Wednesday, September 10, 2008

Sarah Palin

Mossa vincente di McCain: lancia la bella Sarah Palin

Oggi, 30 agosto 2008

John McCain, 72 anni, era stufo di sentirsi dare del vecchio da Obama. Così il candidato repubblicano, con una mossa a sorpresa, si è scelto come candidata vicepresidente Sarah Palin, 44 anni, governatrice dell' Alaska. Il personaggio non poteva essere più azzeccato. Innanzitutto una donna, e dopo la delusione dei 18 milioni di donne che hanno votato Hillary Clinton alle primarie può darsi che anche qualche democratica voti per la Palin, anche se è del campo avverso?

Il secondo motivo della candidatura Palin è che si tratta di una vera conservatrice: contraria all' aborto, cinque figli, ha voluto l' ultimo, nato quattro mesi fa, nonostante abbia la sindrome di Down. E poi è una vera ragazza del West: le piace sparare ed è favorevole al porto d' armi per tutti

Michelle Obama e Hillary

LA CONVENTION DEMOCRATICA DI DENVER

di Mauro Suttora

Oggi, 30 agosto 2008

Denver (Stati Uniti)
La più ambiziosa delle First ladies ha dovuto lasciare il posto alla più riluttante. Povera Hillary Clinton, per otto anni moglie del presidente americano Bill, da altri otto potentissima senatrice dello stato di New York, e negli ultimi otto mesi avversaria sconfitta del candidato presidente Barack Obama: ora le tocca sorridere a Michelle, moglie di Barack.

Che sorriso forzato e amaro, il suo. Ha raccolto 18 milioni di voti nelle primarie, a gennaio era sicura di vincere. Ora invece deve simulare felicità per il trionfo di Obama alla convention democratica di Denver. E per di più, a 60 anni, vede ascendere la stella di Michelle, che a 44 anni è adulata dal mensile Usa Vanity Fair come «donna più elegante del pianeta».

E pensare che ancora pochi mesi fa Michelle non ne voleva sapere di mettersi in prima fila accanto al marito. «Le campagne elettorali sono tremende, con tutte quelle mani da stringere e quei fondi da raccogliere», aveva confessato nel 2000, quando Obama fallì il primo tentativo di farsi eleggere a Washington (c’è riuscito solo nel 2004, ed è incredibile come negli Usa possa diventare presidente una persona con appena quattro anni di esperienza parlamentare).

«Non c’è proprio nulla che ti piace, della carriera politica di Barack?», le chiese il suo capo all’università di Chicago. E lei, scherzando ma non troppo: «Beh, dopo gli inviti in così tanti salotti mi è venuta qualche idea in più per arredare la casa…»

E invece alla convention è stata lei a pronunciare il discorso d’apertura. Preceduto addirittura da un documentario sulla sua vita, onore finora riservato solo ai candidati presidenti. E così l’America ha potuto ammirare la deliziosa bimba con le treccine del quartiere South Side, il ghetto nero di Chicago, figlia di un impiegato comunale colpito da sclerosi multipla, che via via diventa sorella, moglie e madre.

«Mostrare le radici di Michelle serve a bilanciare l’eccessivo “internazionalismo” di Obama», spiegano gli esperti di campagne presidenziali, «perché Barack è figlio di un keniota, è nato a Honolulu, è cresciuto in Indonesia, si è laureato ad Harvard… Troppo “fighetto” per l’elettorato popolare e patriottico, che gli preferisce l’ex soldato John McCain».

Così Michelle è stata costretta a lanciarsi nella mischia. Ora tutta l’America sa che i suoi vestiti Gap costano 79 dollari, perché siamo in tempi di crisi e quindi basta con i tailleur firmati di Hillary. Le femministe l’hanno criticata dopo che si è dimessa dall’ospedale in cui era funzionaria per dedicarsi a tempo pieno alla campagna. Ma la posta in gioco è troppo alta: «Ora o mai più», dicono sia i neri d’America, che con il 12 per cento della popolazione hanno un solo senatore su cento (Obama, appunto), sia i supporter del partito democratico che perdono da 40 anni (tranne le parentesi Carter e Clinton).

Il problema è che, mentre a giugno i sondaggi davano Obama davanti a McCain con un distacco di otto punti, adesso i due candidati al voto del 4 novembre sono appaiati. Il presidente George Bush, con le sue interminabili guerre d’Afghanistan e Iraq, resta impopolare. Ma Obama è considerato troppo inesperto per affrontare le crisi internazionali, come la recente invasione russa della Georgia.

La quale si è trasformata in un giallo dopo l’accusa del premier russo Vladimir Putin: «Gli Stati Uniti hanno spinto la Georgia ad attaccare l’Ossezia per favorire un candidato alla presidenza». Inaudito: Bush avrebbe provocato apposta il conflitto perché in tempi di tensione il repubblicano McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, verrebbe visto dall’elettore medio come un migliore «comandante in capo» delle forze armate Usa.

Così Obama si è scelto come candidato vicepresidente l’esperto Joe Biden, senatore da 36 anni e presidente della Commissione esteri. Gliel’ha consigliato Caroline Kennedy, la figlia di John e Jackie anche lei sul palco a Denver. Il momento più commovente della convention è stato il discorso d’addio di suo zio, il vecchio senatore Ted colpito da tumore al cervello. Ted, lungimirante, aveva preferito Obama a Hillary già all’inizio delle primarie. Così la fiaccola della famiglia politica democratica più famosa d’America ha saltato una generazione, quella dei sessantenni Clinton, ed è finita nelle mani dei quarantenni Obama.

Non è un mistero che Barack sia affascinato dal mito di John e Bob Kennedy, e intenda proseguirne l’opera interrotta dagli spari di Dallas (1963) e Los Angeles (1968). Ma c’è un altro grande statunitense che Obama ha voluto onorare, scegliendo proprio l’anniversario del suo discorso più famoso (28 agosto 1963) per pronunciare la propria accettazione della candidatura: Martin Luther King. «I have a dream», ho un sogno, aveva proclamato il premio Nobel della pace prima di essere anche lui ucciso.

Il sogno rimane lo stesso, quarant’anni dopo: che neri e bianchi possano raggiungere una parità effettiva, e non solo formale. Ora si sono aggiunte altre minoranze, in quell’inimitabile crogiolo che restano gli Stati Uniti: ispanici, asiatici, arabi. Il primo presidente di colore nella storia d’America rappresenterebbe un simbolo potentissimo di uguaglianza. Anche per il resto del mondo.

Mauro Suttora

Friday, September 05, 2008

Khalilzad presidente dell'Afghanistan?

L'ambasciatore Usa all'Onu vuole succedere a Karzai

Il Foglio, 3 settembre 2008

di Mauro Suttora

Quella di presidente dell’Afghanistan è una delle poltrone meno salubri del mondo. L’elegantissimo Hamid Karzai, che la occupa da sette anni, ha subìto finora quattro attentati. L’ultimo quattro mesi fa: un bambino di dieci anni e altre due persone sono state uccise al suo posto. “Presidente dell’Afghanistan”, poi, è una parola grossa. Per il territorio che realmente controlla, molti lo definiscono “sindaco di Kabul”.

Eppure c’è un uomo che non vede l’ora di partecipare alla prossima elezione presidenziale in Afghanistan. Si terrà cinque anni dopo la precedente, quella dell’ottobre 2004 che fu la prima democratica nei cinquemila anni di storia del Paese. Non si sa bene ancora quando. C’è stata una lunga disputa per fissare la data, d’altronde in Afghanistan si litiga su tutto. Le scorse elezioni erano costate tantissimo, 350 milioni di dollari donati dalla comunità internazionale, e dopo pochi mesi si rivotò per il Parlamento. Così i pragmatici hanno proposto di accorpare i prossimi voti, allungando di qualche mese il mandato di Karzai e accorciando di altrettanto quello dei parlamentari. Niente da fare, compromesso fallito. Si voterà quindi separatamente, cominciando con le presidenziali nella seconda metà del 2009. Poiché autunno e inverno sono stagioni proibitive nelle montagne afghane, al massimo all’inizio di ottobre.

L’uomo che già si scalda i muscoli per scalzare Karzai vive a Manhattan, ha 57 anni e si chiama Zalmay Khalilzad, confidenzialmente Zal. Da due anni è ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu. Prima lo è stato per due anni in Iraq. Prima ancora, per due anni ambasciatore Usa in Afghanistan. Adesso, sta facendo imbestialire i suoi superiori al Dipartimento di Stato perché tutti si accorgono che si sta preparando al suo prossimo lavoro, invece di obbedire agli ordini dei tanti vicesegretari e sottosegretari che affollano il Foggy Bottom statunitense.

Fa bene Zal a mandarli a quel paese? Lui di Afghanistan ne sa più di tutti, semplicemente perché è afghano. Di etnia pashtun, come Karzai, anche se è nato nel nord, a Mazar i Sharif, mentre l’elegantissimo viene da una tribù altrettanto ricca ma meridionale, da Kandahar. I padri li spedirono entrambi a fare il liceo a Kabul, e loro non s’incrociarono solo per la differenza d’età, sei anni.

Zal nel ’67 finì in California, uno delle centinaia di “exchange student” dell’Afs (American Field Service). Un anno da senior nella high school della città di Modesto, nome agli antipodi della sua prorompente personalità. Ma invece di diventare figlio dei fiori e consigliare ai suoi coetanei californiani peace&love i migliori indirizzi dove procurarsi hashish afghano, Zal si è trasformato nel più militarista fra i falchi. Merito o colpa del leggendario professor Albert Wohlstetter dell’università di Chicago, che oltre a Zal ha covato Paul Wolfowitz e tutta una nidiata di futuri neocon.

Ora i neocon non vanno più di moda a Washington, e comunque in questi pochi mesi di residua presidenza Bush tutti gli alti gradi del Dipartimento di Stato stanno pensando al loro prossimo job. Molti faranno come fece Zal dal ’92 al 2000, durante l’era Clinton, e reperiranno qualche think tank da cui farsi mantenere. Lui, dopo aver servito sotto Dick Cheney e Wolfowitz nelle presidenze Reagan e Bush senior, non ebbe problemi a farsi dare un posto alla Rand Corporation, visto che era uno dei maggiori esperti di Afghanistan. Fu Zal per tutti gli anni Ottanta a coordinare gli aiuti militari Usa ai mujaheddin, che fecero impazzire gli occupanti sovietici.

Nessuno lo ha ancora superato negli Stati Uniti, come fine conoscitore dei meandri tribali afghani. Non si capisce quindi a quale titolo John Negroponte, suo predecessore sia all’Onu, sia all’ambasciata di Baghdad, e ora vice di Condi Rice allo State Department, gli faccia mandare umilianti e pubbliche e-mail di richiamo (in copia per conoscenza a New York Times e Washington Post) con l’accusa di condurre una “diplomazia personale”.
Certo, non è un mistero che da mesi i suoi amici afghani preparino per lui un comitato elettorale a Kabul. Raccolgono fondi, organizzano riunioni, li si può addirittura incontrare ogni giovedì a pranzo nell’hotel Serena. Karzai è furibondo.

D’altra parte, è sicuro che Zal da gennaio sarà disoccupato, perché né Obama né McCain rinnoveranno il mandato a uno che sul tavolo del suo alloggio all’hotel Waldorf-Astoria tiene come simpatico souvenir, invece della famosa pistola del predecessore John Bolton sulla scrivania dell’Onu, un fucile d’assalto AK-47 proveniente dall’arsenale di Saddam Hussein. Perché sono fatti così i neocon, ancora meno in auge nelle ultime settimane dopo i débordements del loro protegé georgiano Saakashvili: magari sbruffoni, ma adorabili viveurs capaci di perdere la presidenza della Banca Mondiale per un’amante (Wolfowitz), la rappresentanza alle Nazioni Unite per una battuta di troppo (Bolton), e adesso la guida dell’Afghanistan per una sfacciataggine eccessiva (Zal).

Dicono che Khalilzad stia antipatico a Negroponte ma simpatico a Condi, che il suo ex mentore Cheney non lo possa più sopportare ma che Bush in persona ne apprezzi ancora la personalità “larger than life”. Sicuramente più larga di quella del povero Andrew Young, il primo ambasciatore Usa di colore all’Onu nominato da Jimmy Carter, che perse il posto nel ’79 per lo stesso sgarro imputato a Zal: diplomazia “personale” e contatti allora vietatissimi con i palestinesi dell’Olp.

La verità è che Zal se ne fotte allegramente, della diplomazia. Se ne è sempre fottuto. Soprattutto di quella di carriera, dei frustrati del Dipartimento di Stato che pretendono di compilare dossier sull’Afghanistan sapendo solo quattro parole di pashtun. Ma anche dell’inutile macchina dell’Onu, che sta rendendo lui un frustrato, e che lo annoia profondamente. Lo scorso gennaio i burocrati dello “State” lo avevano perfino escluso dalla delegazione americana a Davos. Allora Zal è andato per conto suo in Svizzera, e ha fatto imbestialire tutti gli “assistant” e i “deputy” segretari di Stato partecipando a un dibattito con Manouchehr Mottaki, ministro degli Esteri iraniano. Lo hanno accusato quasi di intelligenza col nemico, lui che a ogni dibattito nel Palazzo di vetro si trova isolato nel chiedere inasprimenti delle sanzioni contro l’Iran.

Ma fin qui, le intemperanze di Zal sono passabili. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scorsa settimana, è stata invece la rinnovata consuetudine con Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e da mezzo mese candidato a succedere a Pervez Musharraf alla guida del Pakistan.

Anche qui, il fiuto di Zal è innegabile. Da dieci anni era diventato amico di Benazir e del suo discusso marito, cenando con loro a Londra, New York o Ginevra, e viaggiando con la coppia sull’aereo privato verso Aspen.
Scommessa riuscita, perché se Benazir non fosse stata falciata dall’attentato dello scorso dicembre, ora presidente del Pakistan sarebbe lei. «Ma gli Stati Uniti adesso sono neutrali nelle presidenziali pakistane, tu non puoi dare consigli e aiuti a Zardari», ha scritto tramite e-mail l’assistente segretario Richard Boucher a Zal. Così quest’ultimo ha dovuto annullare all’ultimo momento un incontro privato con Zardari a Dubai.

Insomma, per gli Stati Uniti il dilemma è: affidare posti di governo importanti a stranieri naturalizzati, capitalizzando la loro preziosa esperienza ma rischiando figuracce come quella con l’iracheno Ahmed Chalabi? Oppure vietare ai cittadini provenienti da una nazione di occuparsi del proprio Paese d’origine, come fanno le diplomazie britannica, australiana, canadese e neozelandese?

Zal è un seduttore nato, e all’Onu ha affascinato molti: “Ci consulta sempre, non è il solito americano aggressivo”, lo loda l’ambasciatore sudafricano. Ma quelli americani in Afghanistan, Pakistan e Iraq lo detestano, perché si sentono scavalcati da questo afghano elegante e brillante: parla troppe lingue misteriose a loro sconosciute. E non capiscono bene quanto sia intelligente, o furbo, o leale. E a chi.

Mauro Suttora