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Wednesday, October 08, 2008

Sinistra in alto mare

La crisi dell'opposizione

Oggi, 8 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Silvio Berlusconi gradito al 60 per cento, Partito democratico che invece rischia di andare sotto il 30 per cento. Questo dicono i sondaggi. Il centrosinistra non è mai stato così male. «La cosa insolita, mai accaduta prima», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer, «non è il consenso a Berlusconi, ma una luna di miele così prolungata con il nuovo governo: ormai sono passati cinque mesi, e il gradimento dei sondaggi non accenna a scendere. Per recuperare, la sinistra deve apparire concreta e propositiva. L’immagine di Berlusconi si basa sulla positività: dalla spazzatura di Napoli all’Ici, dai soldati nelle strade al sette in condotta, dà l’impressione – giusta o sbagliata che sia – di “fare”. Quindi l’opposizione non può commettere l’errore di criticarlo senza proporre soluzioni alternative. Accentuare l’aggressività degli attacchi a Berlusconi non porta a niente».

«Ma la sinistra non ha ragion d’essere se insegue Berlusconi nell’abbraccio del libero mercato», obietta Massimo Fini, editorialista e scrittore. «Se lo fa, la sua crisi è irreversibile, perché la destra il liberismo ce l’ha nei geni. La sinistra, al contrario, deve liberarsi dal mito industrialista della crescita continua del Pil».

«I dirigenti del centrosinistra, poi», aggiunge Fini, «sono rovinati dal loro atteggiamento spocchioso. Sembrano sempre pronti a farti la morale e la lezione. Questo poteva avere un senso ai tempi del vecchio Pci, con personaggi come Amendola che avevano una storia dietro, e quindi inducevano a un rispetto spontaneo. Oggi invece risultano solo irritanti. I politici di destra hanno un approccio più normale e colloquiale, sembrano più disponibili, a cominciare dal loro leader. Sarà anche solo paraculismo, ma appaiono più simpatici. A sinistra invece abbondano i radical chic, con il cuore a sinistra e il portafogli a destra».

Il regista Paolo Virzì ai sondaggi non crede molto: «Saranno poi veritieri? Mi permetto di non fidarmi granché. Più che un governo, quello di Berlusconi mi sembra un grande ufficio stampa che passa il tempo a fare annunci propagandistici, tipo le manette alle prostitute. Non sono d’accordo con Nanni Moretti, in Berlusconi non vedo un lato demoniaco. Per me è soltanto ridicolo vedere un anziano signore conciato così, sempre affaccendato fra puttanelle e avvocati. Quando cadrà, il suo scivolone non sarà tragico: soltanto ridicolo. Quanto alla sinistra, non può imitare Berlusconi lanciando facili slogan e semplificando tutto. La società moderna non è semplice, i problemi sono complicati, non basta battere i pugni sul tavolo come Di Pietro. Berlusconi possiede una macchina mediatica potentissima. Se la sinistra per vincere deve abbassarsi al suo livello di demagogia, snaturandosi, quasi preferisco che perda con dignità».

«Il linguaggio è importante», spiega Pierluigi Bersani, uno dei più amati dirigenti Pd, «Berlusconi vince non perché ha le tv, ma perché il suo linguaggio è in sintonia con i suoi elettori. Noi, per esempio, usiamo molto la parola “dialogo”. Che può andare bene tra le Chiese, oppure tra israeliani e palestinesi, ma non va sui temi politici: un partito di opposizione o è d’accordo col governo su una determinata misura, oppure no. E se è in disaccordo, ha un’altra proposta. Altrimenti il Paese non ci capisce. Non dobbiamo buttar via parole come “sinistra”, “popolare”, “uguaglianza”, ma non bisogna neanche avere paura di parole come “liberalizzazione” e “merito”, perché in economia siamo un partito liberale… Insomma: dobbiamo dire meglio chi siamo».

Ci provi lei, sintetizzando al massimo.
«Un partito di centrosinistra ha alcuni punti irrinunciabili. Il primo è la critica alla realtà: non può essere la destra a dire che il mondo non va bene. Poi: un partito universalistico nella risposta ai bisogni fondamentali come salute, sicurezza, istruzione, che non sono delegabili al mercato. Terzo: un partito popolare nel linguaggio. Quarto: un partito che lotta in nome di valori e di un’ideologia».

Ma le ideologie non sono tramontate?
«E il berlusconismo e il leghismo non sono ideologie? Noi dobbiamo far capire che vogliamo una società in cui non si può star bene da soli. Questo è il bacino naturale della sinistra. La destra fa la sua politica, che non ha nulla di sinistra. E questo Paese rischia di passare da un riformismo senza popolo a un populismo senza riforme. I fannulloni non coincidono con la pubblica amministrazione, e gli zingari non coincidono col problema sicurezza. Noi dobbiamo dire che le riforme le vogliamo fare, ma senza agitare lo spettro dei fannulloni per tagliare pesantemente gli stipendi di tutti. Insomma, andiamo al concreto. Il federalismo, per esempio. Come si dice dalle mie parti, il maiale non è fatto tutto di prosciutto. Il federalismo lo vendono in un modo a Varese, in un altro in Sicilia. Il progetto Calderoli non ha i numeri. Attenti alle armi di distrazioni di massa...»

Consigli non richiesti alla sinistra in difficoltà anche da Paolo Guzzanti, senatore forzista: «Devono fare come Obama o Kennedy: proporre un sogno. La sinistra può vincere solo se è capace di essere sexy, di suscitare grandi fantasie. Naturalmente dev’essere un sogno realizzabile, non campato in aria. Di solito i governi di destra risparmiano e quelli di sinistra spendono, ma oggi soldi da spendere non ce ne sono. Però anche nei campi che sono più i suoi, come scuola, cultura, università, ricerca, la sinistra non ha un progetto».

Magari il centrosinistra sta semplicemente aspettando che, così com’è accaduto nel 2006, Berlusconi cada a causa dei propri errori, più che per merito degli avversari. Non c’è il rischio che il troppo successo gli dia alla testa? «Berlusconi ha un ego giustamente spropositato», scherza Guzzanti, «come capita a tutti i grandi uomini. Ma s’è fatto un bel training in questi quindici anni, cadendo e risorgendo tre volte. No, la sinistra non ci speri: governeremo almeno fino al 2013. Quindi hanno tempo per trovare un progetto che li faccia vincere…»

Mauro Suttora

Friday, June 20, 2008

Festa del cinema a Roma

La Capitale del debito fa pure la Festa del Cinema

Liberiamo la cultura dal Festival dei dittatori

di Mauro Suttora

Libero, 20 giugno 2008

Nei Paesi civili i politici non si intromettono nella cultura. Non la finanziano (con soldi altrui) con la scusa di «aiutarla» o «promuoverla». Infatti negli Stati Uniti non esiste un ministero della Cultura, né quella sciagura che sono gli assessori alla Cultura. La Gran Bretagna ha capitolato soltanto nel 1992, ma il nuovo Ministry of Culture britannico ha soprattutto il compito di preservare biblioteche e monumenti.

Solo i dittatori vogliono controllare la cultura. Per questo Mussolini creò nel ’32 la Mostra del cinema di Venezia. E il festival di Cannes nacque qualche anno dopo perché i francesi erano stufi delle interferenze fasciste e naziste a Venezia.

Dove il cinema funziona c’è poco bisogno di festival. Infatti a Hollywood ci sono gli Oscar, che si risolvono in una serata dopo un voto fra 5.800 professionisti del settore (non di una giuria di una decina di smandrappati). Ed è una cerimonia privata, senza finanziamenti pubblici.
Gli unici due festival di una certa rilevanza negli Usa (Sundance e Tribeca) sono legati all’impegno personale di Robert Redford e Robert De Niro, ad eventi particolari (il Tribeca è nato dopo l’11 settembre 2001 per risollevare le sorti del quartiere), e hanno pochissimi contributi pubblici.

Nei Paesi civili hanno letto Orson Welles. L’unico «aiuto» che i politici danno alle arti è la detassazione dei soldi investiti dai privati. Invece a Roma vige ancora, da duemila anni, la legge del «panem et circenses». Gli italiani trovano normale che chi ha il potere lo mantenga tramite l’elargizione di spettacoli, a carico dell’erario.

Dopo gli imperatori e i papi, a Roma 33 anni fa arrivò Renato Nicolini. Il primo «assessore alla Cultura» d’Italia. L’inventore dell’«estate romana». Un genio (sul serio, senza ironia: infatti i politici professionisti lo hanno fatto fuori). Due anni fa, invece, è nata la festa del Cinema. Una disgrazia. E non solo perché ha scialacquato decine di milioni in una città con sette miliardi di debito e in un Paese in rosso per 1.600 miliardi. Ma perché ha sbagliato tempo e luogo.

Il tempo. «Ma sono pazzi?», ho quando ho saputo che la festa del cinema di Roma si sarebbe svolta solo un mese dopo il festival di Venezia. Cioè di un evento che bene o male richiama l’attenzione mondiale, e dove infatti vengono un sacco di attori famosi. Che certo non ritornano in Italia dopo cinque settimane, anche se hanno un nuovo film da promuovere. Si chiama «cannibalizzazione». Sarebbe come se Parigi organizzasse una sua festa del cinema a giugno, un mese dopo Cannes.

E poi, ottobre. A Roma in ottobre da sempre non si trova una camera d’albergo vuota. E’ altissima stagione. Come ogni Pro loco sa, gli eventi si organizzano invece per tirar su la bassa stagione.
Ma mi hanno spiegato: «L’auditorium è libero solo in ottobre, prima che inizi la stagione dell’orchestra di Santa Cecilia». Quindi: decidono di organizzare un evento internazionale, prenotando decine di camere nei migliori alberghi e rompendo le balle ai turisti veri, quelli che pagano di tasca propria, solo per sistemare i bilanci in deficit dell’Auditorium (un altro esempio di soldi pubblici scialacquati nel faraonismo pseudoculturale dei politici).

Il luogo, infine. «La festa del cinema ha rilanciato l’immagine di Roma», dichiarò il sindaco Walter Veltroni dopo la prima edizione. Come se la città più bella del mondo avesse bisogno di un lifting d’immagine. Ma i festival fateli a Manfredonia, Monza, Monfalcone: tutte cittadine il cui nome giustamente comincia per M…

Dice: «Molte spese sono coperte dagli sponsor». Te li raccomando, gli «sponsor» a Roma. Sono quasi tutte aziende statali, parastatali, o comunque in debito di favori presso i politici. Certo che Lottomatica finanzia tanti circenses a Roma, invitando i papaveri in prima fila: chi gliela rinnova, altrimenti, la concessione per giochi e lotterie? Certo che la Camera di commercio romana è generosissima con Comune, Provincia e Regione: quante sue aziende dipendono da commesse pubbliche, licenze, permessi, varianti al piano regolatore?

La verità è che a Roma c’è poco o nulla di non parastatale. Perfino la Chiesa lo è diventata, con l’8 per mille. Ma lo spettacolo più buffo è la gente di spettacolo che chiede l’elemosina al burocrate. Il cinema italiano che, con le sale semivuote tranne Christian De Sica, Moccia e Pieraccioni, pretende soldi statali per fare film. E protesta se tagliano il Fus (Fondo unico spettacolo), che finanzia il sottobosco di produttori, maestranze, attori, comparse e pierre alla perenne ricerca di favori, lavoretti, consulenzine da dieci o centomila euro. Non a caso il film vincitore della prima festa del cinema di Roma, nel 2006, s’intitolava «Fare la vittima». Qualcuno l’ha visto?

A questo servono le feste del cinema. A regalare i soldi di chi non va al cinema a quelli che fanno un cinema che fa scappare dai cinema.
Sono andato alla prima dell’ultimo film con Nanni Moretti. All’uscita, davanti al cinema Sacher, c’era un caos calmo di auto blu e limousine parcheggiate. Tutte di sinistra. Al neosindaco di Roma Alemanno e al neoministro della Cultura Sandro Bondi un solo augurio: tagliate. Liberate la cultura.

Mauro Suttora

Thursday, March 27, 2008

intervista a Michela Quattrociocche

Michela Quattrociocche, la diva del momento, si racconta in un diario

SCUSA MA TI CHIAMO BRANCIAMORE

«Ho conosciuto Matteo, il mio principe azzurro, lo stesso giorno in cui ho avuto la parte nel film di Moccia», dice Michela. «E in nove mesi si sono avverati tutti i miei sogni»

di Mauro Suttora

Roma, 26 marzo 2008

'Scusa ma ti chiamo amore' di Federico Moccia, in cui è protagonista con Raoul Bova, è il film italiano più visto del 2008. Ha incassato 14 milioni di euro: il doppio di Silvio Muccino, il triplo di Nanni Moretti. Solo Carlo Verdone sta andando meglio. Ma la reginetta degli incassi, la debuttante Michela Quattrociocche, resta con i piedi per terra: «Sto studiando recitazione. A settembre mi iscrivo all’università, Scienze della comunicazione», dice mentre posa per le foto.

Ha scritto un libro: 'Più dei sogni miei' (Mondadori). È il racconto degli ultimi nove mesi della sua vita. Dal 21 giugno 2007, quando, appena finito lo scritto di maturità, le squilla il cellulare: la parte è sua. È una data magica, perché la sera Michela conosce per caso l’amore della sua vita: Matteo Branciamore. Coincidenza delle coincidenze, anche Teo fa l’attore, ne 'I Cesaroni'.

Il libro di Michela è la cronaca della loro storia, finora tenuta abbastanza nascosta. E lei confessa addirittura: «Se non avessi conosciuto l’amore attraverso di lui, forse non sarei stata in grado di interpretarlo nel film». All’inizio lui la conquista con questa frase: «Ho letto la biografia di Kakà. Mi piace perché è di sani principi, con la moglie si sono scelti davvero». E lei scrive: «Sono incredula. È strano sentir parlare un ragazzo così... ascoltare da lui cose che penso io. Le penso e non le dico, sennò mi rimproverano di essere all’antica... Ebbene sì. Credo nell’amore, nel matrimonio e sono fedele. Allora? A me non interessa “fare esperienze prima di fidanzarmi”, come si dice. Non mi frega di girare di ragazzo in ragazzo».

Insomma, altro che «mocciosa» (così sono soprannominate le giovani della generazione Moccia): Michela è una puritana. Teo le piace perché non le fa la corte: «Non fa il provolone, non fa il piacione e non mi fa i complimenti». E neppure la tocca: «È meraviglioso», annota, «dev’essere speciale uno per farmi stare zitta, in macchina, di notte, senza saltarmi addosso... Li riconosco quelli che ammucchiano le parole per riempire il tempo, prima di partire all’attacco. Odio chi ti rimorchia senza provare a conoscerti».

Nuovo appuntamento, arrivano le cinque del mattino. «Qualsiasi cosa diversa da un bacio ora sarebbe fuori luogo», ammette Miky. Lui si limita a sussurrarle all’orecchio una frase romantica: «È stato surreale, ma bello».
«La riconosco, è la frase che Hugh Grant dice a Julia Roberts in Notting Hill. Svengo. Resto in piedi per orgoglio. Mi rimanda a casa senza toccarmi. Per la prima volta qualcuno mi rispetta. Stiamo cuocendo a fuoco lento ed è stupendo». Risultato: da un mese Miky e Teo sono andati a vivere assieme. «Sono felicisssima, anche se ora litighiamo un po’ di più», dice lei.
Ecco uno degli ultimi capitoli del libro, in cui Michela annuncia a mamma e papà che andrà a convivere col fidanzato.

M.S.

IL CANTO DELLE SIRENE

Se il film non va, fa niente. Ammetto che è tostissima allontanarsene, è come una droga: una volta provato non puoi più farne a meno. Se pensi a quale mestiere vorresti fare dopo avere girato un film, ti fa schifo tutto, è tutto privo di magia. Sei rintontito, svuotato. Non so a cosa paragonarlo (...). L’idea che il cinema diventi il tuo lavoro è talmente ammaliante che cancella tutto il resto. È il canto delle sirene, e d’istinto ti ci butteresti a capofitto (...). Sto aspettando che torni a pranzo mamma per dirle che andrò a convivere con Teo. Adesso sì che sono tesa. E non solo perché non ho idea di quale sarà la sua reazione. Dal momento che lo dico, lo dico sul serio. Non torno indietro. Significa rinunciare a essere viziata e rimboccarmi le maniche. È un passo da gigante (...). È più difficile di quanto pensassi. Lei sa tutto di me. Anzi lei sa più cose di me di quante ne sappia io. Se ho un dubbio nascosto in qualche angolo del cuore, me lo tira fuori in un secondo.

Di questo ho paura. Affrontarla è come affrontare me stessa, e temo di scoprire che non sono per niente sicura di quello che sto facendo. Spostiamo il centrotavola, apparecchiamo, nonna ha preparato i tortellini.
«Mami, ti ricordi l’attico meraviglioso che dovevano prendere Alessia e Luca?». Con lei è inutile girarci troppo intorno, tanto ti ferma al secondo giro.
«Sì». «Ci andiamo a vivere io e Teo». Sulla frase ci metto pure una faccia di supplica che mi esce spontanea. Supplica di non arrabbiarsi, di non dirmi quello che pensa in fondo in fondo.
«Così impari a fare qualcosa per casa, almeno», dice seria. Poi scoppia in una risata fragorosa (...) e mi viene ad abbracciare.

al ristorante con papà

Adesso tocca dirlo a papà. Sostiene che lui, come il padre di Niki, non giudicherebbe Alex dall’età, ma lo vorrebbe prima conoscere e, se scoprisse che i suoi sentimenti sono veri, lo accetterebbe (...). Voglio proprio vedere se accetta i sentimenti di me e Teo. Gli ho dato un appuntamento al ristorante. Arriva, col suo pizzetto grigio e il maglione a V viola, il sorrisetto storto di chi si aspetta l’ennesimo tiro mancino. Ho passato il primo test. Sono pronta.
«Papy, è vero che reagirai bene?». «Non mi freghi più». «Giuro che devo dirti una cosa vera». «Ti vedo strana, infatti. O è vera o sei diventata una bravissima attrice». «Vado a convivere con Teo».

Gli va di traverso l’acqua. Fissa la tovaglia, poi comincia a disegnare nel vuoto piccoli cerchi con il bicchiere. Non so capire se è un buon segno. «E dove?». Intanto non gli sono usciti gli occhi di fuori, ed è già una cosa. Le domande sono un’arma a doppio taglio. A seconda delle mie risposte deciderà se è d’accordo o meno. «In quell’attico che doveva prendere Alessia (...)». «E quando?». «Entriamo il 14 febbraio, San Valentino, pensa che coincidenza». «Sono contento per te. Ti vedo presa». «Innamorata papà, non presa. Innamorata». «Va bene, va bene. È giusto. Io credo nell’amore». «Ah sì? E credi pure nel matrimonio?». Mi pento subito. Gliel’ho detto con rancore. Ogni tanto mi escono rigurgiti della loro separazione. Non posso farci niente. «Il fatto che il mio non abbia funzionato non significa non crederci più». «Allora sei d’accordo?». «Basta che ogni tanto mi inviti e non sparisci».
È fatta.

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore