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Wednesday, August 02, 2023

Basta fake news. Sarkozy non "attaccò" la Libia

Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Notizia falsa

di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it , 2 agosto 2023

Mi arrendo, hanno vinto i grillini. Oggi perfino il Corriere della Sera, con un editoriale in prima pagina dell'ottimo Federico Rampini, sostiene che l'Italia fu "vittima di una scellerata decisione francese, quella di Nicholas Sarkozy che nel 2011 ebbe un ruolo determinante per l'attacco militare contro Gheddafi".
Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Fake non solo infondata, ma probabilmente inventata e sicuramente amplificata dai canali Telegram putiniani.
Sarkozy non "attaccò" la Libia. Semplicemente, il 17 marzo di dodici anni fa promosse la risoluzione numero 1973 dell'Onu, assieme a Usa, Regno Unito e Lega Araba, per proteggere i civili di Bengasi che si erano sollevati contro il dittatore nel quadro delle Primavere arabe. Risoluzione accettata anche da Russia e Cina, che si astennero e non misero il veto.
Dopo le cacciate del presidente tunisino Ben Ali e dell'egiziano Hosni Mubarak era arrivato il turno di Gheddafi. Il quale però, più coriaceo, non esitò a inviare i suoi tank contro la folla della capitale cirenaica. Era questione di ore.
Per evitare una strage tipo Srebrenica o Ruanda fu lo scrittore francese Bernard-Henry Lévy a pressare il riluttante Sarkozy affinché facesse dichiarare dall'Onu una No fly zone sulla Libia. E il presidente francese a sua volta dovette faticare per convincere quello Usa Barack Obama, il quale dopo i fiaschi di George Bush jr in Afghanistan e Iraq non voleva altri coinvolgimenti esteri.
Ma gli Stati Uniti erano gli unici con la capacità tecnica di far rispettare con i suoi aerei la No fly zone sulla Libia. Quindi Obama accettò malvolentieri, con l'assicurazione che non ci sarebbero stati "boots on the ground" per i soldati Usa, niente interventi terrestri.
Perciò è falsa la vulgata grilloputiniansovranista di un Sarkozy giustiziere di Gheddafi. All'implementazione della risoluzione Onu sulla Libia partecipò un'ampia coalizione di Paesi, comprese le pacifiste Svezia e Norvegia.
La prova che la Francia non ha approfittato della cacciata di Gheddafi a scapito dell'Italia, d'altronde, è arrivata negli anni successivi. La francese Total non ha mai spodestato la nostra Eni come maggior estrattore di petrolio e gas in Libia. E oggi a Tripoli e Bengasi spadroneggiano milizie libiche, turchi, i russi di Wagner: chiunque, tranne i francesi.
Detto questo, fu un errore far cadere Gheddafi? Col senno di poi, forse sì. Però in quei giorni concitati fu non solo legittimo, ma doveroso proteggere i civili libici insorti spontaneamente contro un satrapo sanguinario che li opprimeva da 42 anni.
Ero lì in quei giorni, come giornalista. Sembrava che la Libia potesse autogovernarsi. Professionisti, ingegneri, medici, avvocati, molti tornati dall'esilio, si impegnarono nell'amministrazione provvisoria. Che però dopo qualche mese fu spazzata via da islamisti, militari e cosche tribali.
Si dice: almeno Gheddafi manteneva l'ordine e impediva il traffico dei clandestini verso l'Italia. Ma condannare un intero popolo a subire la dittatura pluridecennale di uno squilibrato non era possibile. Il tirannicidio è giustificato perfino dalla Chiesa cattolica. E sarebbe stato razzista bollare un Paese come non abbastanza maturo per la democrazia.
Neanche in Tunisia ed Egitto d'altronde è finita benissimo, dopo le primavere speranzose del 2011. La democrazia tunisina oggi è minacciata da un presidente autoritario e dalla crisi economica. E il Cairo si è rassegnato ai muscoli di Abdel Al Sisi dopo qualche anno di leggiadra follia dei Fratelli musulmani, così simili ai grillini quanto a incompetenza nel governare.

Insomma, Sarkozy ha tante colpe e le sta pure pagando. Ma basta, per favore, con la frottola di un suo complotto anti-italiano in Libia. 

Thursday, March 16, 2023

Sequestratori, piromani, usurai: cosa ci insegnano sugli scafisti



Come spezzare il legame perverso che rende complici i trafficanti e le loro vittime? Per affrontare pragmaticamente la questione possono soccorrerci alcuni esempi

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 16 marzo 2023


Davanti al dramma dell'immigrazione irregolare sono inutili gli opposti estremismi (accogliamoli, blocchiamoli tutti), e le reciproche retoriche. Neanche Matteo Salvini parla più di rimpatri: troppo costosi, complicati, crudeli. E Giorgia Meloni ha abbandonato i proclami sui respingimenti. Ma il problema resta: come spezzare il legame perverso che rende complici i trafficanti e le loro vittime? Per affrontare pragmaticamente la questione possono soccorrerci alcuni esempi.

Negli anni '70-'80 vennero sequestrati 700 italiani, e pagati riscatti per circa 800 miliardi di lire. Una vera e propria industria, fiorente soprattutto in Calabria e Sardegna. Che però finì dopo che una legge del 1991 bloccò i beni alle famiglie dei sequestrati, impedendo loro di pagare i riscatti. Fu così spezzato l'interesse comune che univa estorsori e ricattati. 

Anche allora, come oggi, la priorità spontanea, immediata, era quella di "salvare vite umane". Quindi in molti protestarono per la drastica misura. Ma la terribile regola "non si tratta con i banditi" finì per annientarli, così come i brigatisti rossi furono sconfitti dopo il "non si tratta con i terroristi" che sacrificò Aldo Moro.

E allora: come si fa oggi a non sottostare ai ricatti dei mafiosi libici, turchi, tunisini? Bloccandoli alla partenza. Una volta che barche e barconi sono in mare, è già troppo tardi. Ma per avere l'energia di farlo bisogna innanzitutto divincolarsi mentalmente dal cosiddetto "trucco del piromane". Ecco il secondo esempio. Perché è evidente che l'urgenza assoluta, di fronte a incendi appiccati per i più vari motivi (rendere edificabili zone verdi, coltivabili zone boschive), è quella di spengerli. 

Tuttavia, per non trasformare i pompieri in forzati di Sisifo, nonché ong e guardie costiere in operatori eterni sulla seconda tratta della tratta, occorre anche qui agire alla radice. Quindi a Tripoli, Bengasi, Smirne, Sfax. Non in mare, dove possiamo soltanto trasbordare e salvare. E importa poco che si tratti di emergenze artificiali, create a bella posta dai trafficanti.

Terza similitudine: le vittime dell'usura. Anche loro spesso spinti dalla disperazione. In mancanza di banche che prestino soldi, si affidano ai mafiosi. Così come i migranti, i quali scelgono la via clandestina in mancanza di consolati che concedano visti. Esistono però i reati di usura e di immigrazione clandestina, proprio per colpire chi approfitta di queste disperazioni.

La differenza è che i taglieggiati dagli strozzini non vengono puniti, così come le prostitute sfruttate dai protettori o i drogati avvelenati dagli spacciatori; mentre i clandestini diventano tali nel momento in cui mettono piede in Italia (reato bipartisan, perché introdotto dalla legge di sinistra Turco-Napolitano nel 1998 e solo aggravato con la misura dell'arresto dalla legge di destra Bossi-Fini nel 2002).

Anche qui, però, il problema sostanziale rimane: come spezzare la complicità diabolica fra strozzini e strozzati, così simile a quella fra migranti e trafficanti? Non illudiamoci che la soluzione stia nella parola magica "corridoi umanitari", ora tanto amata e pronunciata in automatico dai politici. 

Le associazioni antiusura vi dimostreranno che anche allargando le maglie dei fidi bancari ci sarà sempre qualcuno in cerca di prestiti. Così come anche con quote più generose di immigrazione legale ci saranno sempre esclusi che correranno il rischio di quella illegale.

Monday, September 12, 2022

La guerra lunga può diventare una trappola per Zelensky

Non è mai positivo quando i conflitti si trascinano a lungo. C'è una costante che li accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. Colpisce indiscriminatamente, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 Settembre 2022 

Nella primavera 2011 guardavo i ragazzi sul lungomare di Bengasi. Tornavano dai combattimenti contro i soldati di Gheddafi a Sirte, trasportati su pickup con mitragliatrice. Da qualche settimana i libici si erano ribellati al loro dittatore, e quei giovani con divise raffazzonate erano corsi volontari a sfidare la morte, coraggiosi. Al loro rientro in città erano giustamente accolti da eroi: esibivano orgogliosi i kalashnikov recuperati nelle caserme abbandonate dai militari regolari. Come capita a tutti i ventenni, piaceva loro far colpo soprattutto sulle ragazze. 

Sappiamo com'è andata a finire: da dieci anni la Libia è in preda all'anarchia. Molti di quei ragazzi sono rimasti arruolati nelle milizie che perpetuano la guerra civile. Affascinati dallo status garantito dalla divisa, esaltati dal machismo, riluttanti a tornare nel triste trantran della vita precedente: studio, lavoro? Che fatica, che noia.

Per questo non è mai positivo quando le guerre si trascinano a lungo. Neanche in Ucraina. C'è infatti una costante che le accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. La quale non cambia molto fra vincitori e vinti, aggrediti e aggressori. Perché le conseguenze negative di una guerra prolungata colpiscono entrambi i fronti. Col tempo, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile.


Sono state scritte biblioteche sulle esiziali conseguenze della prima guerra mondiale nella psiche delle masse smobilitate nel 1919, dopo cinque lunghi anni. I reduci italiani furono fra le principali cause del fascismo, le insoddisfazioni tedesche ci regalarono Hitler. Le vittorie sono sempre mutilate, le sconfitte sempre umilianti. La via d'uscita è facilmente la mistica dell'uomo forte. Gli ex combattenti diventano disadattati, disabituati alla pace. 

I mujaheddin afghani plasmati dalla resistenza antisovietica negli anni 80 hanno prodotto Osama Bin Laden e i talebani. Quando la guerra s'incancrenisce, l'unica stabilizzazione che si ottiene è quella del nemico. I tre quarti di secolo dei campi profughi palestinesi, con quattro generazioni cresciute nel mito della violenza, oggi promettono solo ulteriori decenni di odio. Che ha contagiato anche la controparte israeliana.

Egualmente, il Kosovo liberato 23 anni fa ha ancora bisogno del peacekeeping Nato, e si scopre ai bordi della legge quasi quanto la Serbia di Milosevic. Dal 2020 il suo eroe nazionale Hashim Thaci, che l'ha governato prima come capo militare, poi da premier e presidente, langue in una cella dell'Aja a poche centinaia di metri da quella dove si suicidò Milosevic nel 2006: entrambi accusati di crimini di guerra. 

Ma anche le più avanzate Croazia e Slovenia, accolte nella Ue e nell'euro (Zagabria fra quattro mesi), conservano piccole incrostazioni nazionaliste che impediscono loro di sciogliere una comica disputa sulle reciproche acque territoriali davanti a Trieste.

Insomma, le scorie del militarismo sono sempre difficili da smaltire. Anche nelle nostre democrazie. Nel 1960 fu proprio un ex generale, il presidente Usa Eisenhower, ad ammonirci contro il pericolo del 'complesso militare industriale': la perversa alleanza fra industria bellica e alte gerarchie delle forze armate, che per forza d'inerzia spinge ad aumentare le spese per armamenti. 

Pochi anni dopo il dramma del Vietnam gli diede ragione. Ma allora la reazione dei giovani statunitensi spinse alla pace e all'abolizione della leva. Paradossalmente invece, tanto più una guerra è di popolo, popolare, percepita come giusta (e la resistenza ucraina lo è), tanto più alti sono i rischi di un'escalation delle rivendicazioni. 

Perciò Zelensky è sicuramente un eroe, ma gli auguriamo di smettere al più presto la sua maglietta mimetica. Altrimenti diventerà lui stesso prigioniero di un revanscismo illimitato che impedirà la pace. Se oserà dire l'ovvio, e cioè che la Crimea e quel quarto di Donbass invasi dalla Russia nell'ormai lontano 2014 sono trattabili, verrà accusato di tradimento dai militaristi ucraini. Rischierà la fine di Rabin o Gandhi: assassinati non da nemici, ma da fanatici della propria parte. Induriti e impazziti a causa di guerre troppo lunghe. 

Saturday, May 21, 2011

parla l'unica ministra libica

INTERVISTA A SALWA DAGHILI

di Mauro Suttora

per Io Donna, settimanale del Corriere della Sera

Bengasi, 21 maggio 2011



Porta il velo, ma il disegno è Burberry. Arab chic, e non le domando se è originale: è già abbastanza imbarazzata. Quando le ho chiesto l’età ha scherzato timida: «Non gliela dico, è il solo segreto di stato che abbiamo qui a Bengasi».

Però anche la rivoluzione di Libia, come quelle tunisina ed egiziana, vola sui social network. E lì Salwa Daghili rivela i suoi 44 anni. Unica donna fra i tredici ministri nel «governo» (ufficialmente: «consiglio provvisorio») della nuova Libia libera. La incontro nel suo ufficio, al piano terra di un’elegante palazzina circondata da giardino sul lungomare di Bengasi. Proprio qui 80 anni fa stava lo spietato generale Rodolfo Graziani, e nel 2008 Silvio Berlusconi firmò lo sciagurato accordo di amicizia con Muammar Gheddafi.

«Non sono passati tre mesi dalla rivoluzione del 17 febbraio», dice Salwa, «e ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi dopo 42 anni». Lei viene da una famiglia facoltosa e numerosa: cinque fratelli, quattro sorelle. Suo padre, uomo d’affari, finì tre anni in prigione e agli arresti domiciliari sotto il colonnello. Poi però ha potuto viaggiare. «Avevo 15 anni quando visitammo Roma, il Vaticano, Milano… Mi piacque molto Verona», dice Salwa nel suo compìto francese.

La laurea in legge, «la vita in un clima di perenne paura», il matrimonio con un medico, i tre figli che ora hanno 15, 13 e 9 anni. Qualche stagione in Polonia dietro al marito andato lì a lavorare, poi lui ha seguito lei a Parigi per ben quattro anni: «Nel primo ho imparato bene il francese, quindi ho ottenuto il dottorato in diritto costituzionale alla Sorbona. In Francia ho capito l’importanza dei diritti dell’uomo. Anzi, della persona… Due anni fa siamo tornati a Bengasi. Come docente universitaria di diritto cercavo di instillare nei miei studenti l’amore per la legalità. Era il mio unico, piccolo modo di battermi contro il regime».

Poi, improvvisa, l’ondata. Tutti i giovani libici, esaltati dalle rivolte di Tunisi e Cairo viste sulla tv Al Jazeera, si danno appuntamento in strada il 17 febbraio: l’anniversario degli morti del 2006 davanti al consolato italiano di Bengasi. «Ufficialmente protestavamo contro la maglietta anti-islam di quel vostro ministro [il leghista Roberto Calderoli, ndr], ma il vero bersaglio era Gheddafi».

Questa volta, incredibilmente, la rivolta riesce. Molti poliziotti e soldati, invece di sparare contro i giovani, passano con loro. «Ero in strada anch’io, e pure i miei figli. Quello grande di 15 anni continua ad aiutare i rivoluzionari, ho dovuto imporgli il coprifuoco: alle dieci di sera, a casa».

Ora Salwa è incaricata di preparare la costituzione della nuova Libia: «Quando sarà tutta unita, Tripoli compresa», tiene a precisare. È andata a Parigi a chiedere consigli e a prendere contatti. «Sanciremo il rispetto dei diritti individuali e di tutte le minoranze». Anche quelle religiose? «Certo. In Libia attualmente con ci sono ebrei né cristiani, tranne i lavoratori filippini che sono scappati. Ma state sicuri: non diventeremo un altro Iran. I libici sono musulmani praticanti, ma moderati».

A duecento metri dalla palazzina bianca di Salwa Daghili incontriamo le altre «donne della rivoluzione». Le sorelle Bugaighis innanzitutto, belle e vistose, anche perché i loro capelli corvini non sono nascosti da foulard. La 44enne Salwa, avvocatessa, è portavoce del Consiglio provvisorio nell’ex palazzo del tribunale, il primo a essere conquistato dagli insorti. Anche lei madre di tre figli, sempre in prima fila alle manifestazioni che vengono ancora organizzate per fornire uno sfogo all’entusiasmo dei giovani – frustrati dallo stallo militare – e qualche occasione fotografica ai pochi giornalisti rimasti a Bengasi.

Sua sorella Iman, 49, era professore di odontoiatria all’università, e non sa quando riprenderanno le lezioni: «C’è ancora così tanto da fare. All’inizio pensavamo che Gheddafi sarebbe caduto entro pochi giorni, poi entro qualche settimana. Ora capiamo che è questione di mesi. Prima o poi succederà, ne siamo sicure. Ma intanto dobbiamo fare andare avanti uno stato. Abbiamo ricominciato a esportare un po’ di petrolio dal porto di Tobruk, ma cento milioni di dollari al mese non bastano. Per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici ci vorrebbe il quadruplo».

«Al governo a Bengasi ora ci sono ingegneri, professori, avvocati», spiega Najla Mangoush, madre separata di Gaida, 10 anni, e Raghad, 5. «Io parlo bene l’inglese, quindi tengo i rapporti con diplomatici e giornalisti. Siamo tutti volontari. Ma quanto potrà durare il nostro entusiasmo?»

Mauro Suttora

Wednesday, April 20, 2011

parla il Mandela libico

INTERVISTA ESCLUSIVA A AHMED ZUBAIR AL SENUSSI, 31 ANNI IN CARCERE SOTTO GHEDDAFI. OGGI È MINISTRO DELLA NUOVA LIBIA LIBERA

dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora

Oggi, 13 aprile 2011



«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».

L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».

È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.

«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».

Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.

Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».

Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».

L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».

Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».

«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».

Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.

«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».

Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».

Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.

Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».

E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».

Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».

Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».

Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».

Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».

Mauro Suttora

Tuesday, April 19, 2011

Feltri, ora fai il pacifista?

BISOGNA AIUTARE GLI INSORTI LIBICI

editoriale su Libero, 19 aprile 2011

di Mauro Suttora

Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.

Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.

Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).

Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».

Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.

Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).

Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.

Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.

Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.

«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.

Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.

Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.

Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.

I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.

Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista

Mauro Suttora

Wednesday, April 13, 2011

Viaggio nella Libia libera

DAL CAIRO A BENGASI, 1.400 KM DI AUTO NEL DESERTO

dal nostro inviato Mauro Suttora

Oggi, 3 aprile 2011

Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.

«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.

In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.

Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».

Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.

Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.

La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?

Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.

Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.

Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.

Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.

La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?

Mauro Suttora

Wednesday, March 02, 2011

Quanti rischi in Libia

Ipotesi sulle possibili conseguenze, per l'Italia e il resto del mondo, della rivolta popolare contro il regime di Gheddafi

Oggi, 2 marzo 2011

Nel Nordafrica è arrivata la libertà. E forse (speriamo) la democrazia. Ma i pericoli sono ancora tanti. Anche per noi

di Mauro Suttora

Evviva: dopo Tunisia ed Egitto, anche la Libia sembra quasi liberatada un regime e avviata verso la democrazia. Ma per noi italiani si aprono molti interrogativi. Ci sarà un'invasione di profughi? Un pericolo terrorismo? Il prezzo della benzina salirà? E le nostre commesse? «L'Unione Europea deve capire che il problema non è italiano, ma continentale», dice l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu. «E questo per due motivi. Primo: l'Italia è il confine sud di tutta l'Europa, una volta entrati da qui c'è libertà di circolazione senza più barriere alle frontiere. Secondo: la stragrande maggioranza degli immigrati entrati ultimamente dalla Tunisia non vuole fermarsi in Italia, ma proseguire verso altri Paesi».

Le rivolte in Libia, Egitto e Tunisia provocheranno una valanga di arrivi? C'è chi parla addirittura di 300 mila profughi. Ma è un'esagerazione. Per gli africani che entrano nel sud di questi Paesi per imbarcarsi dalle loro coste, basta ripristinare con i nuovi governi i precedenti accordi di sorveglianza. Cosa che è stata già fatta con la Tunisia, e che potrà avvenire anche in Libia una volta che la situazione si sarà chiarita. Se invece si teme che una parte dei sei milioni di libici fugga da una guerra civile prolungata e sanguinosa, basterà che l'apposita agenzia Onu installi campi profughi alle frontiere con Egitto e Tunisia. Ma tutta la Libia tranne Tripoli ormai sembra libera, e la vita sta tornando alla normalità. Certo, la capitale ha tre milioni di abitanti, cioè metà della popolazione. Ma i giacimenti petroliferi sono soprattutto in Cirenaica, e la produzione (con relativi introiti) potrà continuare a sostenere i ricchi libici. I quali non pagano pochissime tasse, e hanno scuola e assitenza sanitaria gratuita: non sono certo poveracci in fuga.

TERRORISTI

Il figlio di Gheddafi, Saif el Islam, quando le cose iniziavano a mettersi male aveva sventolato la minaccia islamica: «A Bengasi Al Qaida ha già proclamato il califfato». Nulla di vero, anche se qualche sprovveduto - perfino ai piani alti delle diplomazie europee - ha abboccato. Il che non significa che il pericolo del fanatismo non esista. «Ma in Libia ha sempre prevalso la tradizione senussita », assicura il principe Idris al Senussi , nipote dell'ultimo re e pretendente al trono, «cioè una corrente islamica moderata e aperta alla modernità».

Come in tutte le rivoluzioni, non è la prima impressione quella che conta. Il fatto che adesso in Libia - ma anche in Egitto e Tunisia - non si vedano in giro barbette da fanatico e simboli religiosi, non significa che fra qualche mese possa farsi largo e prevalere una fazione estremista. Anche democraticamente: a Gaza le prime elezioni libere del 2006 sono state vinte da Hamas. Negli Anni 80 pure Gheddafi, come i sauditi e gli Stati Uniti, commise l'errore di finanziare e mandare in Afghanistan dei mujaheddin per combattere gli invasori sovietici. Finita la guerra, Osama Bin Laden e i talebani non deposero le armi. Alcuni guerriglieri di origine libica tornarono in patria, ma furono subito incarcerati da Gheddafi. In Libia quindi negli Anni 90 non si ebbe la lotta integralista che insanguinò l'Algeria. Ma ora gli estremisti sono stati scarcerati (apposta?) dal colonnello, e potrebbero ricominciare a fare proseliti.

LO SCENARIO PEGGIORE

Lo scenario peggiore è quello di una resistenza prolungata da parte di Gheddafi a Tripoli, e di una disintegrazione della Libia fra le diverse tribù e fazioni. In mancanza di un forte potere centrale avrebbero la meglio le bande di predoni del deserto nelle zone meno battute, e la Libia si trasformerebbe in una Somalia. Sarebbe il luogo ideale per l'installazione di cellule e basi di Al Qaeda, come avvenne in Afghanistan negli Anni 90.

BENZINA

La Libia produce 1,8 milioni di barili al giorno di petrolio. Sembra tanto, ma è solo il due per cento dell'estrazione mondiale. Quindi gli aumenti di prezzo sia del greggio, sia della benzina alla pompa, sono solo speculazioni, senza rapporto con la realtà. Sulle quotazioni mondiali non possiamo farci nulla, vengono decise nelle borse di Londra e New York. E scontano il clima generale d'incertezza: se le rivolte si propagassero ai Paesi grandi produttori (Arabia, 12 per cento, o Iran, 5), allora potremmo cominciare a preoccuparci. Vero è che un quarto del fabbisogno delle nostre raffinerie proviene dalla Libia. Ma le petroliere possono sostituire i loro punti di rifornimento.

Quanto alla benzina a 1,55 e il gasolio a 1,43, come sempre i petrolieri scaricano immediatamente gli aumenti sul costo finale. Ma il petrolio raffinato per quella benzina l'hanno comprato ai prezzi vecchi. Quindi ne stanno approfittando per ampliare i loro margini. Dovrebbe intervenire il mister Prezzi del ministero Attività produttive. Anche per il gas, niente paura: ci sono varie e valide alternative di approvvigionamento. E poi si va verso la bella stagione, niente più riscaldamento...

COMMESSE

Sono in ballo 12 miliardi di euro all'anno: la somma di import ed export tra Italia e Libia. Siamo il loro principale partner commerciale. Le nostre principali società coinvolte sono Eni, Unicredit, Prismian, Sirti, Ansaldo, Finmeccanica e Impregilo, e hanno tutte perso in Borsa. Il 2 per cento delle azioni Eni sono in mano a Gheddafi. Il quale possiede un'eguale quota in Finmeccanica (produttore di armi), e addirittura il 7 per cento nella Juventus e nella prima banca italiana, Unicredit. L'azienda di costruzioni Impregilo è impegnata in opere colossali, per un un miliardo di euro. Riuscirà a finirle solo se torna la pace.

Mauro Suttora

Thursday, February 17, 2011

Libia, intervista a Idris Al Senussi

"È UN RISCHIO ANCHE PER L'ITALIA"

Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"

di Mauro Suttora

Libero, 17 febbraio 2011

«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».

Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.

«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».

C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?

«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».

Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.

Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.

Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.

Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.

Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».

Mauro Suttora

intervista Cnn 21.2.11