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Wednesday, September 28, 2022

Referendum-farsa? Putin si metta in coda, qui in Italia siamo maestri

Siamo nati sul 99% dei plebisciti risorgimentali dal 1859 al 1870. Perché le consultazioni popolari che ratificano conquiste territoriali già avvenute sono sempre una truffa. E anche in Francia ne sanno qualcosa

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 settembre 2022

Vladimir Putin esulta per il 97% del suo referendum farsa nell’Ucraina occupata? Poteva far meglio: l'Italia nacque sul 99% dei plebisciti risorgimentali dal 1859 al 1870. Perché le consultazioni popolari che ratificano conquiste territoriali già avvenute sono sempre una truffa. E spesso non occorrono neanche minacce plateali, come i mitra spianati da Putin per stanare in casa gli ucraini riluttanti a votare. 

Ne "Il Gattopardo" il sindaco di Donnafugata, interpretato nel film da Paolo Stoppa, annuncia il risultato del plebiscito sull'unione della Sicilia all'Italia nel 1860: "Iscritti 515, votanti 512. Sì 512, No zero". Eppure tal Ciccio Tumeo assicura: "Io avevo votato no. E quei porci in municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro".

Con questi metodi noi italiani abbiamo preso, ma anche perso. Nell’800 si usava così. Nizza, regalata nel 1860 da Cavour a Napoleone III in cambio della Lombardia, nel referendum confermativo diede ai francesi 6.921 Sì, con solo undici No. Ma il vero voto i nizzardi lo espressero coi piedi negli anni seguenti, quando un quarto di loro si trasferì in Italia.

Pochi ricordano che nel 1871, aizzati dal loro concittadino Giuseppe Garibaldi dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, scatenarono i Vespri nizzardi. La neonata Terza Repubblica francese aveva infatti indetto le prime libere elezioni dopo l'impero, stravinte in città col 90% dalle liste filoitaliane contro l'annessione. 

Ma, alla faccia di libertà e democrazia, a Parigi prevalse ancora il nazionalismo: mobilitazione di diecimila soldati, occupazione di Nizza, chiusura del giornale pro-italiano "Il Diritto", incarcerazione dei patrioti italiani. La popolazione reagì, assalì la prefettura e ne ruppe le finestre a sassate gridando "Viva l’Italia, viva Garibaldi!”. Su un cartello fu issata la scritta "Inri: I nizzardi ritorneranno italiani". Ma dopo tre giorni di scontri e molti feriti e arresti, le cariche di cavalleria francesi ebbero la meglio.

Il 13 febbraio 1871 al deputato Garibaldi, che si era fatto eleggere nella nuova Assemblea nazionale francese convocata a Bordeaux, fu addirittura impedito di parlare. E lui si dimise da deputato con queste amare parole: “Ho sempre saputo distinguere la Francia dei preti dalla Francia repubblicana, che sono venuto a difendere a Digione con la devozione di un figlio”. Ma l’unico a difenderlo fu Victor Hugo.

Dopo i Vespri furono allontanati da Nizza gli ultimi irredentisti reduci dal Risorgimento italiano (era nizzardo anche Augusto Anfossi, comandante nelle Cinque giornate di Milano, ucciso sulle barricate). Si rafforzò la francesizzazione nell’ex provincia di Nizza sabauda, furono chiusi tutti i giornali in lingua italiana, si completò la cancellazione degli antichi toponimi locali. Ne fecero le spese perfino i cognomi: tanti Bianchi divennero Leblanc, e i Del Ponte Dupont.

Replay dopo la Seconda guerra mondiale con Briga e Tenda. I tedeschi fuggono dall’alta val Roja il 24 aprile 1945, le due cittadine sopra Ventimiglia vengono liberate dai partigiani italiani. Ma due giorni dopo arrivano a Tenda cento soldati algerini (francesi) che li disarmano, dando loro sei ore di tempo per andarsene.

Si tiene un plebiscito con schede prestampate: appare solo il sì all’annessione. L’unico modo di opporsi è votare scheda bianca, altrimenti si perde il diritto alla preziosa tessera annonaria, indispensabile per mangiare. I risultati sono favorevoli alla Francia: a Briga 976 sì e 39 schede nulle; a Tenda 893 favorevoli e 37 astenuti.

Un mese dopo giungono a Tenda gli americani e ripristinano l’amministrazione italiana, che però viene subito rovesciata dai francesi. La tensione è alle stelle. Ci vuole un accordo apposito a Caserta tra Francia e alleati per risolvere la situazione. Il 10 luglio 1945 il reggimento tiratori algerini deve lasciare l’alta Roja. Il Governo italiano a quel punto commette l’errore di invitare i cittadini contrari alla Francia a lasciare le proprie case. Anche Briga e Tenda, quindi, sperimentano il loro piccolo esodo, come in Istria: sono 42 le famiglie che se ne vanno da Briga (su un migliaio di abitanti), 90 da Tenda (su duemila). Nei mesi successivi altre cento famiglie abbandonano il territorio conteso.

Nell’aprile 1946 una commissione di otto membri (due per ogni Paese vincitore: Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia) descrive una maggioranza pro-francese a Briga, mentre a Tenda prevalgono gli italiani, fra i quali gli immigrati che lavorano nelle centrali idroelettriche. Ma ormai il destino dell’alta Roja è segnato: gli alleati accettano le richieste francesi, in cambio di forniture elettriche all’Italia per quindici anni. La cessione di Briga e Tenda è appoggiata soprattutto dal ministro degli Esteri sovietico Molotov.

Un nuovo referendum il 12 ottobre 1947 dà la quasi unanimità alla cessione: 2603 sì, 137 nulli, 218 no. Un migliaio di italiani sfollati che tornano per votare vengono però bloccati alla galleria di Tenda. Si ripete, insomma, la farsa vista a Nizza quasi un secolo prima: plebisciti pilotati, intimidazioni, propaganda sfrenata. Certo, l’Italia paga l’attacco vigliacco di Benito Mussolini alla Francia del giugno 1940, con l’annessione di Mentone. Ma in fatto di referendum truffaldini Putin non ha inventato nulla.

Thursday, April 29, 2021

'Confini': il senso di una linea quando nessuno rivendica più niente

Esce oggi “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” (Neri Pozza) di Mauro Suttora. Una mappa geografica e mentale che racconta chi siamo

di Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 29 aprile 2021

Perché il confine italo-svizzero sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai le nostre frontiere con Francia e Slovenia sono situate a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest?

In un’epoca di sovranismi, i confini tornano d’attualità. Erano spariti con l’Europa unita e il trattato di Schengen: dopo il Duemila niente più dogane, documenti, file d’auto ai valichi. Ma sono riapparsi con il coronavirus e i controlli sui migranti. Così abbiamo dovuto riscoprire i limiti terrestri della nostra penisola. Che coincidono con le Alpi, ci hanno insegnato. Ma non sempre.

Sono molti infatti gli spartiacque non rispettati: la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio. E in Lombardia una valle (la val di Lei, dietro Madesimo) non appartiene al bacino del Po, ma a quello del Reno.

Anche le frontiere linguistiche, oltre a quelle geografiche, sono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, inglobiamo centomila sloveni fra Cividale e Trieste. E oltre confine 350mila svizzeri ticinesi conservano la madrelingua italiana dopo la separazione del 1515.

Sapevate che l’attuale frontiera di Ventimiglia fu decisa da un prefetto napoleonico nel 1808? O che la sventurata Gorizia, record mondiale, ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947?

Il mio libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza) traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto: il generale francese Charles De Gaulle, per esempio, nel 1945 voleva annettere l’intera Val d’Aosta Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini dei nostri confini: dal Frejus alla Val d’Ossola, dalla Valtellina al Brennero, da Cortina al Carso. Fra storia, geografia, cultura, politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Per questo ho scritto il libro. Perché in realtà non conosciamo affatto i nostri confini. Li attraversiamo senza accorgercene, e sappiamo poco o nulla di loro.

Ho scoperto, per esempio, che antichi e romani e longobardi non tracciavano mai i confini in cima ai valichi, ma molto più a valle. Dove le famose “chiuse” (Bard in Val d’Aosta, Klausen o Sabiona in Alto Adige, Chiusaforte in Friuli) permettevano di controllare il transito con poche decine di soldati. Nel 1800 Napoleone fu bloccato per mezzo mese dagli austropiemontesi a Bard.

Di frontiere oggi si parla soprattutto per i migranti. L’Austria ogni tanto ripristina i controlli al Brennero, la Francia è in allerta continua a Modane e Ventimiglia, Slovenia e Italia hanno istituito pattuglie miste per sorvegliare. Ma per un figlio di profughi come me (mio padre scappò nel 1944 dall’isola di Lussino, oggi in Croazia) i confini rappresentano soprattutto un incubo, fortunatamente sparito col crollo dei due totalitarismi opposti ma specularmente simili: fascismo e comunismo.

Oggi grazie a Dio nessuno sano di mente rivendica più niente. Sono spariti i nazionalisti che per secoli hanno minacciato di invadere territori oltre confine, e lo hanno fatto. Ma fino al 1989 sulla frontiera di Gorizia (fotografata sulla copertina del libro) passava la Cortina di ferro, e per quasi mezzo secolo abbiamo rischiato la guerra atomica in Europa.

È incredibile pensare come la guerra sia diventata inimmaginabile per noi nel giro di pochi decenni. Una rivoluzione culturale unica nella storia dell’umanità. Si va dal Friuli alla Croazia così come dalle Marche all’Abruzzo, sovrappensiero, senza ricordare le centinaia di migliaia di soldati morti inutilmente da quelle parti nel secolo scorso. Ma ancor oggi ucraini e russi si ammazzano per i loro confini. E sono passati solo vent’anni dalla guerra in Kosovo: i nostri soldati sono sempre lì, a guardia di frontiere contestate e famiglie minacciate.

È importante, quindi, conoscere i nostri confini. Attraverso di essi possiamo capire l’Italia, e quindi noi stessi.

Mauro Suttora


Le frontiere son tornate



Riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus

di Mauro Suttora

 HuffPost, 29 aprile 2021

Introduzione del libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora (Neri Pozza) 

I confini sono tornati. Qui in Europa pensavamo di averli aboliti, dopo le due guerre mondiali. “Imagine there’s no countries, immagina che non ci siano più Paesi”: avevamo messo la canzone di John Lennon perfino nelle nostre segreterie telefoniche. Prima, nel 1957, ci affratellò la Comunità europea. Poi, nel 1989, il crollo del Muro di Berlino liberò i Paesi dell’Est. Infine, nel 1997, il trattato di Schengen: quella magica parolina che permette di non accorgersi più delle frontiere. Basta dogane, documenti, file di auto ai valichi. Viaggiavamo in autostrada dopo Bordighera o Vipiteno, e continuavamo a guidare a 130 all’ora. Eravamo già entrati in Francia e Austria, ma ai nostri occhi cambiavano solo i pedaggi e il colore delle strisce sull’asfalto.

Poi è arrivato il coronavirus. E le frontiere sono resuscitate in pochi giorni. In tutto il mondo. Miliardi di persone ‘confinate’ nei propri confini: delle case, dei paesi, delle città. E poi zone rosse, regioni proibite, stati off limits. Un’esperienza incredibile, inedita, improvvisa. Niente più viaggi in aereo, nave, treno, auto. Tutti bloccati come servi della gleba nei feudi medievali. “Nell’intera storia umana non è mai avvenuto nulla di così veloce e globale”, ha avvertito Henry Kissinger dall’alto dei suoi 97 anni, “ne sentiremo gli effetti per generazioni”.

A dire il vero, c’erano state avvisaglie. Prima il movimento no-global: le grandi manifestazioni a Seattle nel 1999 e a Genova nel 2001. Poi anche in Italia, come nell’Inghilterra del Brexit e negli Usa di Trump, a destra sono apparsi i ‘sovranisti’. I loro slogan: “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “No Euro/pa”.

Una volta si chiamavano nazionalisti, e hanno fatto danni per secoli. Consoliamoci: oggi, abbandonata l’insalubre tendenza a voler spostare in avanti i propri confini, i neonazionalisti si limitano a proclamare il recupero di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare. (...)

In ogni caso, riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus: i populisti austriaci ripristinando i controlli al Brennero contro i clandestini, i francesi cacciando i migranti a Modane e Mentone, gli inglesi abbandonando l’Unione europea. Nel 2019 al confine fra Slovenia e Friuli-Venezia Giulia sono apparse squadre miste di poliziotti per pattugliare l’ex cortina di ferro, che da quindici anni non esisteva più.

Ma, al di là delle polemiche politiche, quali sono le frontiere dell’Italia? Davvero le conosciamo? I nostri confini naturali sono le Alpi e il mare, ci hanno insegnato. E invece no. 

Perché, ad esempio, la frontiera con la Svizzera sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai i confini con Francia e Slovenia sono situati a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? Nessuno immagina che il loro tracciato fu deciso da un giovanissimo duca Sforza puzzolente nel 1515 (Chiasso), o da un puntiglioso prefetto napoleonico nel 1808 (Ventimiglia). Né che la sventurata Gorizia ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947: record mondiale.

Insomma, altro che ‘confini naturali’. Sono molti gli spartiacque non rispettati: sapete che la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio? Decine di chilometri quadrati e intere vallate italiane, infatti, non fanno parte del bacino del Po, ma stanno al di là delle Alpi.

Questo per quanto riguarda le frontiere geografiche. Ma anche quelle linguistiche appaiono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, e abbiamo anche centomila sloveni fra Cividale e Trieste. Un po’ si prende, un po’ si dà: oltre frontiera ben 350mila svizzeri del canton Ticino conservano come madrelingua l’italiano, fino al crinale del San Gottardo.

Per tracciare alcune frontiere c’è voluto il sangue di milioni di morti. Non occorre andare tanto indietro nel tempo: basti pensare alle carneficine nei conflitti del ’900. Per altre invece è bastato un semplice litigio sui limoni, come quello che separò Mentone dal principato di Monaco nel 1848.

Duemila anni fa i confini dell’Italia romana correvano su due fiumi: il Varo a occidente, subito dopo Nizza, e l’Arsa a oriente, nell’ascella dell’Istria. Da allora infinite guerre, invasioni, trattati, favori e dispetti hanno separato gli italiani da francesi, svizzeri, austriaci e sloveni. Ma pure italiani da italiani: Ventimiglia era frontiera fra Genova e Piemonte, Chiasso separava lombardi; mentre Tonale, Pontebba o Palmanova delimitavano la Serenissima repubblica di Venezia da zone anch’esse italianofone.

Questo libro cerca di soddisfare molte curiosità. Traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto. Chi ricorda, infatti, che il generale Charles De Gaulle nel 1945 voleva annettere alla Francia l’intera Val d’Aosta e metà Piemonte? Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani, smettendo di combattersi per qualche giorno.

Dopo l’unità d’Italia e il recupero di Trento e Trieste nel 1918, Benito Mussolini rivendicò Nizza e Savoia, Tunisia e canton Ticino, difese l’Alto Adige dalle mire naziste e occupò metà Slovenia e Dalmazia nel 1941. Nel 1942 arrivò fino al Rodano, prendendo per dieci mesi Grenoble e Chambéry, Aix-en-Provence e Tolone, oltre alla Corsica. Poi l’Italia perse tutto, e in più dovette cedere l’Istria, Fiume, Zara e metà Isonzo alla Jugoslavia, e Briga e Tenda alla Francia.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini delle nostre frontiere. Andiamo a scoprirle: dalla val d’Ossola a Cortina d’Ampezzo, dal Monginevro alla Valtellina, dal passo Resia al Carso. Fra storia, geografia, cultura e politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Mauro Suttora 

Wednesday, March 10, 2021

Letta, Renzi e l'arte della scomparsa

di Mauro Suttora

Huffpost,10 marzo 2021

Se dirà sì alla segreteria pd, l’autoesilio di Enrico Letta sarà durato metà della prigionia del conte di Montecristo. Sette anni, dopo quella scena inobliabile del febbraio 2014 quando non guardò in faccia Matteo Renzi mentre gli stringeva la mano consegnandogli il campanellino da premier.

Sette anni lontano dalle beghe politiche nostrane, dimissioni anche dal Parlamento e dal Pd (tessera rinnovata solo due anni fa, dopo l’elezione a segretario di Zingaretti).


Due incarichi prestigiosi a Parigi: direttore della Scuola di Affari internazionali di Sciences Po (la fucina dell’élite francese con l’Ena), e dell’Istituto Jacques Delors. Conferenze in tutto il mondo, da San Diego in California a Sidney. Nessuna consulenza pagata da satrapi mediorientali.


Unica carica conservata in Italia: direttore dell’Arel, il centro studi del maestro Nino Andreatta. Chiuso VeDrò, il suo think tank accusato dal sottosegretario grillino all’Interno Sibilia di essere il “Bilderberg italiano”, occulto potere forte, incubo dei complottisti.


Il ritorno trionfale di Letta dimostra che se in amore vince chi fugge, in politica può risorgere soltanto chi scompare. Ci aveva pensato anche Renzi, quando promise di dimettersi se avesse perso il suo referendum del dicembre 2016. Qualcuno gli consigliò di passare le consegne anche in caso di vittoria, per girar pagina e andare a nuove elezioni.


Invece Renzi è rimasto aggrappato al cortile dei palazzi romani. Ha perpetuato il suo personale think tank della Leopolda. Nel 2017 si sfogò contro il rivale Letta in un’autobiografia: “Non lo pugnalai alle spalle, fu il Pd a cambiare cavallo. Il suo governo era immobile, l’unica cosa che fece fu aumentare l’Iva. Alle primarie Pd Enrico prese solo l’11 per cento”.


“Disgustoso”, replicò durissimo Letta, abbandonando per una volta il suo aplomb. «Il silenzio mantiene meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti, e non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi, sanno giudicare».


E il giudizio dei sondaggi oggi è impietoso per Renzi, confinato al 3%. Grazie alle sue capacità manovriere sopraffine è stato lui a decidere la nascita dei nostri ultimi due governi, il Conte 2 e il Draghi ecumenico. Ma il consenso è volato da un’altra parte, posandosi ora proprio sulla testa del detestato rivale.


Perché l’arte della scomparsa non è da tutti. La praticano solo i veri statisti. Churchill ha avuto tre vite politiche resuscitando due volte, nel 1940 e nel 1951, dopo lunghi isolamenti. La “traversata del deserto” di De Gaulle durò dodici anni, fino al trionfale ritorno nel 1958.


Anche i cavalli di razza italiana sapevano prendersi intervalli. Fanfani, soprannominato ‘Rieccolo’, fu dato per politicamente morto infinite volte, e altrettante tornò a palazzo Chigi: l’ultima a 79 anni, nel 1987. Il suo amico/rivale Moro aveva la cattedra universitaria cui dedicarsi quando non governava.


Il 55enne Letta e il 46enne Renzi hanno ancora una vita politica davanti a loro. Il primo, se accetterà la segreteria pd, è ben posizionato per succedere a Draghi. E il secondo s’inventerà sicuramente qualcosa per soddisfare la sua straboccante personalità.

Mauro Suttora

Sunday, October 25, 2020

La Francia vuole il monte Bianco? De Gaulle rivendicava tutta la val d'Aosta

PARTIGIANI E FASCISTI ALLEATI NEL 1945 CONTRO I FRANCESI

di Mauro Suttora 

HuffPost, 24 ottobre 2020

I francesi vogliono prendersi il monte Bianco? In realtà se ne impossessò già nel 1796 il 26enne Napoleone, dopo aver sconfitto i piemontesi. Impose loro di cedere Nizza e Savoia alla Francia repubblicana, e si tenne la vetta più alta del massiccio. Al regno di Sardegna rimase la cresta minore del monte Bianco di Courmayeur, trecento metri a sudest, più bassa di 45 metri. La restaurazione del 1815 restaurò anche il confine geografico naturale dello spartiacque: il confine interno che separava da sempre i ducati di Savoia e d’Aosta.

La seconda cessione della Savoia alla Francia, questa volta volontaria, è com’è noto quella del 1860. E le cartine parlavano chiaro: la frontiera passava sulla vetta più alta. Ma adesso i francesi, un po’ comicamente, affermano di non essere più in possesso di quella cartografia, che sarebbe stata loro sottratta addirittura dai nazisti durante l’occupazione di Parigi.

Quel che pochi oggi ricordano, è che il generale De Gaulle avrebbe volentieri ingoiato l’intera Val d’Aosta. Con il consenso di molti valdostani, che avevano subìto l’italianizzazione forzata del ventennio fascista: lingua francese proibita, toponimi stravolti, La Thuile che diventa Porta Littoria. Giustamente offeso per la ‘pugnalata alle spalle’ mussoliniana del 10 giugno 1940, con l’attacco alla Francia moribonda, De Gaulle voleva vendicarsi. Così il 25 aprile 1945 ordina ai suoi soldati di “liberare” Aosta. Gli alleati angloamericani danno ai francesi il permesso di sconfinare in Italia per non più di venti chilometri. Invece loro scendono dal Piccolo San Bernardo e dilagano nella val di Rhêmes.

A quel punto, però, l’invasione francese provoca una reazione incredibile: l’unico caso al mondo di alleanza fra partigiani e fascisti. Il comandante della resistenza valdostana Augusto Adam ordina ai suoi di opporsi ai francesi, e contemporaneamente di non sparare più agli alpini di Salò contro i quali fino al giorno prima hanno combattuto fino alla morte, ma che continuano a difendere il confine. Una volta bloccato il nuovo comune nemico, chiede ai repubblichini di ritirarsi “il più lentamente possibile” verso Aosta, per dare tempo agli angloamericani di intervenire posizionandosi a Pré Saint Didier.

Durante il mese e mezzo di occupazione, fino al 10 giugno 1945, i francesi commettono un grave errore. Nelle zone che amministrano si comportano come i fascisti: lingua italiana vietata, angherie, ostacoli al rientro a casa degli ex combattenti. Così gli annessionisti filofrancesi valdostani, pur avendo raccolto ventimila firme per un referendum, perdono forza. E prevalgono i partigiani filoitaliani guidati dall’illustre storico Federico Chabod: la Val d’Aosta rimane italiana in cambio di bilinguismo e forte autonomia, innaffiata da generosi finanziamenti come in Trentino-Alto Adige.

Sulla costa ligure i soldati francesi occupano Ventimiglia, Camporosso e Vallecrosia, arrivando fino a Bordighera. Un plotone di coloniali senegalesi si spinge fino a Imperia per qualche giorno. Ma i francesi si ritirano dopo quasi tre mesi, il 18 luglio 1945, in seguito a un ultimatum del presidente Usa Truman verso il troppo esuberante De Gaulle. Il quale aveva anche vagheggiato di rivendicare in Piemonte metà val Susa, val Chisone e val Varaita, francesi fino al trattato di Utrecht del 1713. Ma alla fine si deve accontentare di Briga, Tenda, e dei passi Monginevro e Moncenisio.

Mauro Suttora 

Wednesday, January 02, 2013

Silvio VI°


La resurrezione di Berlusconi, che si candida per la terza volta

Oggi, 20 dicembre 2012

di Mauro Suttora

Età di alcuni personaggi storici quando "tornarono in campo":

Churchill 76 (come Berlusconi oggi)
De Gaulle 68
Napoleone 46
Mussolini 60
Peron 78
Fanfani 74, 79
Giolitti 77

Aveva gli stessi anni di Silvio Berlusconi oggi (76) Winston Churchill nel 1951, quando tornò premier sei anni dopo la bocciatura da parte degli ingrati inglesi, nonostante avesse vinto la Seconda guerra mondiale. E Juan Domingo Peron era ancora più anziano nel 1973, quando a 78 anni ridiventò presidente del'Argentina.

Non è questione d'età, quindi. La «resurrezione» di Berlusconi, che si candida presidente del Consiglio per la sesta volta un anno dopo l'uscita da palazzo Chigi per opera di Mario Monti e di Giorgio Napolitano, ha parecchi precedenti nella storia.

Data la statura del personaggio, cominciamo con Napoleone. Il quale perse il potere giovanissimo, a 46 anni nel 1814, ma in fretta lo riconquistò dopo pochi mesi d'esilio all'isola d'Elba. Non è comunque un paragone beneaugurante per il nostro Silvio: com'è noto il suo ritorno durò appena cento giorni, prima della definitiva sconfitta a Waterloo nel 1815 e il secondo esilio in un'isola assai più lontana, Sant'Elena.

Più a lungo durò il tragico «secondo tempo» di Benito Mussolini, dopo la defenestrazione del 25 luglio 1943. Nel giro di due mesi il dittatore era già tornato a guidare la repubblica di Salò. Che però, reggendosi solo grazie ai tedeschi, dopo un anno e mezzo crollò.

Sono quelli di due grandi leader democratici, quindi, gli esempi più promettenti per Berlusconi. Churchill durò al potere quattro anni nella sua terza vita politica (dopo la prima come ministro conservatore dal 1908 al ’29 e la seconda come premier anti-Hitler dal ’40 al ’45). Nel 1955 abbandonò per sempre il potere, ma senza essere sconfitto: lasciò spontaneamente Downing Street al suo delfino Anthony Eden, dopo aver vinto anche il Nobel della Letteratura.

L’altro famoso «revenant» del ’900 è stato il generale Charles De Gaulle. Dimessosi sdegnoso da presidente nel 1946, fu richiamato in servizio a furor di popolo nel ’58, all’età di 68 anni. Un anno da premier, e poi ben dieci anni come primo presidente della Quinta Repubblica francese. Neppure il maggio ’68 riuscì a scalzarlo. Se ne andò un anno dopo, ma lasciando anche lui l’Eliseo al fedelissimo Georges Pompidou.

Molto più lungo, e in esilio a Madrid, il «digiuno» patito da Peron dopo la fine della sua prima presidenza (1946-’55): diciotto anni. Tornò a Buenos Aires nel ’73 a fianco della seconda moglie Isabel, che però non riuscì a sostituire la prima moglie Evita nel cuore degli argentini. E dopo otto mesi il vecchio populista morì d’infarto.
    
E in Italia? Berlusconi può rifarsi a due anziani statisti richiamati in servizio per risolvere situazioni turbolente. Il 77enne liberale Giovanni Giolitti nel 1920 formò il suo quinto governo, sei anni dopo il quarto, di fronte alle opposte turbolenze rosse e nere. Ma durò appena un anno, e alla fine i fascisti prevalsero.

Meno drammatici gli ultimi ritorni al governo del democristiano aretino Amintore Fanfani, già premier nel 1954, nel ’58 e poi fino al ’63, prima di diventare il ministro degli esteri di Aldo Moro con il centrosinistra. Nel 1982, a 74 anni, sostituì per pochi mesi Giovanni Spadolini a palazzo Chigi, perché la Dc non voleva andare al voto dell’83 sotto il primo premier laico.
Soprannominato «rieccolo» da Indro Montanelli, Fanfani guidò di nuovo il governo nel 1987 per la sesta volta a ben 79 anni: appena tre mesi, anche qui giusto il tempo di gestire le elezioni dopo la defenestrazione del socialista Bettino Craxi.
Mauro Suttora   
        

Friday, August 05, 2011

E se la Francia invadesse Montecarlo?

DOPO LE NOZZE CON CHARLENE, IL PRINCIPE ALBERTO FURIBONDO CONTRO I MEDIA. MA I PROBLEMI DI MONACO SONO BEN ALTRI...

dal nostro inviato a Montecarlo Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2011

E se la Francia invadesse Monte-Carlo? La telenovela di Alberto e Charlène si sta trasformando in un affare di stato. La bomba l’ha lanciata Christophe Barbier, direttore del rispettato settimanale francese L’Express: «Il principato dovrebbe essere annesso alla Francia, in nome della modernità», ha detto in un dibattito sulla tv France 5 rispondendo alla sobria domanda del conduttore: «C’è del marcio nel regno di Monaco?».

Immediata replica del premier monegasco, Michel Roger: «Siamo uno stato indipendente e sovrano, riconosciuto da lunga data dalla comunità internazionale». Vero e falso allo stesso tempo: la famiglia Grimaldi è infatti la dinastia regnante più antica al mondo (1297). Ma Monaco è stata ammessa all’Onu soltanto nel 1993. Ancor più sdegnato il presidente del parlamento monegasco: «Questo è neocolonialismo francese». Ignorando che L’Express è di proprietà belga, e che quindi non è controllato dal governo di Parigi.

A quasi un mese dal loro matrimonio del 2 luglio, le Loro Altezze Serenissime Alberto e Charlène (questo il loro titolo ufficiale) non sono affatto serene. Tornati alle sei del mattino di mercoledì 20 luglio dal Mozambico, dopo dodici ore hanno convocato quattro giornalisti locali per smentire «tutte le malignità che vengono scritte su di noi».

E cioè che la principessa stava per fuggire prima delle nozze dopo aver scoperto che Alberto deve riconoscere un terzo figlio naturale avuto quando erano già fidanzati, che durante la cerimonia Charlène sembrava triste e fredda, che nella luna di miele (subito soprannominata «di fiele») hanno dormito in stanze separate, addirittura in alberghi lontani 15 chilometri. E che ci sarebbe un contratto prenuziale in cui già si prevede il divorzio dopo che lei avrà scodellato l’erede al trono.

Insomma, il classico matrimonio di convenienza. Ma che una coppia organizzi una conferenza stampa per smentire pettegolezzi, non era mai successo nella storia della vipperia mondiale. Diana avrebbe dovuto farne una al giorno, allora.

Siamo andati a indagare a Monte-Carlo. E abbiamo trovato tutte le edicole della città tappezzate con il titolone del quotidiano locale Monaco-Matin: «Alberto non ne può più». Mai giornale fu più perfido. Uno pensa subito: «Allora è vero: non ne può più di Charlène». No, è stufo dei «rumeurs», delle voci.

Però alla fine dell’articolo c’è una descrizione velenosa. Alberto rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda. Poi posa la mano sulla coscia della sposa e le chiede in inglese se vuole aggiungere qualcosa. «No», risponde lei, con «postura distante». «Un atteggiamento che non può essere interpretato, che non lascia supporre nulla», commenta la giornalista. E questo è il massimo che si può scrivere o dire, nel principato. Per lo meno con nome e cognome.

Perché va bene che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, ma da queste parti è tutto un pissi-pissi. In privato. In pubblico, nessuno osa dir nulla sulla famiglia regnante.

«Colpa di voi giornalisti», commenta un’elegante signora seduta al Beach Club, «inventate tutto, lo si è visto con il caso Murdoch». Ma possibile che i giornali dell’intero pianeta abbiano notato qualcosa di strano nelle nozze principesche? I nostri vicini di tavolo al ristorante Rampoldi sparano, sicuri ma anonimi: «Alberto è gay, fidanzate figli e moglie sono una copertura». Al Casinò un monegasco critica Charlène: «In cinque anni non ha imparato il francese, peggio di Schumacher con l’italiano…»

Andiamo al meeting di atletica allo stadio, dove ogni anno si gioca la supercoppa europea. La gloriosa squadra del Monaco (sette scudetti nel campionato francese, seconda in Europa nel 2004 dietro al Porto di Josè Mourinho) è stata appena retrocessa in B dopo 34 anni. È questo il vero lutto per i locali, non i pettegolezzi contro i reali. La tribuna stampa è vicina a quella d’onore, scrutiamo Alberto e Charlène. Sembrano sereni, scendono in pista a premiare i campioni Usain Bolt e Blanka Vlasic. È questo il lavoro dei principi: dare medaglie, presenziare.

Charlène va a visitare la mostra sulle proprie nozze, aperta dal 9 luglio al Museo oceanografico (che c’entrano i reali con i pesci? Il comandante Jacques-Yves Cousteau si rivolta nella tomba). «Trentamila visitatori in dieci giorni!», si entusiasma il settimanale Monaco Hebdo. Ma le carovane di turisti sbarcati da navi di crociera e torpedoni pagano comunque 14 euro per entrare nel Museo e visitare soprattutto gli acquari. Qualunque sia la mostra temporanea in corso.

Siamo nel pieno della stagione turistica, sette milioni di turisti affollano ogni anno il principato. Che con appena due km quadrati è lo stato più piccolo al mondo dopo il Vaticano, il più affollato e il più ricco: 130 mila euro di reddito medio per i suoi 35 mila residenti. Gli stranieri sono 25 mila, gli italiani 6 mila. Non pagano tasse: basta avere o affittare una (costosissima) casa, starci almeno sei mesi l’anno, versare mezzo milione di euro in una banca monegasca e incassare redditi non guadagnati in Italia. L’esenzione non vale per i 9 mila francesi, cui nel ’63 il generale Charles De Gaulle tolse il paradiso fiscale minacciando, lui sì, l’invasione. La tranquillità dei miliardari è protetta da 500 agenti e 116 carabinieri, la più alta densità di polizia sulla Terra.

«La crisi però colpisce anche qui», ci dice Milena Radoman, caporedattrice di Monaco Hebdo, «il Pil è calato del dieci per cento e quindi ogni ministero ora deve tagliare la stessa percentuale». Male va la Societé Bains de Mer, di proprietà statale (quindi della famiglia reale) anche se quotata a Parigi, che controlla quasi tutto a Monaco: i quattro hotel più lussuosi, cinque casinò, 34 ristoranti, 12 discoteche (Jimmy’z, Buddha Bar, Rascasse), l’Opera, i Beach, Golf, Sporting e Country Club, e centinaia di appartamenti: l’ultimo anno i profitti sono crollati da 40 milioni a uno. Il casinò è a meno 18 per cento, e la colpa non è solo del divieto di fumo.

Il regno da operetta non è più l’enclave raffinata di 50, 100 o 150 anni fa (la fortuna cominciò con l’arrivo contemporaneo nel 1860 di casinò e treno). Troppi nobili e grandi industriali sono stati sostituiti da nuovi ricchi cafoni russi e greci, arabi e anche italiani.

Sulla terrazza dell’Oceanografico una mappa mostra le distanze con tutte le città del mondo. Manca solo Johannesburg, da dove viene Charlène. Ed è forse la distanza maggiore…

Mauro Suttora