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Tuesday, January 15, 2002

Mappa degli euroscettici

MAPPA DEGLI EUROSCETTICI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 15 gennaio 2002

Londra. Altiero Spinelli? «Soltanto un pericoloso stalinista». La prova? «Nel suo Manifesto di Ventotene del 1941 scrisse: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”». 

Il padre dell’Europa unita scomparso nel 1986 è detestato a tal punto dagli euroscettici inglesi che uno di loro, Lindsay Jenkins, autore quattro anni fa del libro «Gran Bretagna tenuta in ostaggio: l’Eurodittatura in arrivo», gli ha dedicato un lungo saggio offensivo, in cui l’antifascista italiano viene definito sprezzantemente «padrino» dell’Unione europea, nonché «lifelong communist» (comunista per tutta la vita). 

Ma Spinelli non aveva abiurato la sua fede in Stalin nel ‘37? Sì, ammette Jenkins, «perché avendo tempo per pensare, in prigione ruppe col comunismo. Ma non si è mai allontanato troppo dalle sue radici, e infatti dopo 40 anni durante i quali la sua stella fu eclissata da altri europeisti come Jean Monnet, nel 1976 tornò sulla scena come deputato e poi eurodeputato del Pci. E, con il suo Club del Coccodrillo, è stato lui negli anni Ottanta il vero artefice del trattato di Maastricht e dell’unione monetaria».
 
Siamo nel principale covo degli euroscettici: gli uffici londinesi in Regent Street del Gruppo di Bruges. Più accaniti di loro contro Bruxelles, in tutto il mondo non ce n’è. Altro che Bossi, Martino, Tremonti. È qui che si distillano le analisi più velenose contro i tecnocrati dell’Unione Europea. È qui che i nemici dell’euro gioiscono ogni volta che il dollaro guadagna un decimo di punto sulla moneta continentale. Ed è qui che aspettano con fiducia il referendum sull’adesione all’euro ipotizzato da Tony Blair: «Se mai avrà il coraggio di farlo, quello sarà il giorno della sua rovinosa caduta», prevedono sicuri.

Perché Bruges? Perché tutto cominciò in quella città belga, dove nel settembre 1988 Margaret Thatcher pronunciò uno dei suoi tanti discorsi contro l’Europa «sociale». Che risultò talmente brillante e ben argomentato da passare alla storia. Al rettore del Collegio d’Europa che l’aveva invitata disse ironica: «Farmi parlare qui è come aspettarsi da Gengis Khan un discorso sulla coesistenza pacifica». 

Per niente intimorita dal trovarsi nella tana del lupo, la Lady di ferro scolpì nel marmo la memorabile frase: «Non abbiamo fatto arretrare le frontiere dello Stato in Gran Bretagna per vedercele reimporre da un Superstato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles». 

Il duello allora era contro Jacques Delors, presidente francese della Commissione, il quale da buon socialista vagheggiava un’Europa «sociale».

«Noi europei», gli ribatteva la Thatcher, «non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in dispute interne e arcani dibattiti istituzionali: niente può sostituire l’azione concreta. L’Europa deve competere in un mondo dove il successo va ai Paesi che incoraggiano l’iniziativa individuale, e non a quelli che cercano di ostacolarla. Per lavorare meglio di loro non c’è bisogno di centralizzare il potere a Bruxelles, né di far prendere le decisioni a una burocrazia non eletta. E’ paradossale che proprio mentre Paesi come l’Urss, i quali hanno cercato di governare tutto centralmente, stanno imparando che il successo dipende invece dal saper distribuire il potere e le decisioni lontano dal centro, qualcuno in Europa voglia muoversi nella direzione opposta».
 
Liberali contro socialisti, quindi. Proprio come nel giugno ‘85, quando al vertice di Milano la Thatcher uscì sconfitta da Bettino Craxi. «Vogliamo indietro i nostri soldi!», aveva esordito Maggie cinque anni prima sulla scena continentale. Craxi gliene concesse un po’, e ci mise sopra pure la scappatoia dell’opt-out (la clausola grazie alla quale oggi Gran Bretagna, Danimarca e Svezia rimangono fuori dall’euro). Ma in cambio i britannici dovettero permettere l’avvio del processo che portò a Maastricht nel ‘92, e poi alla Banca centrale europea.

Contro la quale, peraltro, lord Norman Lamont, già cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) thatcheriano e oggi vicepresidente del Gruppo di Bruges, non rinuncia a lanciare i suoi strali: «Evviva, siamo rimasti fuori dall’euro. Moneta che non ha mantenuto le promesse e aumenta il rischio di recessione in Eurolandia. La ricchezza pro capite in Gran Bretagna ha superato Francia e Germania. L’economia britannica registra risultati superiori. Abbiamo uno dei regimi monetari migliori del mondo. Sarebbe folle buttar via tutto ciò».

Se il cuore orgoglioso dell’euroscetticismo festeggia a Londra il «mancato disastro dell’euro, al quale sono bastati pochi mesi per perdere un quarto del proprio valore rispetto al dollaro», a Strasburgo sono 70 (su 626) gli eurodeputati che agiscono da quinta colonna del tempio del «nemico». 

Ai 36 conservatori inglesi (nel gruppo del Ppe) si aggiungono infatti i 18 del gruppo Edd (Europa delle democrazie e diversità) e dodici «non iscritti» francesi: metà lepenisti e metà del Mouvement pour la France fondato dall’ex giscardiano vandeano Philippe de Villiers (autore del libro «Vi sono piaciute le farine animali? Adorerete l’euro») dopo il referendum su Maastricht che vide i no al 49 per cento. Nel gruppo Uen (Unione Europa delle nazioni), assieme agli italiani di An che vorrebbero passare nel Ppe, ci sono i tre gollisti di Charles Pasqua.

Nel gruppo Edd i nove francesi anti-Ue sono a loro volta divisi fra i gollisti e quelli del partito «Caccia, pesca, natura e tradizioni» guidato da Jean Saint-Josse. Nigel Farage, ex broker 37enne, è il capo del piccolo Independence party inglese, che grazie al proporzionale ha eletto due eurodeputati nel ‘99, e che lo scorso giugno ha presentato 450 candidati anche alle politiche, ottenendo quasi 400mila voti. 

Ci sono poi i tre danesi del «Folkebevælgelsen mod Eu», il Movimento del popolo contro l’Europa fondato da Jens-Peter Bonde, che fin dagli anni ‘70 prende regolarmente il 20 per cento dei suffragi a ogni elezione europea.

Sarà dura anche per Copenhagen entrare nell’euro: dopo il referendum perduto un anno fa dagli europeisti, l’opinione pubblica non dà segni di resipiscenza. Un’altra eurodeputata anti-Ue danese è la teologa Ulla Sandbaek, del «Movimento Giugno», e contro l’euro è nata appositamente l’associazione «Euronej, keep the krone». Hanno  radice religiosa anche i tre europarlamentari euroscettici olandesi del Gpv, un partito collegato alla chiesa riformata.
 
Stessa musica in Svezia, dov’è il Centerpartiet a tenere alta la bandiera antieuropea. L’unico eurodeputato, Karl Eric Olssche, ha aderito al gruppo liberale. Il referendum sull’adesione alla Ue nel ‘94 passò a Stoccolma per il rotto della cuffia: 52 a 48%. Sulla home-page del sito internet del Partito di Centro troneggia un contatore che misura in diretta «le corone che diamo all’Europa», e che aumentano all’impressionante ritmo di cento al secondo: dall’inizio dell’anno son 120 milioni.

L’antieuropeismo trova adepti anche a sinistra. Fanno infatti parte del Team (The European Alliance of eurocritical Moments) i comunisti austriaci e tedeschi, i greci dell’Ean, i verdi polacchi e, fra i Paesi ancora in lista d’attesa per l’Ue, la Nova Stranka e il gruppo Neutro sloveno, che lo scorso settembre ha organizzato a Lubiana un campeggio giovanile antieuropeo. 

Anche a Tallinn, capitale dell’Estonia, si è svolto in ottobre un congresso euroscettico. E nella vicina Finlandia, unico Stato nordico entrato in Eurolandia, c’è il movimento «Vaihtoetho Eu» (Alternativa all’Eu) della signora Ulla Klotzer. In Irlanda il principale antieuropeista è Anthony Coughlan, professore del prestigioso Trinity College a Dublino.

Certo, agli euroscettici manca un vero leader continentale. Ma sarebbe una contraddizione in termini, un antieuropeo conosciuto in tutta Europa. Avrebbe potuto esserlo sir Jimmy Goldsmith, il brillante miliardario inglese noto in Italia soprattutto come padre dell’ex attrice Clio («La cicala»), nonché della splendida Jemina amica della principessa Diana e moglie del campione pakistano di cricket Imran Khan. Ma Goldsmith, amico di Gianni Agnelli (teneva anche lui la barca a Calvi, in Corsica), è morto di cancro al pancreas nel 1997, a soli 64 anni.

Ha visto la morte da vicino anche Jean-Pierre Chévenement, il socialista francese tre volte ministro e tre volte dimissionario che, tornato alla politica, si è smarcato dal Ps e si candida alle presidenziali di primavera con una piattaforma anti-Ue. 

Appoggiato dal famoso scrittore Max Gallo, i sondaggi gli accccreditano attualmente una popolarità del 40 per cento. Darà fastidio più a Lionel Jospin che a Jacques Chirac. A destra, oltre a Pasqua, De Villiers e Le Pen, a rastrellare gli umori chauvinisti della Francia profonda c’è sempre l’ex ministro e presidente gollista Philippe Séguin.

E in Italia? Nel ‘92 gli unici partiti anti-Maastricht furono Lega, Msi e Rifondazione. Oggi solo Bossi si permette uscite pubbliche contro Bruxelles. Antonio Martino era contrario all’euro, ma più che altro perché ne contestava l’artificialità come moneta di transizione: «O lo si fa in una sola volta, o non lo si fa affatto». 

Ma ormai è andata, l'euro ce l’abbiamo in tasca. Così, a parte qualche dubbio del più federalista di tutti, il Marco Pannella che plaude alle critiche di Ralf Dahrendorf contro l’Europa ridotta a burocrazia e chiede invano più potere per il Parlamento, l’euroscetticismo nostrano è soprattutto culturale.

Il suo principale bastione è l’associazione Italiani Liberi di Ida Magli e Giordano Bruno Guerri. Entrambi commentatori del Giornale, la prima ha un passato da ideologa femminista: «Scrivevo su Repubblica dalla fondazione, ma dopo un pezzo contro il Corano mi hanno cacciata. Stessa sorte all’Espresso: l’ultimo mio articolo, contro la Ue, non l’hanno mai pubblicato». In compenso il suo libro 'Contro l’Europa, tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht' (Bompiani, 1997) è arrivato a 30mila copie e otto edizioni. 

Un discreto successo sta avendo anche 'L’Unione fa la truffa' di Mario Giordano, direttore del tg Studio Aperto, pubblicato da Mondadori tre mesi fa. Un altro polemista anti-Ue è Alberto Mingardi, ventenne «anarcocapitalista» che scrive su Libero. Mancano all’appello i noglobal: fra i loro tanti bersagli Bruxelles figura raramente. Forse perché perché non è negli Stati Uniti.
Mauro Suttora

Tuesday, April 11, 2000

Alberto Mingardi

Il Foglio, 11 aprile 2000

di Mauro Suttora

Mandello Lario (Lecco). Qui, nel paese della Moto Guzzi, vive un piccolo mostro. Si chiama Alberto Mingardi. Un bel film di un regista svizzero, Alain Tanner, si intitolava «Jonas, che avrà vent’anni nel Duemila». Mingardi invece ha 18 anni, ma ha già scritto sette libri. Abita con il padre dentista e la mamma casalinga, ma è collegato costantemente con il mondo attraverso il computer. Anzi, no: ormai è obsoleto pure quello, adesso c’è il telefonino «wap», con Internet e la posta elettronica che arrivano direttamente sul display.

Si definisce «anarcocapitalista»: «Così metto assieme due parole brutte», gongola. Risultato: lo detestano sia gli anarchici, sia i capitalisti. I primi, perché gli anarchici in Italia sono prevalentemente collettivisti, si sentono di sinistra e piuttosto che far comunella con Mingardi e i suoi «maggiori» (i premi Nobel per l’economia Friedrich Von Hayek, Milton Friedman e James Buchanan) scappano a sognare la rivoluzione con gli autonomi dei centri sociali. I secondi, i capitalisti, lo detesterebbero se leggessero i suoi libretti: «Fragole di dinamite», «Anarchici senza bombe», «Copia pure» (contro i diritti d’autore), «Le ragioni del non voto», pubblicati dalla Stampa Alternativa di Marcello Baraghini.

Tutto è cominciato tre anni fa, quando il quindicenne Mingardi, studente del liceo classico Manzoni di Lecco, torna a casa e legge un editoriale di Sergio Ricossa sul Giornale che suo padre compra ogni giorno. Da allora si entusiasma per il liberismo, compra e legge parecchi libri (da Ludwig Von Mises a Murray Rothbard, da David Friedman - il figlio di Milton - a Bruno Leoni), oltre ovviamente a quelli del suo idolo Ricossa. Infine, conosce un singolare gruppo di libertari leghisti raccolti attorno a Leonardo Facco, giornalista della Padania ed editore in proprio a Treviglio (Bergamo).

La scorsa estate si fa mandare a Torino da Facco a intervistare Ricossa per conto del trimestrale «Enclave», rivista che propugna l’anarcocapitalismo. E lì scocca la scintilla. Alberto, emozionatissimo, pensa che il professore pensi: «Ma adesso mandano a intervistarmi anche i bambini?» Invece Ricossa non solo lo apprezza, ma dopo l’intervista accetta volentieri anche la proposta di pubblicare presso l’editore Facco una raccolta dei suoi articoli sul Giornale. Il libro è corredato da un saggio introduttivo di Mingardi e da una lunga intervista-dialogo fra i due, sotto il titolo «Da liberale a libertario, cronaca di una conversione».

Ma l’intraprendente ragazzo non si ferma qui. Dopo aver prefato Ricossa, si fa da lui prefare un proprio libro, «Estremisti della libertà»: una raccolta di interviste ai principali protagonisti del libertarismo internazionale, tutte raccolte esclusivamente via Internet dal «virtual boy» lariano. Così siamo a sei libri. E il settimo? «Si intitola ‘Fuga dallo Stato’ e uscirà, sempre per Facco editore, dopo l’estate», spiega Mingardi.

«Alberto è diventato il bastone della vecchiaia di Ricossa, assieme sono imbattibili», commenta Fabio Massimo Nicosia, proprietario della libreria Libertaria di corso di Porta Romana a Milano. Spiega l’economista torinese: «Oggi tutti si dichiarano liberali, perfino gli ex comunisti. Quindi, per marcare la differenza, io mi definisco libertario. Anche perché se si resta liberali si fa un buco nell’acqua: perfino il grande Luigi Einaudi ammise alla fine che le sue erano “prediche inutili”».

Giordano Bruno Guerri è un altro intellettuale conquistato dall’energia contagiosa di Albertino. A forza di ascoltarlo, durante le vacanze di Natale fa si è fatto trascinare da lui fino in Costa Rica, dove un gruppo di visionari statunitensi ha fondato «Laissez-faire City»: una città libertaria in cui, grazie a Internet, si sperimenta in concreto una vita senza tasse, senza leggi se non quelle del libero mercato fra individui adulti e consenzienti, e dove i ricchi americani trovano conveniente investire i propri capitali per ragioni fiscali.
Una specie di terra promessa tropico-equatoriale dell’utopia della scuola di Chicago friedmaniana, dopo gli esperimenti riusciti in Cile, quelli un po’ meno riusciti nell’Argentina di Carlos Menem (che cercò di privatizzare le strade), e gli approcci abortiti con il presidente peruviano Albert Fujimori. Ai libertari il Costa Rica sta simpatico, oltre che per il clima e le onde del Pacifico, anche perché è l’unico Paese al mondo senza esercito.

Ma, attenzione, questi disincantati anarchici di destra non sono pacifisti: «Crediamo nella difesa individuale, nel libero porto d’armi come negli Stati Uniti, e nelle milizie private». Che sostituiranno gli eserciti statali, come ai tempi dei mercenari lanzichenecchi? «Perché no? Ciascuna comunità potrà scegliere sul mercato fra varie agenzie di protezione cui appaltare la difesa interna ed esterna».

Un ulteriore incontro eccellente ha catapultato tre mesi fa Mingardi a Potsdam (Berlino), all’esclusivo congresso mondiale della Mont Pélerin Society, una specie di Trilaterale o Aspen dei liberisti, fondata da Von Hayek nel 1947 e composta da professori universitari, grandi industriali e ambasciatori. Agli incontri a porte chiuse di questo think tank si può accedere solo per invito, e per essere ammessi come soci bisogna avere partecipato a tre meeting. Gli unici membri italiani sono Ricossa, Antonio Martino e i professori Angelo Maria Petroni, Domenico da Empoli ed Enrico Colombato.

In questo caso il pigmalione di Mingardi è stato Martino, al quale la figlia Alberta, ingegnere a Milano e convinta libertaria pure lei, ha presentato il liceale prodigio. «Mingardi è un ragazzo straordinario», conferma Martino, «siamo in costante contatto tramite posta elettronica. Questa nuova generazione di libertari si sta moltiplicando rapidamente, e il fenomeno è ancora più significativo in quanto fino a pochi anni fa certi autori e le loro idee erano del tutto sconosciuti in Italia. Un grosso merito in questa opera di divulgazione ce l’ha Aldo Canovari, editore di Liberilibri, che ha tradotto in italiano i principali testi del libertarismo classico e contemporaneo».

Anche Canovari è un fan di Mingardi: «L’ho visto in azione a un convegno della destra qui a Macerata, ha pronunciato un intervento spiritoso e brillante che ha fatto rizzare i capelli al povero Marcello Veneziani. Il libertarismo di mercato è l’approdo ineluttabile del dibattito politico, e non solo a destra: c’è un interesse vivissimo pure a sinistra per le nostre idee, ho ristampato il libro di Bruno Leoni, e perfino il mattoncino da 350 pagine di Rothbard vende bene».

Rothbard è l’autore preferito, la bandiera sventolata più di ogni altra dai neolibertari italiani. Anche da Mingardi. Perché? «Perché è riuscito a fondere la grande tradizione della scuola economica austriaca di Mises e Hayek con l’individualismo americano». E qui in Italia, da che parte pendete? La Lega? «Non solo», precisa Mingardi: «Se proprio votiamo, possiamo farlo anche per Forza Italia o per la lista Bonino».

«Per un libertario non è incongruente essere contemporaneamente leghista, liberale o radicale», commenta il professor Massimiliano Finazzer Flory, animatore del Circolo culturale di via Marina a Milano (area Forza Italia), dove la scorsa settimana il professor Lorenzo Infantino della Luiss ha celebrato l’opera di Mises nel quadro di una serie di conferenze sul pensiero lib-lib-lib (liberale, liberista, libertario). Vota Bonino, per esempio, Marco Faraci, altro enfant prodige del libertarismo: pisano, 24 anni, laureando in Ingegneria elettronica, reaganian-thatcheriano sfegatato, è lui l’organizzatore del miglior sito italiano sull’argomento: «Capitalismo e libertà» (www.freeweb.org/politica/capitalismo).

Ottimo è anche un altro sito libertario: il «www.libertari.org» fondato da Mingardi, che ha spedito in America i 70 dollari per la registrazione, ma che non disdegna di imperversare su tutte le liste di discussione di area anarchica e radicale: «Però il miglior forum è il nostro», precisa, «non è moderato e volano gli insulti».
Instancabile poligrafo, quando gli abbiamo telefonato a Lecco Mingardi stava scrivendo un articolo sulle pensioni private per il Borghese di Vittorio Feltri. «È stato proprio a causa di un altro mio pezzo uscito sul Borghese, dal titolo “La pornografia renderà libera la donna”, che una mia fidanzata, turbatissima dopo la lettura, mi ha lasciato», scherza.

Vicedirettore della rivista Élites dello psichiatra napoletano Mauro Maltonato, redattore di Enclave, Albertino collabora anche con l’Opinione di Arturo Diaconale e ha distillato un saggio su Ayn Rand per l’ultimo numero dei Quaderni Radicali di Giuseppe Rippa. Non pago e poco pagato, trova anche il tempo di scrivere (in inglese) per il Laissez-faire City Times: «Che mi dà cento dollari ad articolo», esulta. Soldi che finiscono (subito) in libri americani ordinati via Internet, e nei viaggi: dopo Costa Rica e Berlino, nell’ultimo week-end Mingardi è corso a Lucca per un seminario sulla “scuola austriaca” organizzato dai professori Dario Antiseri e Raimondo Cubeddu.

E il liceo? Fra tre mesi c’è la maturità, nel primo quadrimestre Alberto ha avuto 8 in storia e 6 in filosofia («La mia prof è una comunista sfegatata, viene a scuola col Manifesto, ma ammetto che sopportarmi è difficilissimo: è la mia preferita»), e in italiano, greco e latino naviga sul 7. Università? «Sono indeciso fra economia e commercio e scienze politiche. Mi piacerebbe andare a Stanford, ma costa 60 milioni l’anno». Hobbies? «Faccio regate sul lago con l’Hobycat 16, un catamarano, suonavo il piano ma non ho più tempo, continuo ad ascoltare cantautori come De André e Vecchioni, mi piacciono perfino quelli di sinistra, e poi Wagner».

Nelle settimane scorse ha abbandonato la virtualità, è uscito dal suo computer e si è misurato per la prima volta con una vicenda politica concreta: la protesta di Moreno Simionato, un agricoltore di Domodossola che si è ribellato alle angherie burocratiche. Anche come organizzatore politico, assieme al suo amico Carlo Stagnaro, ha dato ottima prova di sè: è riuscito a coinvolgere parlamentari come Marco Taradash e Sandra Fei, il caso è stato quasi risolto. E così il tanto detestato Stato ha dovuto indietreggiare per la prima volta davanti ad Albertino Mingardi, che ha 18 anni nel Duemila. Non sarà l’ultima.

Mauro Suttora