Wednesday, April 30, 2014

A che serve l'Europarlamento?

L’Europarlamento serve a poco o a nulla.  Purtroppo questa è la realtà, nonostante i proclami retorici. Infatti i veri poteri, nell’Unione Europea, li hanno gli altri due organi: la Commissione (nominata dai governi dei 28 Paesi membri) e il Consiglio (i vertici dei premier o ministri in carica).

di Mauro Suttora

Oggi, 23 aprile 2014

I 751 eurodeputati (73 italiani) possono solo «codecidere» assieme alla Commissione, negarle la fiducia in caso di contrasto insanabile, o bloccarne il bilancio. Per il resto, solo poteri «consultivi». Cioè chiacchiere.

Il problema è che queste chiacchiere costano molto: 1,7 miliardi di euro annui. L’Europarlamento è leggendario per i suoi sprechi.  Due sedi: i francesi non vogliono mollare Strasburgo, che funziona una sola settimana al mese per le sedute plenarie. Ventitre lingue in cui devono essere obbligatoriamente tradotti tutti gli atti e le parole pronunciate in aula e commissioni: migliaia di traduttori e interpreti simultanei. Gli irlandesi hanno rinunciato al gaelico, ma i maltesi (che parlano tutti inglese) vogliono il maltese.

Gli unici felici sono gli eurodeputati. Per loro l’elezione significa un affare da 2,2 milioni di euro garantiti in cinque anni (non c’è rischio di voto anticipato). Ogni mese, infatti, intascano 6 mila netti di stipendio, altri 6 mila di diaria, più 25 mila euro per i portaborse (massimo tre a Bruxelles, ma vari nel collegio d’origine). Non possono più assumere parenti e amanti, ma qualche collega compiacente può farlo.

Gli eurodeputati scontano questi privilegi con l’assoluta irrilevanza. Se non si è invitati a qualche talk show, si sparisce per cinque anni. Soluzione: dare veri poteri all’Europarlamento (unico organo eletto direttamente, quindi democratico), e tenere solo inglese e francese come lingue ufficiali.

Wednesday, April 23, 2014

Jesus Christ Superstar

Parla Ted Neeley, il protagonista del film del 1973 ora in Italia per la versione teatrale del musical 

Oggi, 16 aprile 2014

di Mauro Suttora

Tremila volte Gesù Cristo. «Onestamente, non ho contato. Ma, calcolando tutte le repliche teatrali del musical in questi quarant’anni, la cifra potrebbe essere quella, più o meno».

È gentilissimo, Jesus Christ Superstar. Al secolo Ted Neeley, attore e cantante texano, che del Texas conserva l’accanto dolce e cantilenante. Nel 1973 divenne improvvisamente uno degli uomini più famosi e adorati del mondo. Fu quando uscì la versione cinematografica del musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, che sbancò dappertutto.

Ora Neeley è in Italia, al teatro Sistina di Roma. Il 18 aprile, venerdì santo, debutta la produzione italiana (ma in inglese) di Jesus Christ Superstar. Che va avanti con successo da vent’anni, con la regia di Massimo Romeo Piparo. Ma che per la prima volta ha come protagonista il Jesus originale.

«Ho accettato con entusiasmo di venire in Italia», ci dice Neeley, che di persona ci appare più piccolo e fragile di come lo ricordavamo sullo schermo, «e dopo Roma gireremo altre città».

Papa Francesco lo vedrà?
Al Sistina almeno fino alla fine di maggio, il Jesus Christ italiano ha una storia collaudata: 11 anni consecutivi in cartellone nei teatri della penisola, oltre un milione di spettatori, cento artisti che si sono alternati nel cast, 19 regioni e più di mille rappresentazioni in 84 città italiane.

Il segreto del successo? «La combinazione perfetta fra il rock, il musical e una grande storia», dice Neeley. Quello che non dice, è la segreta speranza che in qualche modo Papa Francesco possa essere coinvolto: con una rappresentazione extra in Vaticano, o assai più difficilmente avendo il Papa come spettatore in teatro.

«Può fare lei da emissario?», scherza Neeley. Il quale, nella sua lunga carriera di musicista rock iniziata nel 1965, non è rimasto “crocifisso” al ruolo di Jesus. È stato, infatti il protagonista di tutti gli altri musical rock più importanti della storia: Tommy, Hair e Sgt.Pepper. E ha lavorato con una quantità di star, da Ray Charles e Tina Turner. Oltre a cantare e a recitare è anche batterista, compositore e produttore.

Ma, inevitabilmente, le richieste maggiori nei decenni sono state per un ritorno al Jesus di fama planetaria, assieme alle altre superstar del film di Norman Jewison: Yvonne Elliman (Maria Maddalena) e Carl Anderson (il Giuda di colore), purtroppo scomparso dieci anni fa per una leucemia.  Nell’anno del Giubileo, il 2000, e l’anno seguente, anche Anderson recitò nella versione italiana.

Questa volta, ad attorniare Neeley, sono stati reclutati personaggi famosi della musica pop-rock italiana: i Negrita suonano assieme all’orchestra, e il loro Pau è Ponzio Pilato; Simona Molinari fa Maddalena, e l’ex-Rokes Shel Shapiro il sommo sacerdote Caifa.

Mister Neeley, eccola qui con i suoi capelli lunghi che fecero impazzire milioni di ragazzine (e non solo): se li è mai tagliati, dal 1973? «Only for business purposes, solo per ragioni di copione, una volta che dovevo interpretare a teatro un personaggio completamente calvo».

E come mai è andato a Verona con sua figlia Tessa? «Ci hanno invitato all’apertura del Vinitaly, poi abbiamo visitato l’Arena dove porteremo il musical, infine il balcone di Romeo e Giulietta. Una giornata stupenda».

Il revival di Jesus Christ ha spinto Neeley a produrre anche un suo nuovo lavoro: Rock Opera, già disponibile su iTunes e in vendita nei negozi dal 22 aprile. Dentro, oltre a una versione della sua canzone preferita del musical (Getsemani), spicca un duetto da brivido con Yvonne Elliman: Up Where We Belong di Joe Cocker. Ci sono anche foto inedite di Ted sul set in Israele durante le riprese nel 1972 di Jesus Christ Superstar.

«Quella è una storia tutta da raccontare», spiega, «perché nel film si vedono aerei e carri armati. Immagini che mescolano il passato di 2 mila anni fa con il presente. Ebbene, nessuno poteva sapere che solo pochi mesi dopo, in quello stesso deserto israeliano del Negev dove girammo molte scene, sarebbe scoppiata una guerra vera, quella del Kippur. Proprio nelle settimane in cui uscì il film».

Neeley ci parla con la sua voce suadente, e non possiamo non comprendere l’illusione di molti cristiani fondamentalisti che, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti, quasi lo scambiano per il Gesù reale. Dopo gli spettacoli, racconta, lo vanno a trovare nel camerino. E lui è gentile e disponibile con tutti. Non manda mai via nessuno, neanche i più fanatici.

Quando uscì, Jesus Christ Superstar suscitò polemiche. Combinava, infatti, la filosofia hippy dell’amore libero e della pace universale con la religione cristiana. Il rapporto fra Gesù e Maria Maddalena è al limite dello scandalo: I Don’t Know How To Love Him, non so come amarlo, canta lei, facendo capire che il confine fra amore spirituale e carnale è sottilissimo. Anzi, probabilmente è stato superato.

Giuda, poi, non è soltanto il classico traditore. È anche un critico della religione, in nome dei bisogni concreti: Too Much Heaven On Their Minds,  troppo paradiso nelle loro teste, urla contro gli apostoli che rifiutano scelte politiche più radicali. Esattamente il dilemma che attraversava molti cristiani negli anni ’60 e ’70.

«Il messaggio di Jesus Christ Superstar è ancora attualissimo», dice Neeley, «ovunque andiamo suscita discussioni infinite anche fra i giovani di oggi. Per questo, spesso, organizziamo repliche nelle scuole».

Neeley vive in California con la moglie, conosciuta proprio sul set del film, e i figli. Tessa collabora con lui e lo segue dappertutto.
Durante le prove al Sistina, Ted esibisce la sua leggendaria voce baritonale, non scalfita dall’età: nell’urlo di Getsemani riesce a raggiungere la nota Sol un’ottava sopra la mediana.

E pensare che, alle audizioni per il musical, Neeley non mirava alla parte di Gesù. Voleva quella di Giuda, che reputava più interessante musicalmente. Non ce la fece, e finì come riserva per entrambi i ruoli. Poi, dopo un’apparizione positiva, la promozione a titolare. E fu subito Superstar.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 16, 2014

Berlusconi affidato in prova


PRATICAMENTE LIBERO

L'ex premier può continuare a fare politica con l'affidamento ai servizi sociali

di Mauro Suttora

Oggi, 9 aprile 2014

Andrà molto meglio a Silvio Berlusconi che a Calisto Tanzi, l'ex padrone della Parmalat che ha appena avuto confermata in Cassazione la condanna a 17 anni per il crac. Tanzi, 75 anni, sta scontando la pena agli arresti nell'ospedale di Parma. Berlusconi, invece, ai domiciliari non ci finirà.

«È un signore di 77 anni incensurato, non socialmente pericoloso, non delinquente abituale», spiega a Oggi l'avvocato milanese Caterina Malavenda, «quindi ha tutti i requisiti per ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali».
Anche perché la sua condanna a quattro anni per frode fiscale è scesa a un anno grazie all'indulto del 2006, e ci sarà uno sconto di altri 60-90 giorni alla fine. Insomma, all'inizio del 2015 Berlusconi sarà di nuovo un uomo libero.

Per questi 9-10 mesi il Tribunale di sorveglianza di Milano lo affida all'Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di via Numa Pompilio, vicino al carcere di San Vittore. Indirizzo ben conosciuto alle migliaia di detenuti (soprattutto tossicodipendenti) che riescono a uscire dal carcere, o a evitarlo del tutto, grazie all'affidamento.

Ma non vedremo Berlusconi lì in fila per il permesso di tenere comizi nella campagna elettorale per le europee del 25 maggio. «Lo scopo dell'affidamento è la "rieducazione"», dice l'avvocato Malavenda, «quindi certamente la pena sarà un po' afflittiva, ma "disegnata" sul soggetto. L'unico divieto irrinunciabile è quello di frequentare delinquenti abituali e tossicodipendenti. Per il resto, massima elasticità. Ogni regola può essere derogata a richiesta dell'interessato, anche oralmente».

È già successo con Fabrizio Corona. Il quale aveva dimostrato che il suo lavoro si svolgeva di notte, e quindi nel 2012 ottenne di tornare a casa quando voleva, invece che alle 21. Poi l'affidamento gli è stato revocato perché le condanne sommandosi hanno superato i tre anni, ed è tornato in carcere.

L'ex banchiere Gianpiero Fiorani ha lavorato nove mesi da volontario in una comunità di recupero prima di recuperare lui la libertà nell'agosto 2012. Ma non è detto che a Berlusconi si imponga un particolare «servizio sociale». Per l'affidamento, infatti, basta avere un domicilio e un lavoro. E certamente l'ex premier un lavoro ce l'ha: capo del secondo partito italiano. 

Quanto al domicilio, probabilmente dovrà scegliere fra Arcore (Monza) e Roma. «Ma, salvo il divieto d’espatrio che già ha da otto mesi», spiega l’avvocato Malavenda, «potrà andare in giro per l’Italia a fare attività politica, avvertendo preventivamente l’Uepe».

Proprio come Corona, che durante l’affidamento si guadagnava la vita nelle serate in discoteca per tutta la penisola. L’unica cosa che Berlusconi non potrà fare, è candidarsi: è stato condannato all’ineleggibilità a pubblici uffici per due anni. Può solo mettere il proprio nome nel simbolo del proprio partito, come ha fatto.

Il suo vero incubo è quello di finire come il suo ex sodale Lele Mora: vendere vestiti usati in una bancarella al mercatino di piazzale Cuoco a Milano per conto della comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Ma l’ex agente dei divi, condannato a quattro anni per bancarotta, vive il proprio affidamento come una catarsi. L’ex premier, invece, ha già respinto al mittente l’invito di don Mazzi, che pure si dichiara suo ammiratore: «Mi ha umiliato dicendo che è pronto ad accogliermi per pulire i cessi». Curioso però che un esperto di comunicazione come Berlusconi non colga l’immesso valore propagandistico di una simile photo opportunity: il martirio porta voti.
   
Ogni trimestre il responsabile dell’affidamento dell’ex Cavaliere presso l’Uepe stilerà un rapportino sul comportamento del condannato, e lo consegnerà al Tribunale di sorveglianza. In teoria, se Berlusconi non osserverà scrupolosamente le regole (riassumibili in una: dire sempre dove va), il beneficio potrebbe essergli revocato. Ma a Palazzo di giustizia nessuno sembra voler forzare la situazione.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 09, 2014

Gwyneth Paltrow

IL "DIVORZIO CONSAPEVOLE" DA CHRIS MARTIN (COLDPLAY)

New York (Stati Uniti), 2 aprile 2014

di Mauro Suttora

Gwyneth Paltrow si separa, divorzia dal marito Chris Martin capo dei Coldplay? Ma no, non dobbiamo essere così banali. Lei non lascia. Si «disaccoppia consapevolmente»: lo ha annunciato in modo ufficiale nel suo sito Goop. Qualunque cosa questo voglia dire, capiamo che non si abbassa, come noi comuni mortali, a litigare. Forte della sua fede «new age» non butta vestiti fuori dalla finestra, non urla, non si rifugia nel bicchiere.

La regina dell’olistica, la diva più diafana di Hollywood, la più cool del cinema mondiale (superata in snobismo soltanto dalla regista  Sofia Coppola, figlia di Francis Ford) ci aveva già sorpreso sostenendo che le pietre le parlavano. E ora, sempre sotto il caldo sole di Los Angeles, ecco il «disaccoppiamento consapevole». Che non si riferisce, malpensanti noi, alla fine di una copula sessuale, ma a un «ulteriore stadio della vita di coppia».

Il guru: «Vita lunga, nozze brevi»

Tutto normale, insomma, tutto positivo. E qui arriva il suo santone, che sotto al messaggio nel blog di Gwyneth spiega l’arcano. Il dottor Habib Sadeghi, immigrato iraniano negli Stati Uniti, sostiene che oggi si divorzia di più soltanto perché si vive più a lungo. E vivere più a lungo, ma sempre con la stessa persona, non sarebbe «pratico». Lo scrive assieme alla moglie Sherry Sami: «Dopo il periodo della luna di miele, in cui proiettiamo solo nozioni positive sui nostri partner, inizia la fase delle proiezioni negative». E l’armatura che cominciamo a indossare per proteggerci, dicono i due filosofi, si trasforma in prigione.

Concetti profondi, che pare abbiano spinto l’eterea ma infelice Paltrow sotto le lenzuola dell’attuale marito di Elle MacPherson, il miliardario Jeffrey Soffer. Ma, anche qui, il concetto non è quello volgare di «corna». Si tratta di self-improvement, ovvero di «automiglioramento».

Sulla vita «sempre migliore» ma anche sempre più segretamente burrascosa della coppia Paltrow-Martin (valore commerciale congiunto: centinaia di milioni di euro) nei mesi scorsi avevano cominciato a indagare i più agguerriti reporter americani. Non l’avessero mai fatto. La soave ma determinata Gwyneth ha perso tutto il suo aplomb, minacciando querele preventive, negando interviste e accentuando ulteriormente il già proverbiale broncio.
 
Il trasloco della supercoppia con i figli Apple e Moses dalla Londra di Chris alla California di lei, con annesso acquisto di villona da 15 milioni di dollari? Non segnale di disagio, solo proficuo cambiamento di prospettiva: dalla pioggia al sereno. Smentita la rottura con Madonna, un tempo amica strettissima. Scandalo per una frase porno scappata all’altrimenti castigata signora Paltrow in una trasmissione tv con la comica Chelsea Handler: «Quando mio marito torna a casa nervoso, lo tiro su con un po’ di sesso orale».

Guerra contro i giornalisti

E siccome i giornalisti continuavano a punzecchiarla sulla solidità di cotanto matrimonio, lei è ricorsa a una mossa che riteneva da bomba atomica: ha chiesto a tutti i suoi (tanti) amici di boicottare i giornali che la attaccavano, rifiutando a loro volta ogni intervista.
  
Ma la catena di sant’Antonio dei vip paltrowiani contro la stampa rosa non ha funzionato, e quindi ecco oggi il guru di Gwyneth a spiegarci scientificamente l’accaduto: «Non dobbiamo pensare al matrimonio come all’investimento per tutta una vita, ma come all’occasione per un rinnovamento continuo. Così i coniugi si trasformano in maestri reciproci, e si aiutano a far evolvere la struttura interna di supporto spirituale della coppia».

Ben vengano queste ricette per la felicità, se servono a far tornare il sorriso sull’incantevole viso dell’inquieta diva. 
Chi scrive l’ha incontrata due volte personalmente a New York. La prima, settembre 2002, nel backstage dopo una sfilata di Calvin Klein ai Milk Studios. Tutti si complimentavano con lo stilista, ma Gwyneth appariva devastata. Le era appena morto il padre, e mi disse con il suo tipico filo di voce residuale che non era servita a distrarla una crociera in Costa Smeralda da cui era appena tornata, ospite sullo yacht di Valentino. Dopo poche settimane, però, l’incontro con Chris Martin risolse tutto.

Rinata dopo la maternità

L’ho rivista tre anni dopo, nel 2005, completamente trasformata e rinvigorita durante un’intervista all’Essex House di Central Park South per il suo rientro sullo schermo dopo la maternità, in un film che non ricordo (onestamente, dopo gli Oscar di Shakespeare in Love e i capolavori assoluti Sliding Doors e I Tenenbaum, non sono molte le apparizioni cinematografiche di Paltrow degne di nota nell’ultimo decennio). Le feci i complimenti, e lei insolitamente cordiale diede il merito del proprio buonumore, delle guance rosee e del petto rinvigorito alla figlia Apple.

Che faranno ora i due divi della supercoppia? Lui, Chris Martin, è l’antipersonaggio per eccellenza. Niente vita sociale, paparazzi, feste, comparsate, eccessi. Quando sposò Gwyneth aveva 26 anni, ma confessò di avere scoperto il sesso soltanto da tre. Non è, insomma, materiale da pettegolezzo. Infatti tutte le scappatelle della coppia scoppiata riguardavano la sua ape regina, non lui.

Gwyneth, invece, ci stupirà ancora. Ne siamo sicuri. Più in fretta si sbarazzerà del suo guru persiano, meglio per lei.  Fragilissima, quindi perfetta attrice, ha soltanto bisogno di copioni all’altezza e registi capaci di dom(in)arla, estraendo dalla sua faccia non bellissima ma terribilmente cinematografica più dell’unica espressione con cui a volte ammorba i suoi film. Finora ci sono riusciti Wes Anderson ed Anthony Minghella (in Il talento di Mr. Ripley). E datele da bere un bicchiere di gin. Inconsapevole.
Mauro Suttora