Wednesday, January 28, 2015

Cognato di Fini vende casa Monaco

TULLIANI CHIEDE UN MILIONE E MEZZO DI EURO PER L'APPARTAMENTO DI MONTECARLO CHE HA DISTRUTTO LA CARRIERA DI GIANFRANCO FINI

Montecarlo (Monaco), gennaio
Chi si rivede. Giancarlo Tulliani, il cognato di Gianfranco Fini, sta cercando di vendere la famosa casa di Montecarlo. Sì, proprio quella che contribuì a distruggere la carriera politica dell’ex presidente della Camera. L’appartamento di boulevard Princesse Charlotte è sul mercato al prezzo di un milione e 590mila euro. Un bell’aumento, rispetto ai 300mila euro incassati da An (Alleanza nazionale) nel 2008, quando la comprò una misteriosa società dell’isola di St. Lucia (Caraibi).

Tutto era iniziato quando la ricca contessa Anna Maria Colleoni lasciò l’appartamento di 70 metri quadri in eredità al partito per cui simpatizzava. Allora Fini era segretario di An, e il patrimonio immobiliare dell’ex-Msi era notevole. Poiché a Montecarlo non c’era necessità di aprire una sezione del partito, sembrava plausibile «realizzare» il lascito, vendendolo.

Peccato che dietro la società caraibica Printemps e al suo titolare James Walfenzao si celasse Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, compagna di Fini e madre delle sue due figlie. Nell’estate 2010 scoppiò lo scandalo. Fini aveva rotto con Silvio Berlusconi di cui era il delfino, e i giornali berlusconiani lo attaccarono rivelando che nella casa di Montecarlo regalata al partito faceva la bella vita suo cognato.

Fini è rimasto presidente della Camera fino al 2013, fondò il partito Futuro e libertà, sembrava destinato a grandi cose. Pare che a sinistra gli avessero promesso perfino la presidente del Consiglio in cambio della rottura con Berlusconi. Insomma, una specie di Angelino Alfano ante litteram.

Ma le immagini del cognato che scorrazzava con la Ferrari nel principato di Monaco lo indebolirono. Nonostante i cinquanta parlamentari usciti dal Pdl (Popolo delle libertà), il partito di Fini, alleato di Mario Monti, alle politiche del 2013 prese soltanto lo 0,4 per cento. Lo stesso Fini non è stato eletto, dopo trent’anni da deputato. Insomma, un disastro. Fine della  sua carriera politica.

Dolce vita sulla costa con la sosia di Belen

Ora che si sono calmate le acque, a cercare di «realizzare» riecco il cognato. Il quale, peraltro, non ha mai abbandonato la dolce vita di Montecarlo, anche se per quattro anni si è nascosto ai flash dei paparazzi. La scorsa estate l’ha passata in compagnia della bellissima Federica Papadia, sosia di Belen, una macchinista della metropolitana di Roma assurta a una certa notorietà per avere tentato la carriera politica prima con Pier Ferdinando Casini e poi con Alfio Marchini, candidato sindaco di Roma.

Entrano ed escono da hotel di lusso come il Fairmont e il Metropole, sulla piazza del Casinò, con posti in prima fila alla gara di Formula Uno: «Sono reduce da un fantastico week end nel Principato più chic del mondo», scriveva entusiasta la Papadia sul suo blog, «con l’occasione del Grand Prix di Monaco ho potuto osservare da vicino il lusso, il jet set e l’atmosfera da vip». Al suo fianco, Tulliani.

Il quale ora ha affidato la vendita della casa, rimasta vuota in questi anni, all’agenzia immobiliare Mirage. Sul sito internet si possono ammirare gli interni, ed è pubblicata anche la piantina. Telefoniamo, ci dicono che l’appartamento è stato appena venduto. In realtà, sussurrano nell’ambiente degli agenti immobiliari, Tulliani non vuole acquirenti né dall’Italia, né dalla Svizzera italiana: troppo clamore. Spera in russi o arabi, ma dopo qualche mese di tentativi infruttuosi ha dovuto abbassare la quotazione dai due milioni iniziali a 1,6 milioni. «A 1,4 la vende», dicono.

Intanto, a Roma il 29 gennaio ci sarà l’udienza della causa civile intentata contro Fini da Francesco Storace e da un avvocato ed esponente del suo partito (La Destra), Marco Di Andrea. Motivo del contendere: la «svendita» della casa a 300mila euro, rispetto al reale valore di mercato.

Ma in politica le cose si muovono in fretta. Pare che dopo il recente riavvicinamento con Fini, a Storace questa causa civile non stia più tanto a cuore. Anche perché quella penale è già finita nel nulla: nessun reato.
Mauro Suttora

Wednesday, January 21, 2015

Dati falsi sui dipendenti pubblici


LA TRUFFA DEL PARAGONE CON LA GRAN BRETAGNA

di Mauro Suttora

Oggi, 14 gennaio 2015

Perfino contarli è difficile. Quanti sono i dipendenti pubblici in Italia? E, soprattutto: sono troppi, pochi, giusti? Circolano dati fantasiosi, secondo cui noi ne avremmo «soltanto» 3,2 milioni, contro per esempio i 5,2 milioni della Gran Bretagna, Paese che ha più o meno lo stesso nostro numero di abitanti.

Peccato che il paragone sia campato in aria, per due motivi: i britannici sono un milione in meno, e i nostri un milione in più. Nel Nord Europa, infatti, il part-time è molto più diffuso che in Italia. E le stesse statistiche ufficiali di Londra avvertono che i loro lavoratori pubblici si riducono a 4,2 milioni in «full-time equivalent», cioè dividendo il totale delle ore lavorate per 36 (l’orario settimanale a tempo pieno). È evidente, infatti, che due dipendenti a 18 ore settimanali equivalgono a uno a tempo pieno.

Ma c’è un’altra grande disomogeneità fra i due dati. Nel Regno Unito sono giustamente considerate «pubbliche» intere categorie che noi invece, chissà perché, definiamo «private». Gli autisti dei bus, per esempio. Dipendono da società formalmente autonome (Transport for London, Atm a Milano, la romana Atac), ma sono lavoratori pubblici, poiché i deficit delle loro società sono colmati dalle tasse. E così postini, ferrovieri, spazzini, lavoratori dell’Anas e delle municipalizzate.

Perfino i 13 mila dipendenti Rai sono pubblici. Però, chissà perché, le nostre statistiche non li definiscono tali. In realtà, calcolando tutti questi lavoratori di aziende che dipendono finanziariamente da Stato ed enti locali, i dipendenti pubblici italiani salgono oltre i quattro milioni. Come in Gran Bretagna.

Wednesday, January 14, 2015

I traghetti sono sicuri?

DOPO LA TRAGEDIA DEL PATRASSO-ANCONA, ECCO I SEGRETI DELLA SICUREZZA

di Mauro Suttora

Oggi, 7 gennaio 2015

La prossima volta potremo prendere un traghetto o una nave da crociera tranquilli, o rischiamo di svegliarci alle quattro del mattino con la cabina invasa dal fumo e il pavimento arroventato da un incendio?

Gli scenari da incubo vissuti dai 450 passeggeri della Norman Atlantic, la nave Grecia-Ancona bruciata il 28 dicembre, ci insegnano molte cose. Le scialuppe di salvataggio, innanzitutto. «I passeggeri sono abituati a guardarle annoiate sui ponti, e magari a maledirle perché ostruiscono la vista», ci dice Paolo De Luca, comandante Tirrenia in pensione. «A volte i loro argani sembrano bloccati dall’ultima mano di pittura data per rinfrescare la nave, e le catene e gru che servono per calarle in mare paiono troppo grosse per funzionare».

Invece, è dalle quattro maxiscialuppe della Norman Atlantic che sarebbe dovuta arrivare la salvezza per tutti, anche per gli undici passeggeri morti e la dozzina di dispersi. Ciascuna ha una capacità di 150 persone, 600 in totale, quindi più che sufficienti per trasportare sia i passeggeri, sia i 44 membri dell’equipaggio. 

Cos’è andato storto? Quasi tutto. Le istruzioni per le procedure d’emergenza sono state trasmesse dagli altoparlanti del traghetto alla partenza, in italiano, greco e inglese. «Ma, come sempre, nessuno le avrà ascoltate», dice de Luca. Si spiegava quali sono i punti di raccolta dei passeggeri, verso quali ponti dirigersi, dove prendere i giubbotti di salvataggio: «Quelli sono stati distribuiti bene, quasi tutti li indossavano».

All’inizio il comandante sperava di domare l’incendio, e quindi di evitare l’evacuazione. Quando però la situazione è apparsa irrecuperabile, due scialuppe su quattro erano inservibili: si trovavano sul lato colpito dall’incendio, si alzavano fiamme sulla fiancata, tutto era oscurato dal fumo, e il mare in forte tempesta aveva inclinato la nave. 

«Avevamo paura che affondasse», raccontano i passeggeri. Delle due calate in acqua, una è stata riempita con appena 60 passeggeri e cinque marinai. Che avrebbero dovuto essere solo tre: di qui l’accusa di non avere rispettato la regola sacra del mare sulla precedenza ai passeggeri.

«Ma quando si parla di equipaggio, nelle navi moderne, chiariamo che la maggioranza assoluta non è composta da marinai», precisa il comandante De Luca. «Ormai, soprattutto nelle crociere, il personale preponderante è quello per i servizi, dalle cucine ai bar, dalle pulizie all’intrattenimento. Certo, anche loro vengono addestrati per le emergenze. Ma non è gente specializzata, come i naviganti di lungo corso che imbarcavamo una volta sui nostri traghetti. Soprattutto napoletani, con grande esperienza. Gente che magari aveva doppiato Capo Horn sui mercantili, e che poi aveva ripiegato sul Mediterraneo per stare vicino a casa».

Ora invece abbiamo immigrati poco pagati, che parlano male sia l’italiano sia l’inglese, e che nel pericolo vanno nel panico: pensano soprattutto a salvare la propria pelle. Un altro episodio spiacevole del disastro Norman Atlantic, silenziato per non scivolare nel razzismo, è stato quello dei passeggeri uomini che non hanno dato la precedenza a donne e bambini nell’imbarco sugli elicotteri: si trattava di iracheni e afghani, poco adusi alla cavalleria verso il genere femminile.
     
In ogni caso, poche ore dopo l’incendio circa 170 passeggeri erano riusciti a lasciare la nave sulle scialuppe. Ma il tragico è che proprio alcuni che avevano telefonato a casa col cellulare da una scialuppa ora risultano dispersi. In particolare il camionista italiano Carmine Balzano. La loro imbarcazione si è capovolta nel mare in tempesta? L’enorme guscio vuoto di una di esse è stato trovato su una spiaggia albanese.

L’aspetto più inquietante del disastro è che la Norman Atlantic era un traghetto modernissimo. Varato dai cantieri di Rovigo appena cinque anni fa, quindi si presume dotato delle più avanzate attrezzature antincendio: materiali ignifughi, portelloni tagliafuoco, sprinkler (le reti di tubi con docce che spruzzano acqua al minimo segnale di fumo e fuoco in ogni garage). L’ispezione di un ente di controllo greco un mese fa aveva registrato deficienze, ma non così gravi da bloccare la navigazione: soltanto un invito a sistemarle per l’Anek Lines, la società che gestiva il traghetto.

E qui entriamo in un altro aspetto sorprendente della vicenda: abbiamo scoperto che la nave, nella sua breve vita dal 2010 a oggi, era già passata di mano più volte, affittata ogni anno dall’armatore italiano a una diversa società di navigazione, e su rotte diverse: prima la Genova-Termini Imerese (Messina) fino alla chiusura della fabbrica Fiat siciliana, poi i collegamenti per la Sardegna, infine quelli Italia-Grecia.

Questi vorticosi passaggi di gestione possono aver influito sulla sicurezza? «Assolutamente no», risponde il comandante De Luca, «perché anche nei trasporti marittimi, come in quelli aerei, ha preso piede l’utilizzo del leasing, che offre maggiore flessibilità. Le compagnie trovano conveniente non caricarsi di oneri fissi acquistando navi e aerei che costano molto, e preferiscono affittarli. Ma i controlli restano uguali e rigorosi per tutti».

Certo, se poi la società impone alla nave carichi eccessivi anche in condizioni di mare difficile, come adombrato dal comandante del traghetto Patrasso-Ancona Argilio Giacomazzi, non c’è controllo che tenga. I clandestini a bordo non si sa se siano stati imbarcati di nascosto, oppure con la complicità di membi dell’equipaggio o di singoli camionisti. Ma non sappiamo ancora se l’incendio è nato nel garage, dove pare si nascondessero, o nella sala macchine: corto circuito, materiali pericolosi, stufette accese avventatamente per riscaldarsi nelle cabine dei camion? L’inchiesta sarà lunga.
Mauro Suttora

Wednesday, January 07, 2015

L'incubo del traghetto Grecia-Ancona


FUOCO, FUMO, MARE FORZA OTTO, SOCCORSI IMPOSSIBILI. POI IL BUIO, FREDDO, PAURA. INFINE LA SALVEZZA

Oggi, 29 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Alla faccia della cavalleria. «Quando gli elicotteri dei soccorsi sono arrivati, i passeggeri si sono fatti prendere dal panico», racconta Christos Perlis, 32 anni, camionista greco che era sul traghetto Norman Atlantic. «Tutti si pestavano per salire. Io e un altro abbiamo cercato di imporre un po’ d’ordine. Prima i bambini, poi le donne, poi gli uomini. Ma alcuni uomini hanno cominciato a colpirci, volevano entrare per primi. Non hanno dato la precedenza, niente».

L’incubo è durato ben 37 ore. Soltanto 170, sui quasi 500 fra passeggeri ed equipaggio, sono stati salvati il primo giorno. L’incendio è divampato in piena notte, alle 4 e mezzo. Tutti dormivano in cabina. Molti si sono accorti del pericolo soltanto per il fumo che entrava sotto le porte. Ma il mare in tempesta ha impedito alle navi in soccorso di avvicinarsi. E gli elicotteri non riuscivano ad atterrare sul ponte per il fumo e il rollio. Così gli unici a riuscire a scappare sono stati quelli imbarcati nelle scialuppe.

Un giorno e una notte ad aspettare e sperare

Poi è calata la notte. Ed è lì che per molti dei 300 ancora imbarcati è iniziato il vero inferno: freddo, fumo, onde da far venire il vomito, spruzzi. E tanta paura.
«Io e mio marito siamo stati più di quattro ore in acqua. Ho tentato di salvarlo ma non ci sono riuscita, lui mi diceva “moriamo, stiamo morendo”», racconta Teodora Doulis, 56 anni, greca, moglie di Georghios, 67, una delle otto vittime (bilancio purtroppo provvisorio). I due si erano gettati in mare per raggiungere la scialuppa. Il marito potrebbe essere deceduto per ipotermia.

«L’ho visto morire. Eravamo sullo scivolo della nave, lui davanti, io dietro. È rimasto impigliato a un telo di plastica e io non riuscivo a scendere. Ci davano fretta e ci dicevano di scendere, ed eravamo bagnati perché raggiunti dai getti d’acqua utilizzati per spegnere le fiamme. Alla fine siamo scesi in acqua, tenuti a galla dai salvagenti. C’era una nave, ma troppo lontana per soccorrerci. Siamo rimasti così più di quattro ore, nuotavo, per fortuna non avevo gli stivali. A mio marito usciva sangue dal naso, forse perché aveva battuto la testa sulla nave».

«A un certo punto», continua disperata la donna, «è arrivato un soccorritore che ha tentato di tagliare il telo in plastica in cui era rimasto intrappolato mio marito. Ma quando al secondo tentativo c’è riuscito, lui è morto tra le sue braccia. Ho visto anche un’altra persona morta, il cadavere era accanto a mio marito, aveva addosso una ciambella di salvataggio ma si vedeva che era privo di vita».

L’incendio è partito da uno dei cento camion nel garage, e si è propagato alle 150 auto. Soltanto una quarantina di passeggeri erano italiani. Duecento i greci. Tutti gli altri, di ogni nazionalità.
Il traghetto era nuovo. Varato a fine 2009 dai cantieri Visentini di Rovigo, apparteneva alla società Visemar, stesso gruppo. Ma in questi pochi anni ha cambiato vorticosamente mari, nomi e affittuari: prima la rotta Genova-Termini Imerese (Messina) finché qui c’era la fabbrica Fiat, poi Siremar, Grandi navi veloci e Moby per la Sardegna con il nome Scintu, infine i collegamenti con la Grecia con caronte e, attualmente, la compagnia greca Anek.

Il comandante italiano Argilio Giacomazzi, 62 anni, di La Spezia, è stato l’ultimo a lasciare la nave, prima che venisse trainata dai rimorchiatori nel porto di Brindisi. Almeno non c’è stato un altro caso Schettino.
Mauro Suttora

Presidenziabili 2014

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Chi sarà eletto presidente della Repubblica in febbraio, passati i 15 giorni previsti dalla Costituzione dopo le dimissioni quasi sicure di Giorgio Napolitano? ROMANO PRODI, 75 anni, dev’essere risarcito per i 101 traditori che gli votarono contro nel segreto dell’urna due anni fa. Però è un vecchio dc.

Se sarà donna, potrebbe essere EMMA BONINO, 66 anni. Apprezzatissima in Europa (fu commissaria Ue negli Anni 90, nominata da Berlusconi) e nel mondo (si batte contro la pena di morte e ha fatto nascere la Corte internazionale dell’Onu). È radicale, quindi né di destra né di sinistra. E papa Francesco ha fatto cadere il veto del Vaticano contro di lei.

Un altro bipartisan: WALTER VELTRONI, 59 anni. Il fondatore del Pd non è più parlamentare, è stato «rottamato» da Renzi. Ma tutti ne apprezzano il buon carattere, anche se lo scandalo sulla mafia a Roma lo ha danneggiato (Luca Odevaine, arrestato, era un collaboratore del Veltroni sindaco).
 
Fra le candidate donne sembra un po’ in ribasso Roberta Pinotti, ministro della Difesa. ANNA FINOCCHIARO, 59, senatrice Pd, resta invece a galla: affidabile, affascinante, posata, la ex magistrata siciliana ha un’unica macchia: quella foto all’Ikea in cui un agente della scorta la aiutava a trasportare pacchi.
  
È un personaggio mitico, inaffondabile. Direttore del quotidiano Il Tempo per 15 anni, GIANNI LETTA, 79, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio in tutti i governi Berlusconi. Zio di Enrico, il suo carattere felpato lo ha fatto apprezzare anche a sinistra. Se fosse eletto sarebbe il trionfo del «patto del Nazareno»: l’alleanza fra Renzi e Berlusconi nonostante i loro partiti siano uno al governo e l’altro all’opposizione. 
 
Sconosciuto al grande pubblico fino a due mesi fa, quando Renzi lo ha nominato ministro degli Esteri, il 60enne PAOLO GENTILONI andrebbe bene se il premier volesse un presidente che non gli faccia ombra. Passato dall’estrema sinistra (Manifesto) a quasi democristiano (Margherita), Gentiloni è amico degli Usa.
 
Fra i non politici di professione il più quotato sembra RENZO PIANO, 77. Il nostro architetto più famoso gode di fama mondiale e ha acquistato anche un po’ di esperienza istituzionale dopo la nomina a senatore a vita dell’agosto 2013. Un altro outsider di lusso è il senatore Nobel Carlo Rubbia, 80.

Usa: agenti contro neri

PERCHÈ LA POLIZIA DI NEW YORK CONTESTA IL SINDACO DE BLASIO?
Ai funerali degli agenti uccisi al culmine delle tensioni razziali, i colleghi hanno voltato le spalle al primo cittadino

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

È incredibile che 50 anni dopo il discorso «I have a dream» di Martin Luther King gli Stati Uniti siano ancora alle prese con violenze razziali. Che questo succeda proprio sotto la presidenza di Barack Obama, primo nero alla Casa Bianca. E che venga criticato il sindaco di New York Bill de Blasio, simbolo dell’integrazione: nipote di italiani sposato a una donna di colore.

Ai funerali di due poliziotti newyorkesi (uno di origine spagnola, l’altro cinese) uccisi da un giovane di colore, i loro colleghi hanno contestato il sindaco voltandogli la schiena mentre parlava. Lo accusano di parteggiare per i neri i quali, pur essendo soltanto il 6% degli statunitensi maschi, rappresentano il 40% dei due milioni di incarcerati. 

La polizia di New York è un feudo irlandese, come l’attuale assessore e il precedente. Ma la seconda nazionalità più rappresentata fra gli agenti è l’italiana. Il che non ha impedito la protesta contro De Blasio.

Gli agenti Usa hanno il grilletto facile contro i giovani neri? Sì. Ma bisogna considerare che questi ultimi commettono la metà degli omicidi negli Usa. Anche se il 93% delle loro vittime sono pure loro di colore. Non esiste, quindi, una guerra razziale bianchi/neri. 

I poliziotti americani sono più duri di quelli europei. Sparano appena qualcuno punta contro di loro un’arma. Il problema è nato perché in agosto hanno ucciso un 18enne afroamericano a Ferguson (Missouri), rapinatore ma disarmato, e non sono stati neppure processati: colpa dei giudici, semmai.