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Sunday, February 20, 2005

Peggy Guggenheim

INTERVISTA A KAROLE VAIL, LA NIPOTE

Oggi, febbraio 2005

dal nostro corrispondente a New York.

«Nella camera da letto dove dormivo era appesa L’Aurora di Paul Delvaux, che sarà in mostra a Roma. Ma quelle donne nude ritratte per metà come tronchi d’albero non mi facevano così paura quanto i quadri surrealisti di Max Ernst...»

Se le ricorda bene, Karole Vail, le tante vacanze estive e pasquali trascorse a casa della nonna Peggy Guggenheim a Venezia negli anni Settanta, in quel palazzo Venier dei Leoni oggi trasformato in museo. Lei era un’adolescente, abitava a Parigi col padre Sindbad e andava al liceo dalle suore. La tremenda nonna Peggy, che neppure a settant’anni aveva perso il gusto per la provocazione, le rivolgeva domande imbarazzanti: «Hai un fidanzatino? Ci sei già andata a letto?» Poi, quando la nipote aveva diciott’anni, le propose scherzando: «Perchè non ti metti con tuo cugino Sandro?» Se la portava in giro per i canali in gondola, la faceva scendere da sola davanti a qualche chiesa e poi, tornata a casa, pretendeva una dettagliata relazione sulle opere d’arte che la ragazza aveva visto. «Potete immaginare che voglia avessi io allora di studiare gli affreschi della scuola veneziana...», ride la signora Vail, «ma per mia nonna ormai la pittura classica italiana era diventata molto più interessante di quella contemporanea, alla quale pure aveva dedicato tutta la sua esistenza».

Scene di una vita inimitabile, quella della più importante e famosa collezionista d’arte del Ventesimo secolo, italiana d’adozione (visse a Venezia dal 1947 alla morte, nel dicembre ‘79). Ora 75 fra le più importanti opere provenienti da varie sedi del museo Guggenheim (New York, Venezia, Bilbao) sono in mostra per tre mesi a Roma, nelle Scuderie del Quirinale a partire dal 3 marzo. E Karole Vail, che lavora per il Guggenheim e nel ‘98 curò la grande mostra per il centenario della morte della nonna, ci aiuta a ripercorrere le tappe della vita di quella che fu anche una straordinaria mecenate. Peggy, infatti, non si limitava ad acquistare le opere di un artista promettente (da Vasily Kandinsky a Marcel Duchamp, da Francis Bacon ad Alexander Calder): si occupava di loro, li frequentava, si faceva frequentare (a volte anche intimamente: pare fosse di un appetito sessuale insaziabile). Le sue case di Parigi, Londra, New York e Venezia sono state per più di mezzo secolo il crocevia dell’intellighenzia culturale e politica internazionale.

«Il mio pittore preferito era Jackson Pollock», ricorda per esempio Karole Vail (nella mostra romana sono esposte varie opere dell’artista americano). Ma Pollock divenne famoso solo negli anni Cinquanta. Prima era misconosciuto, vendeva pochissimo. Ciononostante, Peggy Guggenheim negli anni Quaranta credette in lui, gli organizzò ben quattro mostre personali nella propria galleria newyorkese (la leggendaria “Arte di questo Secolo” sulla Cinquantasettesima Strada, proprio di fronte all’attuale libreria Rizzoli), gli fece dipingere un “murale” a casa propria e gli pagava uno stipendio mensile. Fra i giovani da lei valorizzati ci fu anche il padre di Robert De Niro, pittore che in seguito raggiunse buone quotazioni.

La vita di Peggy Guggenheim fu scandalosa. «Nacque da due delle famiglie ebree più ricche di New York, i proprietari di miniere Guggenheim emigrati dalla Svizzera, e i banchieri Seligman», racconta Karole Vail. «Allo scoppio della Prima guerra mondiale i Guggenheim controllavano l’85 per cento della produzione mondiale di argento, rame e piombo. Benjamin, padre di Peggy, passava il tempo a Parigi tradendo la moglie Florette e lavorando nella ditta che installò gli ascensori sulla torre Eiffel. Morì nel naufragio del Titanic, dopo aver dato il proprio giubbotto di salvataggio e il posto in scialuppa all’amanteche viaggiava con lui, e che nell’elenco dei passeggeri figurava come “signora Guggenheim”. Peggy, rimasta orfana a 14 anni, soffrì molto per la morte del padre che adorava. Lo cercò sempre negli uomini che amò. A 22 anni cercò di ingentilire il proprio naso a melanzana con una plastica, ma l’operazione fallì e da allora il naso si trasformò in una specie di barometro: “Quando sta per arrivare il cattivo tempo si gonfia”, scrisse in una delle sue ben tre autobiografie.

«Durante i sei mesi in cui lavorò a New York nella libreria radicale del cugino, che ispirò a Ernest Hemingway un personaggio in Fiesta, Peggy conobbe mio nonno Laurence Vail, un intellettuale bohemien franco-americano. Si trasferì a Parigi, lui le chiese la mano in cima alla torre Eiffel, si sposarono nel ‘22 e fecero il viaggio di nozze da Capri a Saint Moritz. A Parigi negli anni Venti frequentarono gli ambienti artistici, ebbero due figli - mio padre Sindbad e Pegeen - e litigarono molto. Si lasciarono nell‘estate del ‘28, quando mia nonna dopo aver ballato sui tavoli di un locale a Saint Tropez si mise con lo scrittore John Holms. Ma nel ‘34 Holms morì durante una banale operazione, perchè il livello alcolico nel suo sangue interagì con l’anestetico causandogli un collasso.

«Nel ‘37 Peggy Guggenheim aprì la sua prima galleria d’arte a Londra e conobbe Samuel Beckett, col quale ebbe un’amicizia intima. Espose le opere di Jean Cocteau, Kandinsky, René Magritte, Piet Mondrian, e degli scultori Constantin Brancusi ed Henry Moore. Poi arrivarono Yves Tanguy e Max Ernst: del primo si innamorò, il secondo lo sposò. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Peggy, tornata a Parigi, approfittò del crollo dei prezzi delle opere d’arte per comprare un quadro al giorno. Fra questi, i Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì e Francis Picabia ora in mostra a Roma, e due sculture di Alberto Giacometti».

«Dopo l’invasione nazista della Francia», continua Karole Vail, «mia nonna si rifugiò a New York con la sua collezione, e aiutò vari intellettuali come André Breton a scappare negli Stati Uniti. Nel frattempo suo zio Solomon aveva aperto a New York il museo della Pittura non-Oggettiva, predecessore dell’attuale museo Guggenheim, ma Peggy lo definì “una presa in giro”. Nel ‘42 aprì la propria galleria-museo Art of this Century, ma nel ‘47 volle tornare nella sua Europa e scelse Venezia come dimora definitiva. Alla Biennale del ‘48 la Grecia, in preda alla guerra civile, le prestò il proprio padiglione che altrimenti sarebbe rimasto vuoto, e lì Peggy espose la sua collezione. Fu un successo senza precedenti: gli italiani reduci dal fascismo non avevano mai visto tanta arte astratta e surrealista, e gli europei conobbero le avanguardie americane che avrebbero dominato la scena artistica degli anni Cinquanta.

«Peggy Guggenheim conquistò l’ammirazione dei veneziani, che la soprannominarono “Ultima dogaressa”. Nel suo palazzo Venier passavano a farle visita tutti gli artisti più famosi del mondo: attori, scrittori, musicisti, da Marlon Brando a Ian Fleming, da Eugenio Montale a Patricia Highsmith, dal futuro Lord Snowdon a Igor Stravinsky. Il libro degli ospiti è una lista infinita del gotha della cultura mondiale: nessun personaggio passava da Venezia senza fermarsi a far visita a mia nonna. E lei, a sua volta, accompagnava la propria collezione nelle numerose mostre all’estero, da Londra a Stoccolma, da Amsterdam a Parigi. Andò anche a New York a vedere l’edificio rotondo che Frank Lloyd Wright aveva progettato nel ‘58 per il museo Guggenheim: “Un grande garage che si attorciglia come un serpente maligno”, lo liquidò mia nonna. Ciononostante, nel ‘76 accettò che la propria collezione si unisse a quella dello zio Solomon Guggenheim. Nel ‘79, pochi mesi prima di morire, accolse a Venezia lo scrittore Gore Vidal con Paul Newman e sua moglie Joan Woodward. Peggy si entusiasmò quando Newman accettò di baciare una delle sue domestiche: «Così in cambio lei resterà con me ancora per un anno», disse con la sua solita lingua tagliente. Morì in un ospedale di Padova due giorni prima di Natale. Proprio quel giorno Venezia fu invasa dall’acqua alta. Mio padre e mia madre si preoccuparono di mettere in salvo la sua collezione».

Fotografiamo per Oggi Karole Vail di fronte a quel museo Guggenheim di New York che sua nonna aveva disprezzato, o finto di disprezzare. Forte e decisa come Peggy, posa imperterrita per il nostro fotografo a dieci sottozero. Di fronte, Central Park è invaso dalle tende arancioni di Christo: «Il primo grande evento d’arte di questo secolo», lo ha definito il New York Times. Quanto alla grande arte del secolo scorso, quella targata Guggenheim è in mostra a Roma da giovedì: un’occasione unica per gustarla.

Mauro Suttora

Saturday, February 07, 1987

Paul Simon in concerto a Milano

E ADESSO AI RAZZISTI GLIELE SUONO IO

Europeo, 7 febbraio 1987

Musica rock: passa dal Sud Africa l' ultimo successo di Paul Simon

Ha registrato nel ghetto di Soweto . Invece di Garfunkel ha voluto al suo fianco venti musicisti neri . Eppure e' gia' in cima alle classifiche dell' America reaganiana . E ora sbarca in Italia in tournee.

di Mauro Suttora

A 45 anni e' riuscito a piazzare una poderosa zampata , a farsi largo fra i sette milioni di copie vendute da Whitney Houston e i tre milioni dell' ultimo disco di Madonna : Paul Simon , raffinatissimo cantautore ebreo newyorkese , e' ritornato da quattro mesi ai primi posti delle classifiche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna . Il suo ellepi' 'Graceland' sta veleggiando verso i due milioni di copie vendute in tutto il mondo ; in Italia per ora sono 25mila , ma dopo l' apparizione al festival di Sanremo il 6 febbraio e il concerto di Milano il 7 e' prevedibile un boom anche da noi .

Osannato dall' unanimita' dei critici d' America e d' Europa ( " E una finestra sul cuore , richiede da parte dell' ascoltatore un alto livello di sofisticazione " , ha decretato Time) , si pensava che Graceland facesse la fine degli altri rari dischi (due negli ultimi dieci anni) distillati da Simon dopo la separazione , nel 1970 , da Art Garfunkel , suo compagno sia di vita che d' arte : musica intellettuale per pochi intenditori .

E invece no : il cocktail fra la dolce malinconia dell' ex " Mister alienation " degli anni Sessanta e il virulento rock dei venti musicisti sudafricani che accompagnano Simon nel disco , nonche' nell' attuale tournee , si e ' rivelato esplosivo , e ha affascinato anche le schiere di teenager nelle cui mani riposa il destino commerciale di ogni prodotto discografico . Graceland e' stato acclamato dalla critica di due continenti ( " Un prodigio di suoni e di sensazioni " ; " Il piu' bel trip musicale degli anni Ottanta " : tanto per stare ai titoli dei maggiori quotidiani inglesi e americani) . E quel che piu' conta , gia' da mesi staziona nelle parti alte delle classifiche di vendita di mezzo mondo .

Gran tempista , Paul Simon . Il suo disco e' arrivato al momento giusto , nel pieno della moda per la musica africana e sudafricana in particolare . " Stewart Copeland , il batterista dei Police , aveva realizzato un disco in Africa gia' due anni fa , ma passo' completamente inosservato " , ricorda Alessandro Robecchi , critico musicale dell' Unita . Invece adesso la campagna per le sanzioni al Sud Africa e' assai popolare fra i giovani inglesi e americani , e si e' avvalsa di Sun City , disco collettivo di protesta contro il razzismo , organizzato da Little Steven , ex chitarrista di Bruce Springsteen . In ottobre , poi , e' arrivato Tutu , l' ultimo lavoro di Miles Davis dedicato al vescovo sudafricano .

Graceland non contiene nulla di politico tranne il video Homeless , un coro senza strumenti dove Simon e un gruppo vocale nero cantano , evocando l' apartheid : " Siamo senza casa ci sono molti morti stanotte potrebbe toccare a te " . Il messaggio antirazzista pero' e' implicito , e sta nel modo stesso in cui il disco e' nato . Simon si e' recato a registrare per un mese in Sud Africa con un complesso del ghetto nero di Soweto , poi ha procurato i passaporti al bassista , al chitarrista e al batterista per completare le incisioni a New York . " Cosi' loro hanno subito lo stesso shock culturale che io avevo sperimentato a Johannesburg : per esempio , si meravigliavano di poter circolare liberamente senza dover passare ogni sera per un controllo dalla polizia di Manhattan " , racconta Simon .

Paul Simon e' sempre stato un eclettico . In Bridge over troubled water (1970) , oltre a una bossa nova (So long , Frank Lloyd Wright , omaggio al grande architetto morto da poco) , era contenuta la famosa El condor pasa , con accompagnamento dei peruviani Los Incas . " Avevo ascoltato la melodia a Parigi durante un loro concerto . Ho aggiunto le parole e loro ci hanno permesso di utilizzare la base musicale " , ricorda Simon . Un anno dopo , nel suo primo album solo , il cantautore se ne va in Giamaica a registrare Mother and child reunion con un gruppo reggae , anticipando il successo di Bob Marley in America ed Europa .

Con lui collabora spesso il percussionista argentino Airto Moreira , e in Hearts and bones (1983) fa un' apparizione anche il chitarrista jazz Al Di Meola . In quello stesso disco e' contenuto un pezzo scritto e arrangiato da Philip Glass , musicista dell' avanguardia sperimentale .
In Graceland c' e' una canzone (That was your mother) registrata non in Sud Africa ma in Louisiana (dove Simon era gia' andato nel 1973 per l' ellepi' There goes rhymin' Simon) , assieme al complesso Good Rockin' Dopsie and the Twisters : e' incredibile come il suono della fisarmonica suonata dal signor Dopsie risulti uguale a quello di uno strumento simile utilizzato in un altro pezzo (The boy in the bubble) dal sudafricano Forere Motloheloa .

" Questo non mi sorprende affatto " , spiega l' etnomusicologo Michele Straniero , " perche' regioni apparentemente lontanissime ma i negri della Louisiana provengono comunque dall' Africa presentano spesso sorprendenti analogie nell' ispirazione musicale e anche negli strumenti . Basti pensare , nella famiglia degli aerofoni , alla somiglianza fra le cornamuse scozzesi e le zampogne ciociare " .

A Simon non dispiace spiegare fino all' estremo dettaglio come nasce la propria musica . A New York ha perfino tenuto alcune lezioni universitarie di " songwriting " . Le parole ? " In genere , quando compongo una melodia , mi fermo sulle prime che mi vengono in mente . Musicalmente mi piacciono molto le vocali ' ' u' ' e ' ' a' ' , le consonanti ' ' t' ' e ' ' k' ' , le parole che iniziano con ' ' g' ' e ' ' l' ' . Da questo flusso di coscienza nasce una frase , e attorno ad essa costruisco la canzone . L' ideale e' quando parole e musica vengono fuori simultaneamente : questo e' stato il caso dell' inizio di The boxer ( " I am just a poor boy . . . " ) o della frase " Like a bridge over troubled water I will lay me down " .

Non tutto e' pero' cosi' casuale o manierista nella poetica di Simon (che era la mente del duo con Garfunkel , il quale si limitava all' arrangiamento e al canto , con quella sua incredibile voce simile a un organo musicale) . La qualifica di " cantante piu' intelligente del rock americano " Simon se l' e' meritata ampiamente grazie a canzoni come Sound of silence , dove descrive l' alienazione : " Gente che parla senza dire gente che ascolta senza sentire . . . " ) , I am a rock , in cui affronta la solitudine ( " . . . Ho i miei libri e le mie poesie che mi proteggono/ Corazzato nella mia armatura, nascosto nella mia stanza, sicuro dentro di me, non tocco nessuno e nessuno mi tocca/ sono una pietra sono un' isola . . . " ) , o come Kathy' s song , canzone per l' amore lontano ( " La mia mente e' distratta/ i miei pensieri sono a molte miglia da qui/ giacciono con te mentre dormi/ ti baciano quando inizia il giorno " ) .

Chi ha visto il film 'Il laureato' non si scordera' facilmente la prima scena di Dustin Hoffman sulla scala mobile dell' aeroporto , accompagnato dalle note di Sound of silence , o la fuga finale sull' Alfa Romeo rossa con l' amata rubata in extremis al promesso sposo , e con la musica entusiasmante di Mrs . Robinson .

Nei concerti assieme a Simon non ci sara' Garfunkel : dopo la " reunion " del 1981 , che ha prodotto un vendutissimo disco " live " , le loro strade si sono separate di nuovo . Ma ormai Simon & Garfunkel sono entrati nel ristretto novero dei classici : la loro musica cesellata piace a tutti , nonni e bambini . Niente muscoli , niente sudore alla Bruce Springsteen : nei concerti di Paul Simon a farla da padrone sara' il lucido ritmo , calcolato al millimetro , di un cervello piu' europeo che americano .

Mauro Suttora