Wednesday, January 28, 2009

parla Ari Folman

VALZER CON HAMAS

«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar

Oggi, 28 gennaio 2008

di Mauro Suttora

«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»

Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.

Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.

«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.

«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»

Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?

«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»

Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?

«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».

Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.

«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».

Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?

«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»

Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?

«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».

Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.

«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».

Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?

«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».

Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.

«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».

Mauro Suttora

L'Uomo nero di Rignano Flaminio

DI SICURO C'E' SOLO CHE NON E' LUI

Intervista esclusiva al cingalese Kelum Weramuni, scagionato

di Mauro Suttora

Oggi, 28 gennaio 2008

No, non è lui l’Uomo Nero. Kelum Weramuni de Silva non è un pedofilo, non ha violentato i bambini di Rignano Flaminio (Roma), non ha mai conosciuto gli alunni e le maestre dell’asilo del paese. Una settimana fa è arrivato il decreto ufficiale d’archiviazione dalla procura di Tivoli.

Ma Kelum, 30 anni, due mesi fa è tornato nella sua patria, lo Sri Lanka: «Era da quattro anni che non vedevo la mia fidanzata Ishara, i miei genitori, la mia famiglia. In Italia non potevo più lavorare, non mi prendeva nessuno dopo quella storia. Ero tornato clandestino, avevo un decreto d’espulsione, dormivo da amici, loro mi aiutavano anche per mangiare. Ma non ce la facevo più. Sono tornato a casa. Però qui non c’è lavoro. Quindi spero di poter tornare presto in Italia»
.
Ha ancora voglia di stare nel nostro Paese, Kelum, nonostante l’incubo che gli è piombato addosso e che è durato più di un anno e mezzo. Il 24 aprile 2007 era stato arrestato assieme a tre maestre della scuola materna «Olga Rovere», una bidella e il marito di una di loro. Una gragnuola di accuse infamanti: violenza sessuale aggravata dalla minore età delle vittime, sequestro di persona, atti osceni, maltrattamenti, sottrazione di persona, corruzione di minori, atti contrari alla pubblica decenza.

Diciassette giorni di carcere a Rebibbia, poi l’interrogatorio e la scarcerazione. Ma l’inchiesta si è conclusa solo adesso, con tre archiviazioni (lui, la bidella, una maestra che non era finita in prigione) e quattro «avvisi di conclusione dell’indagine», con una possibile richiesta di rinvio a giudizio.

Kelum faceva il benzinaio nel paese di ottomila abitanti, 40 chilometri a nord di Roma. «Lavoravo lì dal settembre 2005», ci racconta, «ma non ho mai conosciuto nessuno di quella scuola. Anzi, non sapevo neppure dove fosse. Quando sono arrivato in commissariato mi hanno detto di cosa ero accusato, ma non capivo».

Venti bambini fra i quattro e i sei anni avevano raccontato ai genitori di essere stati portati più volte in una casa fuori dall’asilo, alla periferia del paese. Lì gli adulti li avrebbero sottoposti a giochi erotici di ogni tipo, con maschere, carezze, toccamenti e penetrazioni con piccoli oggetti. La cosa sarebbe andata avanti da anni: le prime denunce dei genitori sono del 2006.

«Gli avvocati mi hanno spiegato che due bambini su venti mi avrebbero “riconosciuto”. Una bimba, mentre era in auto con i suoi che si erano fermati a far benzina, disse che io ero Maurizio, facevo i giochi della scuola con loro, mi mascheravo da scoiattolo. E un altro era scoppiato a piangere dopo che io gli feci una smorfia per scherzo. Diceva che io ero Giovanni, l’Uomo nero con il codino che li aspettava in auto e li portava a casa di una maestra».
Due bambini su venti. Ma le loro testimonianze sono bastate per incastrare Kelum, unico uomo dalla pelle nera nei dintorni.

«Nell’interrogatorio spiegai al giudice che non ho la patente e non ho mai guidato. Lavoravo dalle sette del mattino alle otto di sera, ero sempre lì alla pompa, tutti mi vedevano. Nella pausa di chiusura, dall’una alle tre, andavo a pranzo lì vicino, a casa di altri cingalesi. Potevano testimoniare tutti, anche il mio padrone».

Gli avvocati Ettore Iacobone e Domenico Naccari assistevano Kelum da tempo: il permesso di soggiorno gli era scaduto, aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il suo datore di lavoro aveva fatto domanda di regolarizzazione. Aspettava la sanatoria. Invece, è finito in prigione.

Il caso ha fatto un enorme clamore non solo per le accuse di pedofilia collettiva da parte di maestre in un asilo, ma anche perché il paese di Rignano si è spaccato in due, fra colpevolisti (le famiglie dei bambini) e innocentisti (parenti e amici degli accusati). Ci fu perfino una dimostrazione di questi ultimi sotto Rebibbia per chiedere la scarcerazione.

I presunti «orchi» di solito non vengono trattati bene dagli altri carcerati.
«Ma io non ho avuto problemi in quei diciassette giorni, tutti mi credevano», dice Kelum. che è buddista e ha un carattere assai mite. Anche adesso, al telefono da Ceylon, più che la rabbia sembrano trasparire sorpresa e rassegnazione.

«Non sono mai riuscito a capire perché quei due bambini mi hanno accusato. I carabinieri sono anche venuti a sequestrare un computer nella casa dove dormivo, non so cosa cercavano, ma non hanno trovato niente. Io sono sempre stato tranquillo, perché non avevo nulla da nascondere».

La sua famiglia in Sri Lanka ha saputo qualcosa?

«Certo, i miei amici hanno telefonato qui a casa raccontando quello che era successo. Ma la mia fidanzata mi conosce da quando avevamo quindici anni, nessuno ha creduto a niente. Anche perché di solito sono gli occidentali che vengono qui in Sri Lanka per fare certe cose con i bambini».

Ma davvero vuoi tornare in Italia dopo questa disavventura?

«Prima di emigrare in Europa lavoravo in un albergo qui vicino a Colombo. Ma adesso c’è crisi nel turismo, non c’è lavoro. Ero emigrato in Germania, però dopo un mese ho preferito l’Italia. Quando mi hanno liberato dal carcere mi hanno subito portato in un Cpt, un Centro di permanenza temporaneo, per espellermi. Ma i miei avvocati hanno fatto ricorso, e sono rimasto. Ho lavorato da un dentista a Morlupo, poi però non mi ha preso più nessuno. Con quelle accuse, quale famiglia ti vuole come domestico? Eppure mi sembrava che il giudice mi avesse creduto, infatti non mi ha dato neppure il divieto d’espatrio. Ora voglio solo tornare».

Mauro Suttora

Monday, January 26, 2009

Mercedes Bresso, Eugenia Roccella

Tutti gli ex radicali delle sponde opposte

di Mauro Suttora

Libero, sabato 24 gennaio 2009

E pensare che si chiama come la Madonna. Mercedes Bresso, 64 anni, la governatrice del Piemonte che sul caso di Eluana Englaro ha dato dell’«ayatollah» all’arcivescovo di Torino, deve il proprio nome alla mamma, devota della chiesa Vergine della Mercede a Sanremo.

Diventata leader dei laici italiani, la Bresso è coerente con le proprie origini anticlericali. Infatti, prima che il Pci la eleggesse nel 1985 consigliere regionale piemontese, era dirigente radicale. Fece parte della segreteria nazionale nel ’75, anno caldo delle lotte sull’aborto, quando Emma Bonino finì in carcere.

Curiosamente, quello stesso posto di dirigente del partito di Marco Pannella lo occupò nell’81 (anno del doppio referendum sull’aborto) pure Eugenia Roccella, oggi sottosegretario al welfare e vicinissima al Vaticano, ma allora accesa femminista. Segretario radicale era in quegli anni un 27enne Francesco Rutelli, anch’egli irriconoscibile rispetto a oggi.

Ex pannelliani, insomma, occupano posti opposti in palcoscenico nella disputa sul diritto alla vita. Ma la diaspora radicale coinvolge molti altri nomi noti della politica italiana, alcuni dei quali sorprendenti.

Giorgio Stracquadanio, per esempio. Il 49enne ghost writer e spin doctor di Silvio nonché consigliere di Maria Stella Gelmini potrebbe passare da deputato a sottosegretario alla presidenza del Consiglio se il portavoce Paolo Bonaiuti fosse promosso viceministro. A Milano Stracquadanio era attivo radicale negli anni ’80, e portaborse dell’allora antiproibizionista Tiziana Maiolo assessore comunale nel ’90.

Anche l’ex presidente del Senato Marcello Pera può essere catalogato come ex radicale (dal ’92 al ’94), così come il ministro Elio Vito (portaborse del consigliere comunale Pannella a Napoli negli anni ’80, poi deputato) e il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello (vicesegretario nell’81 con Rutelli).

Fra i deputati c’è il rutelliano Roberto Giachetti, mentre nel centrodestra spiccano Benedetto Della Vedova e Giuseppe Calderisi (autore del progetto di nuova legge elettorale per le imminenti europee). Fuori dal Parlamento ma vicino al cuore di Silvio sta Daniele Capezzone, segretario radicale fino a due anni fa e ora portavoce di Forza Italia.

Stefano Rodotà lasciò i radicali per il Pci nel ’79 perché Pannella non gli garantì l'elezione. In quegli stessi anni scalpitava fra i radicali salernitani Alfonso Pecoraro Scanio.

Sono stati candidati della Rosa nel pugno Gianni Vattimo, Barbara Alberti, Fernanda Pivano, Luca Boneschi (oggi avvocato dei giornalisti milanesi), Giorgio Albertazzi, Salvatore Samperi, Tinto Brass, Riccardo Chiaberge (direttore del supplemento domenicale del Sole 24 Ore), Massimo Alberizzi (inviato "africano" del Corsera) e il costituzionalista Michele Ainis.

Gli editorialisti Angelo Panebianco (Corsera), Massimo Teodori (Giornale) e Piero Ignazi (Sole ed Espresso) sono ex radicali. Perfino Eugenio Scalfari è stato vicesegretario nazionale del Pr prima di Pannella e consigliere comunale a Milano nel '60 (quando l’attore Arnoldo Foà fu eletto a Roma).

Ma lista dei giornalisti politici ex radicali è sterminata: Lino Jannuzzi (direttore di Radio radicale fino all’81), Paolo Liguori, il notista politico del Tg1 Bruno Luverà, Marco Taradash (inventore delle rassegne stampa radiofoniche), Daniele Bellasio e Christian Rocca del Foglio, Laura Cesaretti (Giornale e Velino), Vittorio Pezzuto (ex segretario nazionale dei club Pannella negli anni ’90, oggi portavoce di Renato Brunetta), Stefano Andreani (cronista parlamentare di Radio radicale, poi potente capo di gabinetto di Andreotti nell'era Caf, ora dirigente Invitalia – la ex agenzia Sviluppo), Roberto Iezzi (ufficio stampa Camera).

Carlo Romeo, oggi capo del "segretariato sociale" Rai, è stato fino al ’95 direttore del mitico tg radicale di Teleroma 56, da cui passarono Mauro Mazza, Michele Plastino, Gianni Cerqueti, Giancarlo Dotto, Fabio Caressa, Paola Rivetta... Infine Iuri Maria Prado, commentatore di Libero: pure lui pannelliano fino al 2006, quando i radicali (ri)svoltarono a sinistra.

Mauro Suttora

Friday, January 23, 2009

Time e Newsweek

I neswsmagazine Usa crollano nelle vendite: troppo radical chic

Libero, venerdì 23 gennaio 2009

di Mauro Suttora

Time e Newsweek sono crollati. I due settimanali statunitensi vendono in edicola 96mila copie il primo e 83mila il secondo, contro le 163mila e 147mila del 2004. Meno 40% in quattro anni. Come se Panorama ed Espresso annaspassero a 16-20 mila copie, in proporzione agli abitanti (gli americani sono cinque volte gli italiani).

Anche per gli abbonati è un disastro. Solo due anni fa Time ne aveva quattro milioni, Newsweek 3,1. Ora il primo è sceso a 3,2 e l'altro a 2,6. Ma entrambi potrebbero tagliare drammaticamente la «circolazione garantita» ai pubblicitari, fino a scendere a un milione di copie.

Agli abbonati, infatti, i newsmagazines vengono regalati. Un anno per venti euro: 27 cent a copia. E’ lo stesso prezzo proposto agli abbonati italiani: tre anni per 59 euro. Non coprono neppure i costi di carta e inchiostro. Questo perché è dalla pubblicità che vengono i soldi veri. Ma se la «bolla» pubblicitaria scoppia, il bluff salta.

Il terzo settimanale politico americano, U.S. News & World Report, è stato chiuso tre settimane fa. L’unico che va bene è l’inglese Economist, la cui edizione Usa aumenta del 20% annuo: 500mila copie nel 2006, 600mila nel 2007, 700mila l’anno scorso.

«Anche noi probabilmente diventeremo settimanali d’opinione come l’Economist, con un lettorato più ristretto ma d’élite», mormorano all’unisono Rick Stengel, 53 anni, direttore di Time, e Jon Meacham, 40, di Newsweek. Guidano i loro giornali entrambi da appena due anni, chiamati a bloccare l’emorragia. I giornalisti interni sono 200 a testata: la metà di dieci anni fa
.
Time ha cambiato il giorno d’uscita, dal lunedì al venerdì. Newsweek ha dedicato la metà delle sue copertine 2008 alla politica (due a Michelle Obama). Entrambi pubblicano sempre più opinioni e sempre meno notizie. Bye bye “news”magazines, quindi: ai loro sofisticati lettori ormai le news arrivano da internet, tv e quotidiani.

Ma è proprio la linea politica il principale problema dei due settimanali. Entrambi, infatti, stanno s(t)olidamente a sinistra. E non potrebbe essere altrimenti, per due giornali ideati nel centro di Manhattan, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro: l’unica differenza è che il grattacielo di Newsweek ha la vista su Central Park, mentre la redazione di Time dà sul fiume Hudson. Antropologicamente radical-chic.

Troppo liberal, come la città di New York dove l’80% vota democratico. Time ha cercato di togliersi di dosso la patina fighetta dando spazio al commentatore neocon Bill Kristol. Ma è durato poco. Newsweek è riuscita a pubblicare una copertina pro matrimonio gay dopo che perfino la libertaria California l’ha bocciato.

Restano alcune isole d’eccellenza come le column di Fareed Zakaria (Newsweek), il miglior commentatore (kissingeriano) di politica estera oggi negli Usa: lavora anche per la concorrenza con il suo programma Gps alla tv Cnn del gruppo Time Warner (sul canale 516 di Sky Italia, ogni domenica alle 14 e 21). Ma da destra il liberista Economist morde la prosopopea dei due ex colossi, troppo uguali fra loro.

Mauro Suttora

Tuesday, January 20, 2009

Obama: gli speechwriter ricordano

GRANDE ATTESA PER IL DISCORSO DI BARACK
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia

Libero, 20 gennaio 2008

di Mauro Suttora

Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.

Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.

«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».

L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.

«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.

Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».

Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».

Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».

«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»

«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»

Thursday, January 08, 2009

Renzo Lusetti, il "vicepiacione"

Bello come il suo capo Francesco Rutelli, il deputato del pd indagato per i favori al faccendiere napoletano Romeo piace perfino a Berlusconi, che lo voleva arruolare. E si consola con la neomoglie in questo suo superattico romano

Oggi, 31 dicembre 2008

Perfino Silvio Berlusconi si era innamorato della sua bella faccia telegenica con sorriso permanente, e l’aveva invitato due volte ad Arcore nove anni fa per offrirgli un posto da dirigente di Forza Italia. Renzo Lusetti aveva appena stracciato la tessera dei popolari contro la segreteria Castagnetti, e la tentazione di passare con l’avversario fu forte. Ma alla fine rimase nel partito che lo aveva incoronato principe già ventenne, quando Ciriaco De Mita lo fece capo dei giovani democristiani.

A Roma era soprannominato «vicepiacione» da quando il «piacione» in carica, Francesco Rutelli, lo tirò fuori dalle secche di Tangentopoli imbarcandolo come assessore al comune di Roma di cui era sindaco. Fu in quel periodo, metà anni Novanta, che Lusetti conobbe il faccendiere napoletano Alfredo Romeo che ora lo ha inguaiato assieme al deputato Pdl Italo Bocchino: il faccendiere napoletano gestiva le case comunali.

Lo scorso maggio Lusetti si è sposato in seconde nozze con Vira Carbone, 39enne conduttrice Rai. Cerimonia civile nella chiesa sconsacrata di Caracalla finita su Cafonal del sito Dagospia, e ricevimento all’Hilton. Testimoni: Maria Grazia Cucinotta e Dario Franceschini. Molti gli invidiano la casa a due piani sulle pendici di Monte Mario, attico e superattico con entrata indipendente, vista sulla città, terrazze, boiseries, un lussuoso scalone di legno circolare che porta alla zona letto. «Vale tre miliardi», sussurrano gli ospiti. «Ma è di mio suocero, è intestata a lui e a mia moglie», precisa Lusetti a Oggi.

La signora Carbone Lusetti appare su Raiuno ogni weekend di primo mattino, nel programma Sabato, domenica &. Ed era in prima fila alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Gran cerimoniere: Berlusconi. Il feeling trasversale continua.