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Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Wednesday, March 02, 2011

Quanti rischi in Libia

Ipotesi sulle possibili conseguenze, per l'Italia e il resto del mondo, della rivolta popolare contro il regime di Gheddafi

Oggi, 2 marzo 2011

Nel Nordafrica è arrivata la libertà. E forse (speriamo) la democrazia. Ma i pericoli sono ancora tanti. Anche per noi

di Mauro Suttora

Evviva: dopo Tunisia ed Egitto, anche la Libia sembra quasi liberatada un regime e avviata verso la democrazia. Ma per noi italiani si aprono molti interrogativi. Ci sarà un'invasione di profughi? Un pericolo terrorismo? Il prezzo della benzina salirà? E le nostre commesse? «L'Unione Europea deve capire che il problema non è italiano, ma continentale», dice l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu. «E questo per due motivi. Primo: l'Italia è il confine sud di tutta l'Europa, una volta entrati da qui c'è libertà di circolazione senza più barriere alle frontiere. Secondo: la stragrande maggioranza degli immigrati entrati ultimamente dalla Tunisia non vuole fermarsi in Italia, ma proseguire verso altri Paesi».

Le rivolte in Libia, Egitto e Tunisia provocheranno una valanga di arrivi? C'è chi parla addirittura di 300 mila profughi. Ma è un'esagerazione. Per gli africani che entrano nel sud di questi Paesi per imbarcarsi dalle loro coste, basta ripristinare con i nuovi governi i precedenti accordi di sorveglianza. Cosa che è stata già fatta con la Tunisia, e che potrà avvenire anche in Libia una volta che la situazione si sarà chiarita. Se invece si teme che una parte dei sei milioni di libici fugga da una guerra civile prolungata e sanguinosa, basterà che l'apposita agenzia Onu installi campi profughi alle frontiere con Egitto e Tunisia. Ma tutta la Libia tranne Tripoli ormai sembra libera, e la vita sta tornando alla normalità. Certo, la capitale ha tre milioni di abitanti, cioè metà della popolazione. Ma i giacimenti petroliferi sono soprattutto in Cirenaica, e la produzione (con relativi introiti) potrà continuare a sostenere i ricchi libici. I quali non pagano pochissime tasse, e hanno scuola e assitenza sanitaria gratuita: non sono certo poveracci in fuga.

TERRORISTI

Il figlio di Gheddafi, Saif el Islam, quando le cose iniziavano a mettersi male aveva sventolato la minaccia islamica: «A Bengasi Al Qaida ha già proclamato il califfato». Nulla di vero, anche se qualche sprovveduto - perfino ai piani alti delle diplomazie europee - ha abboccato. Il che non significa che il pericolo del fanatismo non esista. «Ma in Libia ha sempre prevalso la tradizione senussita », assicura il principe Idris al Senussi , nipote dell'ultimo re e pretendente al trono, «cioè una corrente islamica moderata e aperta alla modernità».

Come in tutte le rivoluzioni, non è la prima impressione quella che conta. Il fatto che adesso in Libia - ma anche in Egitto e Tunisia - non si vedano in giro barbette da fanatico e simboli religiosi, non significa che fra qualche mese possa farsi largo e prevalere una fazione estremista. Anche democraticamente: a Gaza le prime elezioni libere del 2006 sono state vinte da Hamas. Negli Anni 80 pure Gheddafi, come i sauditi e gli Stati Uniti, commise l'errore di finanziare e mandare in Afghanistan dei mujaheddin per combattere gli invasori sovietici. Finita la guerra, Osama Bin Laden e i talebani non deposero le armi. Alcuni guerriglieri di origine libica tornarono in patria, ma furono subito incarcerati da Gheddafi. In Libia quindi negli Anni 90 non si ebbe la lotta integralista che insanguinò l'Algeria. Ma ora gli estremisti sono stati scarcerati (apposta?) dal colonnello, e potrebbero ricominciare a fare proseliti.

LO SCENARIO PEGGIORE

Lo scenario peggiore è quello di una resistenza prolungata da parte di Gheddafi a Tripoli, e di una disintegrazione della Libia fra le diverse tribù e fazioni. In mancanza di un forte potere centrale avrebbero la meglio le bande di predoni del deserto nelle zone meno battute, e la Libia si trasformerebbe in una Somalia. Sarebbe il luogo ideale per l'installazione di cellule e basi di Al Qaeda, come avvenne in Afghanistan negli Anni 90.

BENZINA

La Libia produce 1,8 milioni di barili al giorno di petrolio. Sembra tanto, ma è solo il due per cento dell'estrazione mondiale. Quindi gli aumenti di prezzo sia del greggio, sia della benzina alla pompa, sono solo speculazioni, senza rapporto con la realtà. Sulle quotazioni mondiali non possiamo farci nulla, vengono decise nelle borse di Londra e New York. E scontano il clima generale d'incertezza: se le rivolte si propagassero ai Paesi grandi produttori (Arabia, 12 per cento, o Iran, 5), allora potremmo cominciare a preoccuparci. Vero è che un quarto del fabbisogno delle nostre raffinerie proviene dalla Libia. Ma le petroliere possono sostituire i loro punti di rifornimento.

Quanto alla benzina a 1,55 e il gasolio a 1,43, come sempre i petrolieri scaricano immediatamente gli aumenti sul costo finale. Ma il petrolio raffinato per quella benzina l'hanno comprato ai prezzi vecchi. Quindi ne stanno approfittando per ampliare i loro margini. Dovrebbe intervenire il mister Prezzi del ministero Attività produttive. Anche per il gas, niente paura: ci sono varie e valide alternative di approvvigionamento. E poi si va verso la bella stagione, niente più riscaldamento...

COMMESSE

Sono in ballo 12 miliardi di euro all'anno: la somma di import ed export tra Italia e Libia. Siamo il loro principale partner commerciale. Le nostre principali società coinvolte sono Eni, Unicredit, Prismian, Sirti, Ansaldo, Finmeccanica e Impregilo, e hanno tutte perso in Borsa. Il 2 per cento delle azioni Eni sono in mano a Gheddafi. Il quale possiede un'eguale quota in Finmeccanica (produttore di armi), e addirittura il 7 per cento nella Juventus e nella prima banca italiana, Unicredit. L'azienda di costruzioni Impregilo è impegnata in opere colossali, per un un miliardo di euro. Riuscirà a finirle solo se torna la pace.

Mauro Suttora

Thursday, February 17, 2011

Libia, intervista a Idris Al Senussi

"È UN RISCHIO ANCHE PER L'ITALIA"

Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"

di Mauro Suttora

Libero, 17 febbraio 2011

«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».

Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.

«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».

C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?

«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».

Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.

Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.

Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.

Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.

Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».

Mauro Suttora

intervista Cnn 21.2.11