti della Lega Nord. 
A Giorgia Meloni basta il diploma di liceo linguistico, a Maurizio Gasparri il liceo classico, e anche Francesco Storace non è laureato. Così come il suo successore alla presidenza della regione Lazio, Nicola Zingaretti (Pd, fratello dell’attore Luca), e l’assessore Lidia Ravera, scrittrice.

Michela Vittoria Brambilla ha portato a casa molti randagi, ma solo qualche esame di filosofia. Sempre nel centrodestra, anche l’ex sottosegretaria Michaela Biancofiore si è accontentata del diploma magistrale. Hanno agguantato una laurea triennale Stefania Prestigiacomo a 40 anni nel 2006 (Scienza dell’amministrazione alla Lumsa, Libera università Maria Santissima Assunta), Gianni Alemanno a 46 (Ingegneria dell’ambiente a Perugia), Alessandra Mussolini a 32 (Medicina).

Ma il record della laurea attempata va agli ex ministri Claudio Scajola, Legge a Genova a 53 anni, e Mario Baccini, 110 e lode in Lettere a 52 anni alla Lumsa con tesi su Amintore Fanfani.

Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino a 26 anni, è scivolata su un «master» alla Bocconi che esibiva sul sito ufficiale del governo: in realtà era un corso serale di 24 giorni per diplomati con licenza media inferiore. Peggio di lei è capitato al giornalista Oscar Giannino, che si è ritirato dalla politica per aver millantato lauree in Legge ed Economia e Master a Chicago. Anche l’ex Fratello d’Italia Guido Crosetto ha sbandierato una finta laurea in Economia.

Marco Pannella si laureò in legge a 25 anni (come Silvio Berlusconi), ma per farlo nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è bocconiana come Mario Monti e Corrado Passera. Ma è stata una delle ultime a laurearsi nel corso in Lingue straniere, soppresso nel 1972.

Gianfranco Fini ha una laurea in Pedagogia ottenuta a 23 anni con pieni voti a Roma, ma senza frequentare le lezioni: nel 1975 i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Non sono laureati i grillini Luigi Di Maio (otto esami in cinque anni fra Ingegneria e Legge) e Vito Crimi (fuoricorso in Matematica).
Mauro Suttora

Sunday, January 06, 2013

-50 giorni dal voto


Oggi, 2 gennaio 2013

di Mauro Suttora

La «salita in politica» di Mario Monti ha sorpreso molti. Il premier preferisce dire così, invece di «scendere in campo», per rispetto all’attività che ha abbracciato da un anno. Ma il risultato non cambia. La decisione di partecipare direttamente alle elezioni del 24 febbraio, invece di restare «sopra le parti», ha scatenato le reazioni più diverse.

Entusiasti, ovviamente, i centristi. Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e tutti coloro che coltivavano da tempo la speranza di agganciarsi a Monti ora possono usare nelle loro liste il nome del premier. In concreto, secondo i sondaggi, questo significa quadruplicare i voti: dal 5 fino al 20 per cento.

Il centrosinistra invece è perplesso. Pier Luigi Bersani non critica la scelta del premier, ma sperava che non si schierasse. In cambio della sua neutralità probabilmente gli avrebbe offerto la presidenza della Repubblica. Ora ha un avversario in più, che potrebbe impedirgli di avere la maggioranza al Senato (quella alla Camera sembra abbastanza sicura per il Pd).

Sivio Berlusconi invece è scatenato: «Monti ha tradito la sua posizione di tecnico», lo accusa. E promette addirittura una commissione d’inchiesta sul «golpe» che lo avrebbe disarcionato nel 2011, ispirato da poteri forti europei e dalla detestata Angela Merkel, cancelliera tedesca.

Alle ali, Beppe Grillo come sempre non fa distinzioni fra Monti, Pd e Pdl: tutti da cacciare. Idem la Lega, che ha una sola parola d’ordine: «Il 75 per cento delle nostre tasse resti al Nord». E all’estrema sinistra si candida Antonio Ingroia, magistrato antimafia: con lui Antonio Di Pietro e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris.

Ma forse i più delusi dall’inedito Monti che smette i panni di Cincinnato per gettarsi nella mischia sono i due suoi ex sostenitori più importanti: il presidente Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica. Il primo ha cercato di dissuaderlo, senza esito. Il secondo adesso lo implora: «Non creare una nuova Dc».

Il Vaticano, in effetti, ha già «benedetto» il nuovo Centro montiano. Sperando che non finisca stritolato dal bipolarismo, come accadde a Partito popolare e patto Segni nel 1993. C’è anche un altro curioso indizio che porta alla Dc. La prima riunione dei montiani è stata ospitata nel convento delle suore di Sion a Trastevere (Roma): a poche decine di metri c’è un altro convento, Santa Dorotea, dove nel ’59 nacque la maggiore corrente democristiana.

Padrone di casa è stato il ministro Andrea Riccardi, della vicina comunità di Sant’Egidio. E lì, in sole tre ore, si è consumata la prima clamorosa rottura fra i centristi. Corrado Passera, considerato finora il ministro tecnico più disponibile a trasformarsi in politico, ha subito rinunciato dopo il rifiuto di Casini a formare una lista unica.

Così, alla Camera si presenteranno varie formazioni unite soltanto dal comune richiamo all’Agenda Monti: Udc, Fli di Fini, Italia Futura di Luca Montezemolo. Ma anche il presidente della Ferrari, come Passera, non si candida. Al massimo i due verranno ripescati come ministri.

Tutto, naturalmente, dipenderà dal voto. Se il Pd avrà la maggioranza assoluta anche al Senato, potrà governare da solo. Unico alleato: Nichi Vendola di Sel (Sinistra e libertà). Ma se si ripetesse la situazione del 2006, quando Romano Prodi dipendeva dal voto dei senatori a vita per la sua risicata maggioranza, Bersani dovrà chiedere aiuto a Monti e Casini. In cambio, potrebbe concedere loro il Quirinale e vari ministeri.

Fra i ministri del centrosinistra, pare che rientreranno dalla finestra i big usciti dalla porta: Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Non più parlamentari, per loro si parla di dicasteri importanti come Esteri e Interni.

Nel centrodestra non ci si aspetta granché da queste elezioni. I sondaggi sono quello che sono. Sarà già tanto conquistare il secondo posto dietro al Pd, senza essere superati dal Movimento 5 stelle di Grillo e dal Centro di Monti. Berlusconi è alla sua sesta candidatura, dopo tre vittorie (1994, 2001, 2008) e due sconfitte (1996, 2006). Forse Monti spera di attirare nella propria orbita altri big berlusconiani, oltre agli ex ministri Giuseppe Pisanu e Franco Frattini. Ma per ora il carniere è semivuoto. Anzi, l’attacco più duro contro il premier viene proprio da destra: «Monti è come le banche, che ti massacrano tutto l’anno e a Natale ti regalano un’inutile agenda», è la perfida battuta di Daniela Santanché.
Mauro Suttora