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Monday, November 15, 2021

Maria Grazia Cutuli, smettete di chiamarla giovane collega



Moriva vent'anni fa, ammazzata in Afghanistan. Fino a due anni prima era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine

di Mauro Suttora

HuffPost, 15 novembre 2021

Adesso Maria Grazia Cutuli è una via di Milano, fra Lambrate e l'Ortica. Fu ammazzata in Afghanistan vent'anni fa, il 19 novembre 2001. Due suoi assassini sono stati condannati nel 2018 in Italia a 24 anni. Erano in carcere a Kabul, chissà se quest'estate i talebani li hanno liberati. 

Speriamo che nel ventennale della sua morte i giornalisti italiani non la definiscano ancora «giovane collega»: non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto: fino a due anni prima Maria Grazia era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» della corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie sudditanze e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. 

E Antonio Russo, assassinato nel 2000 in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Eppure Russo fu l’unico giornalista al mondo che nel 1999 rimase a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, ricevette premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia, massacrata dai russi.

Con la Cutuli fu ucciso Julio Fuentes. Lo conobbi quando era a Milano come corrispondente del quotidiano spagnolo El Mundo e stava con Maria Grazia. Lui sì che potè fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. È capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese nel 1990 all’Intercontinental di Amman durante la prima guerra del Golfo, aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale.

Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo al settimanale Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino nel 1989 prima della strage di piazza Tian an men. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli, amanti, e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Ultimamente le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è la rete», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Mauro Suttora

Wednesday, February 27, 2002

Convegno su Antonio Russo

Convegno sull'informazione (Università di Udine-Gorizia, 27 febbraio 2002)

testo dell’intervento di Mauro Suttora

ISLAM, ISRAELE, PALESTINA

Qual è il compito dei giornalisti? Raccontare. Far comprendere la vita quotidiana della gente, oltre le speculazioni politiche, religiose, ideologiche. Smontare i luoghi comuni.

Ho pensato ad Antonio Russo, il giornalista di Radio radicale cui è dedicato questo convegno, l’ultima volta che mi hanno mandato in Israele e Palestina, pochi mesi fa. Segnalo anche che Radio radicale sta registrando questo convegno, che poi trasmetterà per centinaia di migliaia di ascoltatori.

Ascoltavo spesso le corrispondenze di Antonio Russo dai Balcani e poi dalla Cecenia, prima che fosse ucciso. Russo era uno che non aveva fretta, che si fermava per mesi nei posti che lo interessavano, fossero o no alla ribalta della cronaca. Faceva, insomma, il contrario di quello che di solito fanno quasi tutti i giornalisti, prigionieri del metodo «mordi-e-fuggi» e della stretta attualità.

Ho pensato a Russo quando, arrivato alla frontiera di Gaza, ho chiesto al tassista palestinese di portarmi al Tahuna, il migliore albergo della città. Durante il tragitto lo chauffeur comincia a dire che anche altri hotel sono belli come il Tahuna... Sospettando che mi voglia portare nell’albergo di qualche suo parente, insisto per il Tahuna. «Ma è bruciato», mi annuncia. Arriviamo è vero, tutto distrutto. Ma chi è stato? «L’Intifada». Come, il proprietario era un collaborazionista degli israeliani? «No, no...»

Il tassista non va oltre con le spiegazioni. Domando ad altri notizie sul disastro del Tahuna, ma c’è imbarazzo e omertà. È stata la mafia? «Nooo, a Gaza non c’è mafia», spara un poliziotto. Alla fine, la triste verità i fondamentalisti hanno bruciato l’albergo perché osava vendere alcolici nel bar (anche se i clienti erano quasi tutti stranieri).

Insomma, una città come Gaza, con due milioni di abitanti, ficcata come un cuneo quasi nel cuore di Israele, è oggi in mano ai fondamentalisti islamici. Con tutte le conseguenze di ogni estremismo religioso culto della morte, appelli alla distruzione totale di Israele, ammirazione per i terroristi suicidi elevati a martiri da imitare, ecc. E’ ciò che leggiamo nelle cronache di ogni giorno. Ma perché ho pensato ad Antonio Russo? Perché lui, condividendo giorno per giorno la vita quotidiana dei palestinesi di Gaza, o quella opposta ma simmetricamente eguale dei coloni ebraici negli insediamenti a 50 metri da campi profughi, avrebbe potuto spiegare bene quello che sta succedendo. E smontare un sacco di luoghi comuni.

Quello dei «poveri profughi palestinesi», per esempio. Perché quando si passa il confine fra Israele e Palestina si ha l’impressione fisica, palpabile, che Berlusconi abbia ragione? E cioè che i paesi arabi sono rimasti indietro, se non di mille anni, almeno di cento? Perché di qua c’è la povertà, mentre di là la ricchezza. Di qua le baracche, i tuguri, di là le case, se non le ville. Ma perché, semplificando, i palestinesi sono poveri mentre gli israeliani sono ricchi?

Viene spontaneo pensare ai ricchissimi emiri arabi miracolati dal petrolio che scorrazzano ogni estate fra Cannes e Porto Cervo sui loro megayacht dal lusso sfrenato. E scandaloso, se paragonato alla miseria in cui sono costretti questi loro «fratelli arabi». Possibile che nessun filantropo saudita pensi a costruire case popolari dove sistemare decentemente gli abitanti di Gaza?

In fondo, è la stessa cosa che fanno i miliardari ebrei americani, assai generosi nei confronti di Israele. Ma il tremendo sospetto è che i satrapi arabi giochino al «tanto peggio, tanto meglio», facendo rimanere apposta i palestinesi nella disperazione per meglio aizzarli contro gli israeliani. Hamas, Jihad, l’inferno, nascono proprio nella miseria materiale e spirituale dei campi profughi.

Altro luogo comune il terrorismo islamico nasce dalla povertà. Falso. Osama è uno sceicco miliardario. I 19 kamikaze dell’11 settembre provenivano dalle classi medie dell’Arabia Saudita, uno dei Paesi più ricchi del mondo. Ma anche quasi tutti i giovani suicidi palestinesi sono discretamente istruiti, e non hanno fatto la fame.

E poi perché i profughi sono ancora nei campi, a più di mezzo secolo dalla guerra del 1948? Perché forse sperano di tornare? Non scherziamo, nessuno pensa più a tornare in villaggi che non esistono più, quelli dei nonni. E allora, cosa stanno lì a fare, se non a funzionare da eterna carne da ricatto contro gli israeliani? Anche l’Italia ha avuto centinaia di migliaia di profughi dall’Istria dopo l’ultima guerra, ma dopo pochissimi anni i campi erano vuoti, tutti si sono rifatti una vita.

Vi sembrano considerazioni semplicistiche, banali, volgari? Politicamente bizzarre di sicuro, non in linea con l’informazione media che ci giunge in Italia. Peccato che poi, però, sempre a proposito di Islam, il libro di Oriana Fallaci venda un milione di copie in due mesi, fatto mai accaduto in Italia. Peccato che un fenomeno impressionante come Sharon che vince a man bassa le elezioni non sia stato minimamente previsto né spiegato dai tanti raffinati giornalisti che pretendono di informarci standosene a sorseggiare cocktail al bordo della piscina dell’hotel American Colony a Gerusalemme, distillando preziose analisi politologiche campate in aria. C’è una bella canzone di De Gregori che dice «E tutte queste informazioni di Vincent/girano in tondo e non mi spiegano perché/ e non mi spiegano cos’è che muore».

In Palestina muore la gente. Ma scompare anche la borghesia palestinese mite, intelligente, colta. Laica. Una classe media di mercanti e intellettuali che emergeva in tutto il mondo arabo. E che adesso è silenziata dagli estremismi militari e religiosi. Penso a un nome, Sari Nusseibeh di Gerusalemme. Lo intervistai nell’88 per l’Europeo, c’era la prima Intifada, però era ottimista. Oggi invece quelli come lui hanno perfino paura di parlare.

Ecco, non c’è simmetria fra Israele e Palestina. Non esiste l’equivalente palestinese del movimento pacifista israeliano che è risorto, delle Shulamit Aloni, degli Yossi Sarid, degli Yossi Beilin. Perché oltre che a esserci la divisione fra ricchezza e povertà, fra Primo mondo e Terzo mondo, fra modernità e antichità, fra Israele e Palestina c’è anche la divisione fra libertà e oppressione, fra democrazia e autoritarismo. Purtroppo Israele è oggi, in tutto il Medio Oriente, l’unica oasi di democrazia in mezzo a un deserto di dittature.

I giornalisti dovrebbero, come dice il titolo di questo convegno, rappresentare la realtà, e non crearla. Antonio Russo è un giornalista che questo faceva. Ho adottato, in scala ridotta, il suo stesso metodo, andando a ficcarmi per dieci giorni nei punti più assurdi di tutta la regione, e forse della Terra i kibbutz di Gush Katif e di Netzarim, insediamenti proprio in mezzo alla striscia di Gaza, i primi che dovranno essere evacuati in caso di accordo di pace. A dormire e mangiare con i coloni più fanatici, così come nei giorni precedenti avevo dormito e mangiato con i palestinesi del campo profughi e avevo ascoltato prediche di muezzin altrettanto fanatici.

Ma quante volte avete visto in tv o letto reportage dal fronte, che lì è rappresentato proprio dalle colonie e dai campi profughi? A Gush Katif mi hanno detto che ero il primo giornalista italiano che arrivava lì. Eppure ci si può andare quando si vuole, non c’è censura. Basta andarci. Magari, invece che sulla macchina in affitto con aria condizionata e autista su cui si muovono preferibilmente i giornalisti italiani, su un autobus, come certamente avrebbe fatto Antonio Russo. Su uno di quegli autobus pieni di giovani israeliani dove ogni tanto sale qualche loro coetaneo palestinese per saltare in aria tutti assieme.

Andando in giro, così, senza pregiudizi, con curiosità, senza schemi mentali e ideologici precostituiti, il giornalista non deve dimostrare tesi, non deve individuare cattivi e buoni, non è suo compito neanche trovare soluzioni. Dovrebbe semplicemente raccontare. Proprio come faceva Antonio Russo. Il quale, intendiamoci, non era affatto un giornalista neutrale era partigiano, perfino testardo a volte. Stava dalla parte degli albanesi kosovari contro gli occupanti serbi, dalla parte dei ceceni contro gli occupanti russi. Ma questo non gli impediva di descrivere con gli occhi, con la mente e anche con il cuore la vita di tutti coloro in mezzo ai quali si era fatto paracadutare da Radio radicale.

Mauro Suttora

Friday, November 23, 2001

Maria Grazia Cutuli

Il Foglio, 23 novembre 2001

di Mauro Suttora

Col cavolo che Maria Grazia Cutuli era una «giovane collega», come hanno blaterato i tromboni del giornalismo in questi giorni. No, in tutta evidenza non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto perché in realtà fino ad appena due anni fa Maria Grazia era solo una precaria, costretta a uno stato di incertezza fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» di questa chiusa corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie schiavitù e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. E Antonio Russo, assassinato un anno fa in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Sua madre, al contrario dei genitori di Ilaria Alpi (giustamente ricordata con libri e film), non ha avuto neanche in questi giorni il conforto di un’intervista.

Eppure Russo è stato l’ultimo giornalista al mondo a rimanere a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, e ha ricevuto premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia. In questi giorni l’unico a ricordarlo è stato Antonio Martino.

Con la Cutuli è morto Julio Fuentes. L’ho conosciuto sette anni fa, quando era a Milano come corrispondente del Mundo e stava proprio con Maria Grazia. Lui sì che ha potuto fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. E’ capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi della piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese all’Intercontinental di Amman aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale. Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo all’Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad due giorni prima e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia quando ci sentivamo. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontavano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli e amanti e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Negli ultimi anni le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è internet», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così, oggi in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli questo lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Thursday, January 25, 2001

Arlacchi al capolinea

IL DIRETTORE ITALIANO DELL'AGENZIA ONU ANTIDROGA SOTTO ACCUSA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 25 gennaio 2001

Chissà se l’onnipotente Enzo Biagi riuscirà a salvare il posto a uno dei suoi innumerevoli datori di lavoro: Pino Arlacchi. Il sociologo calabrese, infatti, sta per perdere la carica di direttore dell’Ufficio antidroga dell’Onu a Vienna.
Nominato quattro anni fa dall’Ulivo (anche per far posto a Tonino Di Pietro come senatore del Mugello), Arlacchi è in scadenza a settembre, ma difficilmente il suo mandato verrà rinnovato. Gran Bretagna, Francia, Germania e Svezia lo hanno già scaricato, e i governi di Parigi e Berlino si sono perfino rifiutati di presentare il Rapporto della sua Agenzia.

Così Arlacchi ha ripiegato mesto su Milano, dove stamane il suo Rapporto 2000 viene esibito in pompa magna nella sala più prestigiosa del palazzo comunale. Presiede Enzino, assieme al suo cardinale pret-à-porter Ersilio Tonini, al ministro dell’Interno Enzo Bianco (che sotto sotto mira alla poltrona di Arlacchi) e alla lobby antidroga di San Patrignano rappresentata da due signore: la giudice dei minori Livia Pomodoro e Letizia Moratti. Anche quest’ultima, come Biagi, è stata «nominata» da Arlacchi «civic ambassador to Italy»: un titolo antidroga tanto vacuo quanto altisonante.

Giornata di gloria per il povero Pino, quindi, che si consola per le sberle che ormai gli piombano addosso quasi ogni giorno. Dopo la sua prima scivolata in dicembre al vertice di Palermo («Ormai la mafia è vinta», disse), è arrivata la denuncia di undici pagine in cui Michael von Schulenburg, numero due dell’Ufficio di Vienna, rimprovera al suo capo una «politica personale» caratterizzata da «indifferenza e disprezzo» per i suoi collaboratori, «programmi annunciati e mai realizzati» e «un grande dispendio di denaro».

Poi i grandi giornali europei si sono scatenati sul caso dei 60 milioni di lire che l’ufficio di Mosca dell’agenzia di Arlacchi ha regalato a Dennis Oren, un simpatico svedese residente nelle isole Canarie. Questo tizio avrebbe dovuto girare il mondo su una barca a vela dispensando ai giovani «informazione sulla droga», argomento sul quale però non possedeva alcuna competenza professionale. Il rappresentante Onu a Mosca non voleva finanziarlo, ma poi è arrivato l’ordine direttamente da Pino. Il quale ora si difende: «No, Oren non è mio amico, l’ho solo incontrato due o tre volte. Ho semplicemnte pensato che la sua fosse una buona idea, e il mio staff ha condiviso la valutazione».

Peccato che lo stesso staff sia trattato da Arlacchi col capriccio del satrapo mesopotamico: «Non riceve il personale, non risponde alle lettere, non si fida di nessuno, ha il culto della segretezza, accentra tutto su di sè», accusa Von Schulenburg. Così ormai siamo arrivati a sette direttori fatti fuori in tre anni.

Uno degli ultimi è l’inglese Tony White, già capo dell’Agenzia Onu per l’applicazione della legge, ed ex dirigente di Scotland Yard: «In 33 mesi sono riuscito a vedere Arlacchi solo una volta. Il suo ufficio privato è un buco nero che si espande sempre più, e ha ridotto la politica delle risorse umane a livelli vergognosi». Tradotto: si fa carriera non per merito, ma solo se si è amici di Pino.

Il trattamento riservato a White ha irritato a tal punto il governo britannico che ora Londra mette in dubbio la prosecuzione del suo finanziamento all’Agenzia di Vienna. Critico anche Jean-François Thony, magistrato francese che doveva organizzare un «Programma globale contro il riciclaggio finanziario». Se n’è andato sbattendo la porta e accusando un consulente italiano nominato da Arlacchi di avere cercato di piazzare una relazione copiata, che l’Onu avrebbe dovuto pagare diecimila dollari.

Infine, perfino l’autore del Rapporto mondiale presentato oggi in Italia ha mollato Pino: il coordinatore Francisco Thaomi si è dissociato dal testo finale, perché Arlacchi lo ha voluto «purgare» pesantemente. Sono stati rimaneggiati soprattutto i capitoli sulle anfetamine e la marijuana, nel tentativo di esagerare i risultati ottenuti da Arlacchi.

In realtà, com’è noto, i principali produttori di oppio (eroina) e coca, cioè Afghanistan, Birmania e Colombia, continuano indisturbati ad aumentare la produzione e la raffinazione. Con i 50 miliardi regalati da Arlacchi i talebani afghani hanno comprato armi. Quanto alla canapa indiana (hashish, marihuana), la stessa Agenzia Onu stima in quasi due milioni di ettari i campi coltivati in ben 120 Paesi, con 144 milioni di consumatori.

Commenta Franco Corleone, sottosegretario alla giustizia: «Arlacchi non perde occasione per glorificare le sorti della “guerra alla droga” e soprattutto per attribuirsi i meriti di successi straordinari nel mondo intero. Ma in tutta Europa le politiche sulla droga si stanno indirizzando verso la depenalizzazione».

Marco Pannella accusa: «Un ex collaboratore russo-georgiano di  Arlacchi è sospettato di avere avuto rapporti non chiari con la criminalità: era presente nello stesso albergo di Tblisi nei giorni in cui si teneva una riunione della potentissima mafia georgiana». Antonio Russo, giornalista di Radio radicale che indagava in loco, è stato assassinato misteriosamente tre mesi fa.

Intanto, con una norma inserita alla chetichella nell’ultima finanziaria, l’Italia destina all’Agenzia Onu antidroga il 25 per cento dei beni confiscati ai mafiosi: una boccata d’ossigeno per Arlacchi nel caso che gli altri Paesi europei gli taglino i fondi. Ma che rischia di arrivare quando a Vienna Pino non ci sarà più.
Mauro Suttora

Friday, October 20, 2000

Antonio Russo ucciso in Cecenia

settimanale Diario

20 ottobre 2000

di Mauro Suttora

Milano. De mortuis nisi bene? No, si può anche parlar male di Antonio Russo, 40 anni, da Francavilla al Mare (Chieti). Aveva un caratteraccio, sembrava un barbone, un disadattato che vagava per il mondo, non era equilibrato nei suoi giudizi politici, parteggiava sempre sfrenatamente per una delle parti in causa, prima di essere un giornalista era un radicale.

Ma mi piaceva proprio per questo. E anche per un particolare solo apparentemente secondario: non lavorava assieme agli altri giornalisti. «Pour exister il faut qu’ils se mettent à plusieurs»: il gregge stigmatizzato da Jean-Paul Sartre nella Nausea è la triste normalità dei giornalisti italiani sui fronti di guerra. Tutti in gruppo, sempre: un po’ perché è pericoloso, un po’ perché qualcuno non sa bene le lingue, un po’ per non rischiare di prendere buchi. Ma soprattutto per comodità, viltà, pigrizia, conformismo.

Antonio Russo invece era un lupo solitario. Non era un fighetto con la sahariana e le note spese facili: anche perché Radio Radicale non ha i soldi per mandare i suoi reporter negli alberghi a cinque stelle. E neanche in quelli a tre. Cosicché lui si faceva ospitare da qualche abitante del luogo di cui diventava amico, e si infrattava. Nel senso che rimaneva sul posto per mesi. È successo così dappertutto: la Colombia dei narcos, l’Algeria degli sgozzati, il Ruanda dei trucidati, la Sarajevo dei cecchinati.

SENZA TESSERA

Si immedesimava nella vita degli abitanti del posto, perché la condivideva. Dopo quasi un anno trascorso nel Kosovo, aveva perfino imparato l’albanese. Con la sua faccia patibolare, con quella cicatrice rimediata chissà dove, con quegli stracci di vestiti che indossava, era diventato lui stesso un kosovaro. Non per nulla riuscì a nascondersi per molti giorni a Pristina, fra i rastrellamenti serbi e sotto le bombe Nato, e poi scappò in Macedonia sul treno dei deportati senza essere individuato.

Sua madre lo aspettava in Italia, ma lui non aveva mai voglia di tornare. Mandava lunghi reportage per telefono a Radio Radicale, e confesso che quando li ascoltavo di primo mattino a volte mi assopivo, cullato dal suo accento abruzzese. Era buffo quando tentava di applicare al conflitto kosovaro o a quello ceceno (dispute fra bande medievali, essenzialmente) analisi raffinate e usava locuzioni come «si ipotizza in ambienti diplomatici…».

No, lui quegli ambienti proprio non li frequentava, una volta lo cacciarono da una conferenza stampa nel migliore albergo di Pristina perché… sembrava un albanese. E perché non aveva la tessera da giornalista. Come tutti i free lance e i cooperatori delle Ong che sognano di farlo, il giornalista, inseguiva l’iscrizione all’Ordine. Ma poi partiva sempre.

L’ultima volta per la Cecenia: la fine del millennio l’ha festeggiata lì, fra le nevi del Caucaso, attaccato al telefono con Radio Radicale. Dieci mesi dopo era ancora da quelle parti, sempre in quei posti inutili che non fanno più notizia. Ma lui si affezionava a quelli che gli offrivano un letto e un pranzo. E ce li raccontava.

Mauro Suttora