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Wednesday, September 25, 2013

Com'è moderno il vecchio Lucrezio

IL DE RERUM NATURA TRADOTTO E COMMENTATO DA ODIFREDDI

di Mauro Suttora

Oggi, 18 settembre 2013


Quanto avete sofferto, a scuola, per il latino? E quanto avete odiato le intraducibili versioni del De Rerum Natura di Lucrezio?

Beh, ravvedetevi. Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi (Come stanno le cose: il mio Lucrezio, la mia Venere, ed. Rizzoli) vi farà amare il capolavoro del poeta romano.
Odifreddi, infatti, nelle pagine dispari offre una sua versione in prosa de La Natura delle Cose. E nelle pagine pari, di fronte, la commenta, con sorprendenti rimandi all’attualità che la rendono godibilissima.

Bob Dylan, per esempio. Chi l’avrebbe detto che la sua canzone più famosa, Blowin’ In The Wind del 1962, appariva già nel verso 559 del libro IV del De Rerum (quello sulla fisiologia e i sensi umani)? «Conturbari vocem, dum transvolat auras», che Odifreddi traduce «la voce si turba, disperdendosi nel vento». Così, «la risposta sta soffiando nel vento» duemila anni dopo.

Oppure Federico Fellini, Woody Allen e John Lennon. «Il film 8 e mezzo», scrive Odifreddi, «è un’opera autobiografica che mostra Fellini mentre pensa al nuovo film che deve girare. Idea simile a Stardust Memories di Allen (1980), in cui la finzione dell’assassinio del regista anticipa di poche settimane la realtà di quello di Lennon».
Ebbene, sull’autoreferenzialità dell’opera d’arte aveva già scritto tutto Lucrezio (IV, 969-970): «Sogno di indagare la natura delle cose, di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose».

Anche Italo Calvino si ispira a questi versi all’inizio del suo notissimo libro del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino…»

Gli esempi di autori che citano se stessi sono innumerevoli, avverte Odifreddi: «Nell’Iliade Elena ricama una veste di por- pora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nell’Amleto si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la prima. Nei Sei personaggi in cerca d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa ricerca».

Quegli stessi versi di Lucrezio offrono un esempio archetipico dell’indistinguibilità fra sonno e veglia. Calderon de la Barca nel 1635 ci scrisse sopra un intero poema: La vita è sogno. «E vari film di fantascienza», aggiunge Odifreddi, «hanno esplorato mondi popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores del 1997, alla trilogia Matrix» con Keanu Reeves.

Insomma, quanti spunti di attualità potrebbe trovare un bravo prof di latino per appassionare i propri studenti. Invece, come avvertiva Primo Levi, «Lucrezio non si legge volentieri nei licei: ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha sempre emanato odore di empietà».

Lucrezio, infatti, era un seguace dei filosofi materialisti Democrito ed Epicuro. Per niente religioso, quindi. Anzi ateo, come Odifreddi. Il quale polemizza: «Gli scrittori cristiani, per screditare il più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione, tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi versi nei recessi della follia e si fosse suicidato. Ma la cosa è poco verosimile». In ogni caso, nel 1946 l’Unione Sovietica fu l’unico Paese al mondo che celebrò il secondo millennio dalla morte di Lucrezio.

Una delle parti più godibili del De Rerum è quella su amore, matrimonio e sesso. Immaginate che scandalo se a 15-16 anni ci avessero fatto tradurre questi versi che spiegano scientificamente le polluzioni notturne (IV,1033-36): «L’adolescente in preda ai bollenti spiriti sogna qualche ragazzina bella e prosperosa e gli si inturgida il membro, finché eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta nella vita, imbrattandosi la veste».

Le femministe avrebbero qualcosa da ridire su questo Lucrezio antiromantico: «Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio volgere altrove la mente e scaricare il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo nell’attesa dell’unico sempiterno amore è garanzia di affanni e dolori».

Il poeta si spinge oltre, e da perfetto epicureo contesta il matrimonio: «Chi evita saggiamente l’amore non deve certo privarsi del sesso: può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E ne ricava una pura voluttà».

Dopo una descrizione dell’atto sessuale che rasenta la pornografia, Lucrezio diventa misogino: «Gli amanti si spossano a vicenda, passano la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si trascurano i propri doveri, si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di sperma».

Nessuno sospettava che Lucrezio avesse scritto tali porcherie. Neanche gli studenti e professori dei tanti licei a lui intitolati. È passato alla storia, invece, questo brano (attualissimo) sull’amore che rende ciechi: «Accecàti dalla passione, attribuiamo all’amata pregi inesistenti. Così le donne brutte si trasformano in bellezze ricercate e adulate. Le scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche “scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano “timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde “cagionevoli”, e le già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono Giunoni».

Stoccata finale, massimo dello scetticismo: «Quand’anche una donna fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. Se vivevamo bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte le altre».

Lucrezio è considerato l’inventore dell’espressione «addolcire la pillola». Odifreddi avverte che fu invece Senofonte. Fra i tanti rimandi contemporanei, cita quello di Mary Poppins (1964): «Basta un po’ di zucchero e la pillola va giù». Ma le pillole sarcastiche del sommo poeta latino contro l’amore è difficile ingoiarle anche oggi.
Mauro Suttora