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Wednesday, April 20, 2011

parla il Mandela libico

INTERVISTA ESCLUSIVA A AHMED ZUBAIR AL SENUSSI, 31 ANNI IN CARCERE SOTTO GHEDDAFI. OGGI È MINISTRO DELLA NUOVA LIBIA LIBERA

dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora

Oggi, 13 aprile 2011



«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».

L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».

È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.

«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».

Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.

Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».

Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».

L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».

Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».

«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».

Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.

«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».

Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».

Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.

Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».

E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».

Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».

Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».

Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».

Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».

Mauro Suttora

Tuesday, April 19, 2011

Feltri, ora fai il pacifista?

BISOGNA AIUTARE GLI INSORTI LIBICI

editoriale su Libero, 19 aprile 2011

di Mauro Suttora

Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.

Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.

Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).

Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».

Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.

Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).

Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.

Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.

Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.

«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.

Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.

Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.

Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.

I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.

Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista

Mauro Suttora