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Wednesday, October 26, 2011

Chi sono i black bloc

ORGANIZZAZIONE PARAMILITARE

I GIOVANI TEPPISTI AGISCONO IN GRUPPI DA 15, E SONO RAPIDISSIMI: CHI PROCURA LE ARMI, CHI TIRA PIETRE, CHI LANCIA LE BOMBE CARTA. A ROMA ERANO 800, DIVISI IN DUE «FALANGI». VANNO IN GRECIA A SCUOLA DI GUERRA E IN VAL SUSA PER ALLENARSI

di Mauro Suttora

Oggi, 26 ottobre 2011

Sono 800, e si considerano soldati in «guerra»: «Non l' abbiamo dichiarata noi. È il capitalismo che ammazza gli operai sfruttati dalla globalizzazione, da Barletta al Terzo mondo». Molti sono giovanissimi: sette dei 21 arrestati e fermati dopo i disordini non hanno 18 anni. Ne avevano solo sette ai tempi del G8 di Genova. Ma questa volta non ci sono la morte del «martire» Carlo Giuliani e le violenze dei poliziotti alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto a distrarre l'attenzione dai loro misfatti.

Molte donne. Come Federica, 31 anni, che sulla 600 trasportava col compagno e due amiche un piccolo arsenale nascosto in cinque zaini: dieci maschere antigas, 500 biglie e una fionda professionale per tirarle, quattro «mefisti» (enormi petardi), quattro parastinchi, un piede di porco e quattro bottiglie con liquido. Bloccata dai Carabinieri a Pomezia.

Molti laureati o studenti universitari. Come Valerio, 21 anni, di Lecce, terzo anno di Legge a Bologna, preso col casco in testa. Già denunciato due volte, per lancio di fumogeni a un corteo e tifo violento. Frequenta il centro sociale leccese Caos (Collettivo autonomo organizzato studentesco). Ed è negli ambienti dei centri sociali più duri che lunedì all' alba si è scatenata la caccia ai black bloc in molte città d' Italia. Perquisite dozzine di case di reduci da Roma. Quelli del centro Askatasuna (Torino), Bottiglieria (Milano, sgomberato un anno fa), Gramigna (Padova), Vittorio Arrigoni (Palermo), Fuori luogo, Cua e Crash (Bologna), Guernica (Modena). Risultati scarsi: nessun arrestato, solo qualche denuncia per armi improprie. Ma sarà dura ottenere condanne, visto che avere passamontagna, abiti scuri, ginocchiere (la divisa dei guerriglieri) o anche martelli non è reato.

Più promettente la «pista video»: in questi giorni c'è uno scambio frenetico di filmati girati a Roma fra le questure di tutta Italia. Nonostante le mascherature, qualche viso è riconoscibile. Ma ci vorrà tempo. E indagini accuratissime. Perché una cosa è certa: i black bloc sono furbi e organizzatissimi. Altro che «rivolta spontanea». I loro attacchi a Roma hanno obbedito a una regia definita nei minimi dettagli. Negli ultimi mesi sono andati a lezione di guerriglia urbana in Grecia. In piccoli gruppi e attenti a non lasciar tracce, hanno preso anonimi «passaggi ponte» e non biglietti nominativi sui traghetti da Brindisi. Hanno fatto le prove generali in Val Susa, agli attacchi contro la Tav.

A Roma si sono divisi in due falangi. I primi 500 si sono armati a inizio corteo e hanno cominciato a devastare via Cavour. Gli altri 300 li proteggevano alle spalle per non farli isolare dal corteo. Non erano vestiti di nero, anche per non far scoprire alla polizia i loro veri numeri. Poi, dopo la svolta in via Labicana, anche la seconda falange si è messa al «lavoro», bruciando auto, sfasciando vetrine e attaccando i blindati dei Carabinieri. I quali avevano l'ordine preciso di non attaccare per non rischiare di nuovo il morto, come nel 2001.

Ma la vera arma segreta dei terroristi urbani è l'elasticità. Sono divisi in plotoncini da 15, e all'interno di ogni plotone ci sono tre specializzazioni. In cinque recuperano in strada sassi (sampietrini), bastoni, spranghe fioriere. Oppure li pigliano da borse e sacchetti nascosti lungo il percorso in androni e cassonetti poche ore prima. Non li portano addosso, per non rischiare la fine di Federica. Altri cinque sono i «tiratori». E gli ultimi cinque sono gli «artiglieri»: gli specialisti in petardi e bombe carta.

Tutti i gruppi sono rapidi e mobilissimi. Impossibile, per le forze dell' ordine, individuarli e bloccarli in tempo. Soprattutto con i blindati, troppo lenti. Sabato però, per la prima volta, i principali avversari dei teppisti non sono stati i poliziotti. Ma gli altri manifestanti, gli «indignati» pacifici, con cui sono venuti anche alle mani.

Mauro Suttora

Monday, August 20, 2001

Autocritica dopo il G8 di Genova

I NOGLOBAL NONVIOLENTI: BASTA CORTEI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 20 agosto 2001

I nopglobal perdono i pezzi. Poco a poco ma inesorabilmente, in questi giorni stanno piovendo sui dirigenti del Gsf (Genoa Social Forum) le «disdette» da parte della «maggioranza silenziosa» del movimento. Quelle decine di migliaia di persone, cioè, che avevano accettato di sfilare a Genova anche dopo la morte di Carlo Giuliani e gli incidenti del 20 luglio, nonostante l’evidente e per molti irritante egemonia da parte di Rifondazione comunista (Vittorio Agnoletto) e delle Tute bianche di Luca Casarini.

In un primo momento, sull’onda dell’emozione per il blitz nelle scuole di via Diaz e contro le brutalità nella caserma di Bolzaneto, si era verificato un ricompattamento fra gli «estremisti» dei Centri sociali e Cobas e i «moderati» dell’area ecologista e cristiana. Tutti avevano salomonicamente condannato sia le violenze dei «Black bloc», sia quelle delle forze dell’ordine. 

Era stata accettata la pietosa bugia secondo la quale a lanciare molotov e a spaccare vetrine sarebbero stati soltanto i teppisti delle Tute nere, fingendo di non vedere che il povero Giuliani portava al braccio lo scotch per confezionare bottiglie incendiarie, e che come lui centinaia di ragazzi provenienti dal corteo delle Tute bianche si erano abbandonati al lancio di sassi. 

Aderenti al centro sociale torinese Askatasuna, pur avendo firmato l’impegno alla nonviolenza del Gsf, distribuivano addirittura bastoni da un camion.

Ora, però, bisogna organizzare il futuro di quello che Fausto Bertinotti ha pomposamente battezzato «movimento dei movimenti». Ma le associazioni cattoambientaliste non hanno più voglia di mescolarsi ai violenti, facendosi trascinare in ulteriori scontri di piazza. Svanisce quindi la speranza, da parte dei Centri sociali, di replicare Genova a Napoli il 26 settembre contro il vertice Nato, e il 10 novembre contro il vertice Fao. 

Se ci saranno cortei, vi parteciperanno soltanto le poche decine di migliaia dei soliti antiglobal di sinistra (rifondaroli, Tute bianche, e gli ancora più arrabbiati antimperialisti Cobas e del Network) che dal 1999 danno e pigliano botte in giro per il mondo, da Praga a Göteborg. Insomma, l’eventuale manifestazione di Napoli rischia di essere il replay minoritario dei 25mila menati dalla celere in aprile (sempre nella città partenopea, ma dal governo Amato di sinistra), piuttosto che dei 250mila di Genova.

Il primo a prendere le distanze è stato il presidente delle Acli Luigi Bobba: “E' stata una scelta radicalmente sbagliata volere lo sconfinamento nella "zona rossa"”. Le Acli sono un gigante con 800mila soci, e pur essendo un serbatoio di «compagnons de route» del Pci/Ds (il dirigente aclista Franco Passuello è stato addirittura segretario organizzativo pidiessino sotto Walter Veltroni) non sono disponibili a ridursi a «utili idioti» di Agnoletto.

Poi sono arrivate le critiche della rete Lilliput, che sotto il nome liliale nasconde una realtà poderosa: dal Wwf a Pax Christi, dai verdi agli scout, dai missionari di Mani tese ai pacifisti, dalla Campagna Sdebitarsi fino alle centinaia di negozi della catena del «commercio equo e solidale». Sono loro la vera spina dorsale dei noglobal, grazie alla loro attività quotidiana che, per dirla con Michele Serra, privilegia “gli scontrini agli scontri”.

Lilliput non solo si tira fuori, ma decreta il de profundis per Agnoletto & compagnia: “Il Gsf ha completato il suo mandato politico, e quindi il suo compito: la sua esistenza era e rimane finalizzata all’appuntamento dei G8, non oltre. Ci sembra negativa e impraticabile una prospettiva futura centrata sull’espressione di sé stessi solo attraverso l’organizzazione di “controvertici”. Inoltre, ad ogni eventuale futura mobilitazione dovrà accompagnarsi una più approfondita discussione rispetto alle forme che essa dovrà prendere. Questo costituirà una discriminante per ogni nostra futura partecipazione».

Abortisce così il tentativo in corso, da parte di Rifondazione e Centri sociali, di prolungare e moltiplicare il Genoa Social Forum in tanti Social Forum locali incaricati di far alzare la temperatura dell’autunno caldo. La rete Lillliput preferisce invece alla piazza il lavoro day by day, tutto riformista e lontano da proclami rivoluzionari: «L’obiettivo “un altro mondo è possibile” comporta non solo contestazione, ma anche capacità di proporre alternative e di ottenere risultati concreti».

Spiega Pasquale Pugliese, dirigente Lilliput: «Le "dichiarazioni di guerra" dei portavoce delle tute bianche che sono farneticanti. All'ultimo minuto si sono dichiarati pacifisti, ma qualcuno a vent’anni li ha presi sul serio: attenzione, si porta la responsabilità delle conseguenze delle proprie parole. C’è stata poi l'illusione, da parte del Gsf, di poter tenere insieme, ma separate e distinte in poco spazio, tutte le forme di protesta, dalla preghiera all'assalto alla zona rossa, dalle azioni dirette nonviolente ai vandalismi annunciati. Ma questo ha favorito l'emergere e l'imporsi, da tutte e due le parti della barricata, di coloro che sguazzano nel torbido e danno sfogo, in queste occasioni dove si possono confondere nella massa, alla violenza più brutale di cui sono capaci. E nessuna azione sembra essere stata prevista per neutralizzarli».

E per settembre? «Dobbiamo abbandonare la rincorsa ai vertici del potere e uscire dalla logica della uguaglianza nella diversità, e della contemporaneità, delle forme di lotta, adottata a Genova: le forme che non sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione e nell'immagine, fanno il gioco del potere. Non bisogna manifestare dove manifestano compagni di strada che non condividono le nostre forme di lotta».
Puntualizza Nanni Salio, docente universitario torinese, una delle menti più fini degli antiglobal lillipuziani: «Non si scherza e non si gioca con la violenza, neppure in forma verbale o "virtuale" come sarebbe, secondo Luigi Manconi, quella delle Tute bianche. "Le parole sono pietre", sosteneva Carlo Levi. La posta in gioco è troppo alta per illudersi che sia possibile affrontare la globalizzazione con vecchie formule politiche e di lotta. Occorre cambiare rotta, modificare il nostro stile di vita sia individuale sia collettivo per renderlo autenticamente equo e sostenibile. L'american way of life e il modello di economia ad essa sotteso sono largamente condivisi da ampi settori dell'opinione pubblica nei paesi ricchi, dalle élites in quelli poveri e, contraddittoriamente, perfino dallo stile di vita reale di molti degli stessi oppositori».

Cambiare se stessi, quindi. Ma la politica? «La rabbia, contrariamente a quanto sostengono alcuni agitatori politici, è segno di debolezza, impotenza, ribellismo sterile, e conduce facilmente all'insuccesso. Gli scontri avvenuti a Genova erano abbastanza prevedibili, alimentati da media che hanno irresponsabilmente enfatizzato proclami violenti, portando alla ribalta personaggi che ben poco avevano da dire. Con queste premesse, la scelta di indire una grande manifestazione, condotta secondo schemi tradizionali, è stata alquanto infelice».

«Vorrei piuttosto ricordare», continua il professor Salio, «l'episodio, segnalato solo da alcuni giornali, del poliziotto che ha ringraziato pubblicamente quel gruppo di una quindicina di giovani che lo hanno difeso da un assalto delle Tute nere, inginocchiandosi e coprendolo con i loro corpi. E' un esempio di nonviolenza attiva, del forte, del coraggioso, che avrebbe dovuto essere praticata da migliaia di persone per impedire le scorribande dei provocatori. La violenza, infatti, innesca una spirale perversa. L'abbiamo visto troppe volte, in ogni latitudine e nelle situazioni piu' disparate. La via maestra per spezzare questo circolo vizioso e' la nonviolenza attiva. In questi giorni abbiamo sentito troppe volte usare a sproposito la parola “nonviolenza” che, come tante altre, rischia di subire un degrado. Non bastano i proclami generici e gli slogan. Come ci insegna Aldo Capitini, siamo consapevoli del lungo cammino da compiere sul piano individuale e su quello politico. Ma non partiamo da zero».

Aggiunge Enrico Euli, il “trainer” sardo che ha organizzato le proteste di Lilliput a Genova: «Ho assistito con speranza allo sviluppo di tattiche creative e meno violente rispetto alle origini, da parte dei Centri sociali di cui Luca Casarini appare come portavoce. Sono fiducioso sul fatto che la riflessione tra le Tute bianche ci sarà e che la scelta fatta nel recente passato non sarà rinnegata, ma sono preoccupato da alcuni atteggiamenti che proseguono sui media in questi giorni. Temo una loro regressione verso il circuito perverso che mostrifica, crea capri espiatori, utilizza la violenza degli altri per giustificare la propria. Sarebbe un passaggio involutivo gravissimo che provocherebbe la crisi prematura e forse letale del movimento. E poi, non si possono mitizzare i caduti solo perché sono stati uccisi dal nostro avversario: se ci dissociamo dalle loro azioni in vita, dobbiamo farlo anche in morte. Il che non significa che non piangiamo e che non ci arrabbiamo per la vita spezzata di Carlo Giuliani».

L’ultimo colpo alle Tute bianche arriva da Gino Barsela, direttore del mensile Nigrizia (quello del missionario Alex Zanotelli), che nel numero di settembre scrive: «Il movimento antiglobal è composto da tante "anime" che sanno dialogare con la società quando si tratta di battersi giorno dopo giorno, su obiettivi specifici: una denuncia, un boicottaggio, una campagna di pressione. Questa eterogeneità – che è una ricchezza e un punto di forza - genera però debolezza nelle strategie e cortocircuiti di significato quando si sceglie la manifestazione di massa in piazza, dove l'espressione del dissenso si carica di valenze simboliche e politiche più difficili da orientare. A Genova ciascun'anima ha immaginato la manifestazione a modo suo, ma alla fine si sono imposti i comportamenti di una minoranza senza immaginazione. Il movimento, prima di confrontarsi di nuovo con la piazza, dovrà fare un bel po' di strada, maturare, acquisire maggiore coesione. Non potremo mai più stare nelle stesse piazze dove si esprime l'idiozia teppistica dei Black bloc. Né potremo più permetterci di essere tacciati di connivenza con i violenti. Di sicuro alcuni degli associati al Genoa Social Forum non hanno riflettuto abbastanza sulla disobbedienza civile nonviolenta».
Mauro Suttora

Tuesday, August 07, 2001

Due settimane dopo il G8 di Genova

NOGLOBAL: PARLANO I DURI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 7 agosto 2001

Milano. «Assassini! Le vostre pallottole non fermeranno le nostre ragioni! Pagherete caro, pagherete tutto!» Questi gli slogan nel Centro sociale Vittoria (un capannone all’angolo delle vie Friuli e Muratori), dove l’altra sera i noglobal milanesi hanno fatto il punto della situazione. 

Quelli del Vittoria appartengono all’ala «dura»: considerano venduto perfino Luca Casarini con le sue Tute bianche. E non sono pochi: i centri sociali che rifiutano «la subordinazione al riformismo istituzionale» vanno dal milanese di via dei Transiti ai torinesi Askatasuna e Murazzi, dal collettivo autonoMolotov di Pistoia agli «antagonisti» di via dei Volsci a Roma, dall’ex Carcere di Palermo al Kollettivo autonomo La rivolta di Frosinone.

Un centinaio di «realtà» che, assieme ai Cobas, pur aderendo al Genoa Social Forum hanno tenuto a differenziarsi, fondando il «Network per i diritti globali». A Genova hanno manifestato separatamente dagli altri, e nella loro zona sono scoppiati i primi incidenti. 

Proprio sugli incidenti, il bilancio che fanno quelli del Vittoria è agghiacciante: «Carlo Giuliani non è morto per colpa di un carabiniere inesperto, ma perché il governo Berlusconi e i media hanno cercato e determinato le condizioni per arrivare al morto... Hanno alimentato le fiamme già accese della tensione e dell’aggressione... Compagni, la campagna di provocazione orchestrata per due mesi nei confronti del movimento è stata criminale».
 
Le analisi sembrano «wishful thinkings», profezie allo stesso tempo roboanti e vittimiste che si autoavverano. Tutte le lotte si saldano l’una all’altra, e più il quadro è fosco meglio è: «Eravamo in 300mila per dire no alla violenza della globalizzazione, del capitalismo, dell’imperialismo e dello Stato». 

I quali sono per loro natura «assassini», ben prima di Genova: «I potenti non avevano messo in conto, dopo il crollo del Muro, un’opposizione alle loro politiche assassine. Per questo è scattata la repressione più violenta, una deliberata aggressione fisica nei nostri confronti. Non è stata un’operazione improvvisata, ma preparata a tavolino, e non ha nulla da invidiare a quelle studiate sui libri della Germania nazista. Il morto non è stato causato per incidente, anzi, solo per fortuna e per caso non ce ne sono stati molti di più sulle strade e nelle caserme di Genova».

Nessuna autocritica da parte degli antiglobal? Come no, e pure «forte e dura, compagni: per i diffusi atteggiamenti di continuo appiattimento a destra come risposta agli attacchi delle istituzioni. E’ mancato un confronto sui contenuti, perché è stata privilegiata una continua e assillante riflessione solo sulle forme che la piazza avrebbe assunto, e su quello che in piazza non avrebbe dovuto accadere».

La violenza si trasforma nelle loro parole in innocua «autodifesa», e nel mirino finisce Vittorio Agno letto: «Si sono verificate inaccettabili dissociazioni e prese di distanza su scelte di autodifesa del corteo, in una catena di scaricabarile e di chiusura a sinistra: una politica che ha fatto solo il gioco di chi voleva disarmare e distruggere politicamente il movimento».

E i black block? «A dar retta ai media e alle esternazioni di qualche pacifista pacificato, pare che tutta la colpa degli scontri sia loro. Ma è una tesi risibile: lo dimostrano ampiamente i fatti, e il fallimento di ogni tipo di concertazione sulla gestione della piazza, da qualcuno caldamente auspicata...»

Nessuna critica alle Tute nere, quindi. Quelli del Network se la prendono invece con la sinistra istituzionale: «Assistiamo ai suoi goffi tentativi di cavalcare un movimento che ha chiaramente espresso radicalità e rottura non solo contro questo governo da paese sudamericano, ma contro un liberismo selvaggio e brutale che fino a ieri veniva avallato dal centro-sinistra, introducendo flessibilità e precarizzazione nel lavoro, costruendo campi-lager per i migranti, fino alla criminale guerra dell’imperialismo occidentale nel Kosovo».
 
Nessuna buona notizia per le prossime settimane: «Genova è stata una prova di forza, un avvertimento. Ma la partita centrale si giocherà a partire da settembre, quando si riapriranno le lotte per i contratti nelle fabbriche, per il diritto all’istruzione nelle scuole, contro l’attacco alle pensioni e le leggi repressive sull’immigrapressive sull’immigraantativo di chi si erge a custode del variegato movimento antiglobalizione... Rinasce il conflitto di classe, rifiutiamo il tentativo di chi si erge a custode del variegato movimento antiglobalizzazione». 

Altro che Fao, quindi: primo appuntamento di massa già il 21 e 22 settembre, per ricordare i due mesi dalla morte di Giuliani, che ovviamente «vive e lotta insieme a noi».

Nella sala del centro sociale Vittoria, strapieno di ragazzi e ragazzine giovanissimi, non borchiati e con pochi piercing, apparentemente figli più della borghesia che del proletariato, scrosciano gli applausi.

Vengono proiettati i video su Genova di Blob e Raitre: emozione quando si vede colare il sangue di Giuliani, risate quando Giovanna Botteri del Tg3 grida «Baciami il culo» a un dimostrante che la ostacolava. Walter Veltroni, così desideroso di accogliere gli antiglobal nella sua Roma a novembre, si prepari all’«accoglienza».
Mauro Suttora

Friday, July 27, 2001

G8 di Genova: parla Vittorio Agnoletto

IL CAPO DEI NOGLOBAL SPIEGA COS'E' SUCCESSO NEGLI SCONTRI CHE HANNO PROVOCATO LA MORTE DI CARLO GIULIANI

di Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2001
                      
Vittorio Agnoletto è tornato a casa. Il capo dei contestatori di Genova ha lasciato il capoluogo ligure dopo il funerale di Carlo Giuliani, il 23enne morto durante gli scontri, ed è approdato a Cesano Maderno (Milano), nella sua Lombardia, per tenere un comizio alla festa di Rifondazione comunista della Brianza. Qui lo incontriamo.

Agnoletto, 43 anni, è diventato famoso nell’ultimo mese come portavoce del Genoa Social Forum (Gsf), la coalizione che ha organizzato le proteste contro il vertice dei G8, gli otto Grandi che governano gli Stati più industrializzati della Terra.

Adesso è nell’occhio del ciclone: accusato dalla destra di avere tollerato, se non addirittura fomentato, gli incidenti, e invece osannato a sinistra come l’artefice di un corteo che ha fatto scendere in piazza ben 250mila persone contro il governo di Silvio Berlusconi.

«Ma io sono diventato portavoce del Gsf quasi per caso», si schermisce lui, «soltanto perché a un certo punto dovevamo nominare una delegazione che incontrasse il ministro degli Interni e il capo della Polizia. Al Gsf aderiscono un migliaio di associazioni, di cui 400 straniere: erano stati fatti una decina di nomi, dovevamo ridurli, alla fine uno si alza proponendo il mio nome. E tutti si sono trovati d’accordo».

Non è un mistero che gli «antiglobalizzatori» siano diversissimi fra loro: si va dai comunisti ai cattolici, dalle Tute bianche dei centri sociali ai ragazzi degli oratori, dall’Arci a Pax Christi. 
«Sì, ma contrariamente a quello che succede quasi sempre in Italia, e cioè che basta essere in quattro per non trovarsi più d’accordo e cominciare a litigare, fin dall’inizio nel Social Forum si è creata un’atmosfera di collaborazione, in cui nessuno ha mai preteso di fare il primo della classe».

Anche dopo la battaglia di Genova? 
«Sì. Anche in questi ultimi giorni nessuna delle organizzazioni si è dissociata. Anzi, proprio oggi Pax Christi ha riconfermato la sua adesione. D’altra parte, fra noi c’è sempre stata molta chiarezza sul rifiuto della violenza».

E allora perché sono state spaccate vetrine, lanciate bottiglie molotov, bruciate auto, attaccati poliziotti? 
«Questo lo ha fatto chi non aderiva al Gsf. Come le cosiddette Tute nere del Black block. Noi abbiamo sempre detto che avremmo praticato la disubbidienza civile a mani nude, e così abbiamo fatto. Quei gruppi, invece, hanno attaccato sia noi che la polizia. I Cobas, per esempio, che si dovevano trovare in piazza Da Novi, quando sono arrivati lì hanno trovato le Tute nere. Allora, proprio per non mischiarsi, se ne sono andati verso piazza Tommaseo. Ma appena si sono mossi la polizia li ha caricati. Loro, non le Tute nere».

Però durante il blitz notturno nel vostro quartier generale sono state trovate bottiglie incendiarie, roncole, coltelli e armi improprie. 
«Su questo voglio fare chiarezza. Ci avevano dato due scuole, una di fronte all’altra. In una c’eravamo noi del Gsf, con l’ufficio stampa, l’ufficio legale, l’assistenza medica. L’altra era per le Ong, le Organizzazioni non governative aderenti al Gsf. Poi però, nei giorni precedenti al vertice, ha piovuto, cosicché abbiamo trasformato la seconda scuola in dormitorio per i manifestanti senza tenda che erano scappati dagli stadi».

Quindi lei non smentisce la polizia, sull’effettiva presenza di violenti nella scuola. 
«Non potevamo chiedere la carta d’identità a tutti quelli che entravano. Ma l’ultima notte sono stati i poliziotti a comportarsi in modo indegno, massacrando ragazzi che dormivano in sacco a pelo. Ai parlamentari che chiedevano di assistere alle perquisizioni mostrando i tesserini, è stato risposto “ficcateveli in quel posto”. Scene di tipo cileno».

Però alcune strade di Genova erano state devastate dalla guerriglia urbana. 
«Perché le forze dell’ordine non hanno bloccato i violenti? Abbiamo filmati in cui si vedono addirittura alcune Tute nere fermarsi tranquillamente a parlare con dei poliziotti. Avevamo noi stessi segnalato alla Questura l’arrivo di frange estremiste da Bologna, e ci avevano detto che era tutto sotto controllo».

Ma i vostri slogan non erano esattamente nonviolenti: anche voi gridavate “Poliziotti assassini!”. 
«Questo è successo dopo l’assassinio di Carlo Giuliani. Ma le nostre parole d’ordine erano ben altre».

E quali erano? 
«Il radicale dissenso contro le politiche internazionali dei Paesi più ricchi. Il G8, forte solo della propria potenza e arroganza, è il simbolo di un sistema di governo non democratico che privatizza gli utili, socializza le perdite e globalizza le ingiustizie».

Slogan a parte, in concreto cosa volete? 
«Per esempio, che il neoliberismo non costringa miliardi di persone a vivere con un dollaro al giorno. Che i farmaci per curare l’Aids siano venduti a prezzi accessibili anche nel Terzo mondo, e non sottoposti all’esosità di multinazionali che ne detengono i brevetti per vent’anni. O che gli Stati Uniti, produttori da soli del venti per cento dell’inquinamento mondiale, accettino gli accordi di Kyoto...»

Agnoletto è un fiume in piena. D’altra parte, è uno abituato a far politica da trent’anni, cioè da quando entrò al liceo Berchet di Milano, lo stesso dove studiava Gad Lerner. 
«Ma allora lui era un estremista di Lotta Continua, mentre io ero considerato un moderato perché stavo nel Pdup, il Partito di unità proletaria di Vittorio Foa».

Un’altra differenza con Lerner è che il futuro direttore del TgUno (oggi a La Sette, dove ha invitato Agnoletto a molti dibattiti) non studiava granché, mentre il futuro capo dei noglobal pigliava tutti otto e nove.

Secchione, Agnoletto proviene dalla solida borghesia milanese. Famiglia di medici e avvocati, fra i quali il padre del codice di procedura penale Giandomenico Pisapia, il cui figlio Giuliano (deputato di Rifondazione comunista) è suo cugino. Anche Agnoletto alle ultime elezioni era candidato nel partito di Fausto Bertinotti, ma non è stato eletto.

E adesso, anche se parla proprio da un palco di Rifondazione nella sua prima uscita pubblica dopo Genova, ci tiene a prendere un po’ le distanze: «Stasera sono qui, ma domani andrò a Loreto per un’assemblea di cattolici, e dopodomani sarò a Roma a incontrare i parlamentari Ds e i giornalisti della stampa estera».

Anche Agnoletto, peraltro, è religioso. Per anni è stato boy-scout, facendo pure una discreta carriera. Contemporaneamente stava in Democrazia proletaria, dove nel 1977 era già il responsabile dei giovani. E proprio il ‘77 è stato l’anno in cui ci furono in Italia le ultime morti in scontri con la polizia: lo studente Lorusso a Bologna, Giorgiana Masi a Roma. 
Quasi un quarto di secolo dopo, in una piazza d’Italia è tornato il sangue.

Agnoletto sente il peso di questa responsabilità, e non si limita a dare tutte le colpe alla polizia: «Di fronte al problema della violenza dobbiamo riflettere anche all’interno del nostro movimento. Cosa dovremo fare nei prossimi cortei, organizzare un nostro servizio d’ordine? Certo, l’autotutela contro i violenti ci vuole, ma così rischiamo di ripercorrere strade pericolose».

Sì, perché Agnoletto sa bene che nei «servizi d’ordine» di alcuni gruppi extraparlamentari le Brigate Rosse arruolarono terroristi a piene mani. 
Lui invece, anche fisicamente e con quella sua vocina, è l’esatto contrario di un certo «machismo da corteo» che si è esercitato a Genova, per esempio nella falange paramilitare delle Tute bianche con tanto di divise, elmi, scudi e maschere antigas.

Agnoletto invece, laureatosi medico, dopo il servizio civile con i tossicodipendenti nel 1987 ha fondato la Lila (Lega italiana lotta all’Aids), diventando anche consulente del governo (incarico toltogli dal ministro Roberto Maroni). 
Sentiremo parlare ancora di questo piccolo grande uomo dalla faccia triste e dalla voce acuta, che parla nervoso con gli occhi spiritati, e agita le mani come Bertinotti.
Mauro Suttora