Thursday, April 24, 2008

Anne Hathaway

Povera Anne, il diavolo veste Prada e Raffaello

Dopo gli ultimi guai, crolla la reputazione del compagno della Hathaway

Lui, Follieri, il giovane italiano che aveva conquistato New York e il cuore dell' attrice (segretaria di Meryl Streep nel famoso film), è stato arrestato per assegni a vuoto. Dopo la scarcerazione dice: "È un equivoco". Ma convincerà almeno la fidanzata ?

di Mauro Suttora

New York, 23 aprile 2008

Padre Pio lo ha protetto pure questa volta, il 29enne Raffaello Follieri da San Giovanni Rotondo (Foggia). Ha fatto in modo che la sua celebre fidanzata, Anne "occhi di cerbiatto" Hathaway, 25 anni, non fosse vicino a lui quando è stato arrestato a New York per emissione di assegni a vuoto. E che assegno: 250 mila dollari, mentre il conto che avrebbe dovuto coprirlo ne aveva soltanto 37. "Uno spiacevole fraintendimento", ha spiegato il legale di Follieri dopo essere riuscito a farlo liberare, "quell' assegno non doveva andare all' incasso, era una semplice garanzia emessa dal mio assistito".

Anne Hathaway è una delle giovani attrici più in voga d' America. L' avevamo intervistata sei anni fa nell' Essex House di Manhattan, quando uscì il suo film Nicholas Nickleby, tratto da un celebre romanzo di Charles Dickens. Non aveva ancora vent' anni, e ci era sembrata una ragazzina indifesa e abbastanza impreparata per la fama che le era appena cascata addosso grazie all' interpretazione di Mia in 'Pretty Princess', il successone planetario targato Walt Disney del 2001.

Poi l' intervista non uscì, perché Nicholas Nickleby non riuscì neppure ad arrivare nei cinema italiani (fu visto in dvd e alla tv). Comunque la stoffa c' era, e da allora la delicatissima Anne di strada ne ha fatta parecchia: il sequel della principessa (Principe azzurro cercasi) nel 2005, ma soprattutto la segretaria della tremenda Meryl Streep in Il Diavolo veste Prada l' anno seguente, e il premio Oscar 'Brokeback Mountain'.

Nel frattempo, la dolce Anne conosce un intraprendente giovanotto italiano appena sbarcato a New York dalla Puglia, se ne innamora e da allora - sono ormai cinque anni - non lo lascia più. Lui sembra molto ricco, e la riempie di attenzioni: viaggi in jet privato, vacanze da sogno negli alberghi più lussuosi del mondo (l' anno scorso al Cala di Volpe di Porto Cervo e a Capri), un appartamentone a due piani nel grattacielo Olympic di Aristotele Onassis sulla Quinta Avenue.

Insomma, per la giovane attrice tendente alla malinconia sembrava essersi avverata una di quelle favole che aveva interpretato sullo schermo. Il principe azzurro si chiamava Raffaello ed era entrato come un caldo uragano latino nella sua vita algida e compassata. "Mi ha salvato lui dalla depressione", ha confessato Anne in un' intervista.

L' anno scorso, però, sono apparse le prime crepe nella vita apparentemente brillante e sopra le righe di Follieri. Che sosteneva di avere fatto fortuna grazie a intermediazioni immobiliari per conto della ricca Chiesa cattolica statunitense. Il suo socio americano, il potentissimo re californiano dei supermercati Ron Burkle, lo denuncia, accusandolo di "finanziare illecitamente la sua vita da re con soldi aziendali".

E pensare che solo pochi mesi prima aveva conquistato la prima pagina del Wall Street Journal. Gestiva infatti un impero immobiliare di qualche centinaio di milioni e finanziava generosamente le iniziative umanitarie dei Clinton ("Bill e Hillary sono amici", si vantava). Il socio Burkle era addirittura impegnato in un braccio di ferro con Rupert Murdoch per la conquista proprio del Wall Street Journal.

Ma l' enfant prodige di San Giovanni Rotondo questa volta fa notizia sulla prima pagina del più autorevole quotidiano finanziario del mondo come protagonista (in negativo) di una presunta truffa: la Yucaipa, la finanziaria di Burkle, lo ha denunciato per avere "coscientemente e sistematicamente" utilizzato a fini personali almeno 1,3 milioni stornati dalle casse della società.

I soldi sarebbero stati usati tra l' altro per "viaggi in jet privato con la fidanzata, per una suite a New York, per cure mediche per i familiari e persino per quelle del labrador di casa". Follieri nega tutti gli addebiti sostenendo che la joint venture con Burkle controlla "diversi immobili di prestigio" e che l' opposizione del finanziere Usa a diverse operazioni ne ha danneggiato i conti "ben più dei presunti reati segnalati dalla denuncia".

Eppure l' idillio tra il raider a stelle e strisce e l' imprenditore pugliese sembrava essere iniziato sotto i migliori auspici. I due si erano conosciuti a metà 2005. Burkle era rimasto folgorato dai piani di Raffaello: comprare terreni e immobili dalla Chiesa (grazie ai buoni uffici di Andrea Sodano, nipote dell' ex segretario di Stato del Vaticano cardinale Angelo Sodano, definito nella denuncia vicepresidente del Follieri group) e trasformarli in abitazioni per i meno abbienti o centri sociali e comunitari.

Burkle aveva messo a disposizione sull' unghia 150 milioni per il progetto. Non si era preoccupato delle accuse di una parte della stampa cattolica Usa, che da tempo aveva messo nel mirino la straordinaria e improvvisa fortuna messa assieme da Follieri. Anzi, aveva rafforzato l' asse con il socio unendo le forze anche sul fronte della filantropia: nel 2006 i due si erano presentati assieme al galà della Clinton Global initiative, dove l' ex presidente americano aveva chiamato sul palco Raffaello, ringraziandolo per il milione donato per vaccinare bambini in Nicaragua. Poi però le cose si sono messe male. I rappresentanti di Burkle si sono stupiti per le continue richieste di capitale di Follieri. E quando hanno messo il naso nei conti sono saltate fuori "stravaganze personali e spese fuori controllo". Due settimane fa, ecco la seconda tegola per Raffaello.

A questo punto tutta New York si chiede: Anne lo mollerà ? Lei ora è a Boston, dove sta girando un film con Candice Bergen e Kate Hudson. Ma neanche lei è più la santarellina di una volta. Ha fatto scandalo apparendo nuda l' anno scorso nel film 'Havoc Fuori Controllo'. E fuori controllo, oltre ai conti del fidanzato Raffaello, sembrano essere anche alcune sue bevute: è stata infatti sorpresa poche settimane fa dai paparazzi del New York Post mentre se ne tornava a casa con ben cinque bottiglie di assenzio acquistate in un negozio di alcolici di Park Avenue. L' assenzio, la droga dei poeti maledetti come Baudelaire, vietata fino all' anno scorso negli Stati Uniti. Che per Anne adesso il Diavolo vesta Raffaello ?

Mauro Suttora

Il Baratto per Santoro

IL VELTRUSCONI DELL'84 CHE PORTO' SANTORO TRA LE BRACCIA DELLA RAI

Michele torna a cavalcare l'antiberlusconismo. In un libro la storia dello scambio Walter-Silvio che fece la sua fortuna

di Mauro Suttora

Libero, 24 aprile 2008

Questa sera Michele Santoro si occuperà di camorra. Non potrà quindi ripetere il clamoroso 4-1 della scorsa settimana, quando nel suo 'Anno Zero' invitò ben quattro ospiti per il centrosinistra (Di Pietro, l'architetto Fuksas, il professor Sartori e il fisso Travaglio) contro il povero Filippo Facci, unico simpatizzante del centrodestra e fra l’altro più bravo a scrivere che a interloquire in tv.

Ma certamente quanto ad antiberlusconismo Santoro si rifarà nelle prossime settimane. Peccato, perché invece il conduttore Rai dovrebbe essere immensamente grato a Silvio Berlusconi. E non solo ricordando il triennio passato alle sue dipendenze (1996-'99), godendo di assoluta libertà per il proprio programma 'Moby Dick' (Santoro, offeso perché il presidente Rai Enzo Siciliano fece finta di non conoscerlo pronunciando la memorabile domanda "Michele chi?", migrò a Mediaset da un giorno all'altro).

In realtà Santoro è una vera e propria "creatura" di Berlusconi. Infatti, se nell'86 Raitre non fosse stata data al Pci in cambio del via libera ai canali Fininvest, lui non sarebbe mai stato chiamato a fare 'Samarcanda'. Sarebbe rimasto un oscuro giornalista-funzionario del Pci.

Ce lo ricorda un bel libro appena pubblicato: 'Il Baratto' di Michele De Lucia (ed. Kaos). È il documentatissimo resoconto di come le intese più o meno larghe fra l'allora comunista Walter Veltroni e Berlusconi siano iniziate già 24 anni fa. Nell'autunno '84, infatti, mentre ufficialmente il Pci strepitava contro lo "strapotere del piduista", Achille Occhetto e Veltroni incontrarono segretamente Berlusconi. Da un anno l'appena 28enne Walter era stato nominato capo della sezione Comunicazioni di massa del Dipartimento propaganda e informazione, che per il Pci erano un tutt'uno. E Occhetto era il suo diretto superiore.
Nell'agosto '84 la Fininvest aveva comprato per 135 miliardi dalla Mondadori il terzo dei suoi canali, Retequattro, salvandola dal fallimento. E Veltroni aveva tuonato: "Stiamo assistendo a un pesante attacco che tende a consegnare l'intero settore dell'emittenza privata nelle mani di uomini implicati nella P2 come Berlusconi".

Indignazione pubblica, ma trattative private. De Lucia infatti ricorda che lo stesso Occhetto rivelerà, anni dopo, l'abboccamento segreto con Berlusconi: "L'incontro - un po' carbonaro - avviene in un'imprecisata 'sera settembrina' del 1984, in un salotto di piazza Navona non meglio specificato, né si sa chi sia l'organizzatore-padrone di casa". Lo staff di Berlusconi è al completo. "Bravi, svegli e manager", li definisce Occhetto.
Il Pci ha appena effettuato il suo primo (e ultimo) sorpasso sulla Dc alle europee: 33,3 per cento contro il 33. "Walter e io siamo gli esponenti del più forte gruppo politico d'opposizione", racconta Occhetto. "Non che non li conoscessimo. Walter ha avuto dei contatti con un esponente del gruppo Fininvest presente all'incontro, ma li ha interrotti perché diffidavamo".
La Fininvest propone: "Si potrebbe affidare alle reti pubbliche tutta l'informazione, mentre noi trasmetteremmo e produrremmo spettacolo. Ci interessa soprattutto la fiction". Occhetto guarda Veltroni e dice: "Ma questa, Walter, è la tua proposta o sbaglio?" "Sì, in realtà è proprio quella".

Nell’ottobre ’84 i pretori di Torino, Roma e Pescara ordinano il sequestro degli impianti Fininvest perché una norma del Codice postale vieta ai privati trasmissioni tv a livello nazionale. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi vara un decreto legge per autorizzare provvisoriamente le trasmissioni.

“Il Pci”, scrive De Lucia, “vuole approfittare della situazione per ottenere la Terza rete Rai, con annesso Tg3. (…) Nel gennaio 1985 viene raggiunto un accordo fra il governo e l’opposizione comunista sul decreto Berlusconi. Il 31 gennaio il decreto viene approvato con 262 voti favorevoli e 240 contrari. Il Pci, assicuratosi che il provvedimento avesse la maggioranza, vota no esercitando un’opposizione definita ‘duttile e morbida’.
Falce, martello, coltello, forchetta e bavaglino, nella più pura tradizione consociativa. Il 4 febbraio anche il Senato approva in extremis (il decreto sta per scadere) con 137 voti contro 15. Dopo avere garantito il numero legale durante la discussione, al momento del voto i senatori comunisti lasciano l’aula: una plateale sceneggiata per salvare le apparenze”.

Nel dicembre ’85 il Tribunale di Roma assolve in appello la Fininvest perché le trasmissioni nazionali tv non costituiscono reato. “Il 12 settembre ’86 a Milano, al Festival nazionale dell’Unità”, scrive De Lucia, “si svolge un dibattito cui partecipano Veltroni, Berlusconi, il presidente Rai Sergio Zavoli e l’editore Mario Formenton della Mondadori.
È un minuetto Pci-Fininvest, una corrispondenza di amorosi sensi. Il compagno Veltroni avverte: ‘Non ha giovato al gruppo Fininvest l’eccessivo padrinato politico dato da uno e un solo partito [il Psi, ndr]’”
Insomma: mollate Craxi, e smetteremo di attaccarvi. Berlusconi ringrazia: “Mi fa caldo al cuore l’idea che il Partito comunista, da tempo ormai, si apra alla considerazione di queste realtà con tanto senso concreto, con tanto senso pragmatico…”

Il 5 marzo ’87, infine, il nuovo consiglio d’amministrazione Rai (in cui siedono fra gli altri per la Dc Marco Follini e il futuro presidente Sergio Zaccaria) paga la cambiale promessa a Veltroni: consegna la Terza rete e il Tg3 al Pci, nominando direttore di Raitre Angelo Guglielmi e alla guida del Tg3 il comunista di lungo corso Alessandro Curzi.
Pochi mesi dopo Guglielmi affida a Santoro un programma di approfondimento: ‘Samarcanda’. L’ex maoista di Salerno, poi funzionario del Pci (“Ma litigava con tutti”, ricorda il dirigente Isaia Sales), poi giornalista del quindicinale comunista ‘La Voce della Campania’ (che dirige per un anno fino alla chiusura nell’80), poi redattore all’Unità (“Ma non ha mai scritto una riga”, ha raccontato l’ex collega Antonio Polito), infine rifugiatosi in Rai, ha successo e va avanti fino al ’92.
Poi cambia nome al programma: Rosso e Nero, Tempo Reale. Dopo la parentesi Mediaset ecco Circus, Sciuscià, ora Anno Zero. Si chiama “debrandizzazione”: un vortice di nomi, così alla fine tutti dicono: “da Santoro”. Lo stipendio lievita: 660 mila euro e rotti l’anno scorso. Ma se non ci fosse stato quel baratto Berlusconi-Veltroni 22 anni fa… Ingrato Michele.

Mauro Suttora

Thursday, April 10, 2008

Il caso Valter Vecellio

IN RAI IL PRIMO LOTTIZZATO PUBBLICO

di Mauro Suttora

Libero, 10 aprile 2008

Basta con l’ipocrisia. Tutti sappiamo che (quasi) tutti i giornalisti Rai sono lottizzati. Quindi tanto vale che ciascun partito, capocorrente o padrino si batta pubblicamente per i propri protetti. Senza sotterfugi, senza i «bigliettini» di raccomandazione che costarono il posto di direttore del Tg1 a Gad Lerner. Apertamente, anzi clamorosamente. A infrangere riti e finzioni di Bisanzio è Marco Pannella, che ora digiuna per Valter Vecellio. Il quale passerà così alla storia come il primo giornalista raccomandato ufficiale d’Italia.

Mentre tutti nascondono i propri «referenti» politici, 102 militanti e dirigenti radicali addirittura si affamano per fare avere a Valter, 54enne bravo e burbero vicecaporedattore del Tg2, un programma tutto suo. Anzi un «format», come dicono i fichissimi. Naturalmente il tema di questo programma è all’altezza dei radicali: planetario. Si dovrà occupare nientedimenoche della «violazione dei diritti umani nel mondo e delle lotte messe in atto per affermarli», spiega Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani.

Insomma, cose come Tibet, Cina, Birmania, Darfur. Sarà quindi un programma sui radicali stessi, che da decenni si battono per cause come queste, e altre ancora più dimenticate come gli uiguri del Turkestan orientale, o i montagnard del Vietnam. Ma tutta questa benemerita attività umanitaria transnazionale ora si concentra in un obiettivo ‘ad personam’ italianissimo, anzi romanissimo, anzi saxarubrissimo: «Chiediamo che si ponga fine alla conventio ad excludendum nei confronti dei radicali, e per questo indichiamo con chiarezza il nome di chi potrebbe dirigere il settore di riforma: un professionista capace e stimato come Vecellio», specifica la Bernardini.

Evviva la sincerità. Vent’anni fa Pannella scandalizzò il mondo eleggendo Cicciolina, e oggi un altro tabù è rotto: quello del cosiddetto ‘servizio pubblico’. In realtà servizio di fazioni privatissime. E allora anche i radicali dopo mezzo secolo di dolente verginità si adeguano. Reclamando, buoni ultimi, il proprio brandello di Libano.

Il bello è che il povero Vecellio, simbolo di questa surreale lotta nonviolenta, ha una sua dignitosissima storia giornalistica. Profugo dalla Libia, cacciato da Gheddafi, dal ’74 lavora a Notizie radicali, l’organo del partito. Negli anni ’70 inventa le prime rassegne stampa d'Italia su Radio radicale, ma nell’82 tradisce Pannella per Craxi assieme al direttore della Radio Lino Jannuzzi, l’ex segretario Geppi Rippa e Marco Boato. Si rifugia all’Avanti! dove per una decina d’anni verga editoriali di fuoco contro i radicali esibendo l’odio degli ex, finché nel ’91 approda al Tg2 in quota Psi.

Poi, anche grazie al comune amore per Leonardo Sciascia (Vecellio è stato presidente dell’«Associazione degli amici» dello scrittore e deputato radicale), è tornato all’ovile. Pannella, come tutti quelli che si sentono un po’ Gesù, adora i figlioli prodighi. Così gli ha affidato la direzione di Notizie radicali. Che Valter firma italianizzando il proprio nome: Gualtiero.

Mauro Suttora

Magdi Allam

LA CONVERSIONE DI ALLAM, CRISTIANO SCOMODO

Nato in Egitto e, da ragazzo, praticante musulmano, il vicedirettore del «Corriere della Sera» ha scelto pubblicamente il cattolicesimo. Afef lo accusa: «Incita all’odio». E anche alcuni cattolici disapprovano. Ecco perché

di Mauro Suttora

Roma, 9 aprile 2008

È stata una settimana di passione, per Magdi Allam. Non quella ufficiale, prima di Pasqua: quella dopo. Dopo la sua conversione dall’islam al cattolicesimo nella notte della veglia pasquale, con battesimo, cresima e comunione impartiti dal Papa in persona, nella basilica di San Pietro. E tanto di riprese tv e foto che hanno fatto subito il giro del mondo, esponendo Magdi Cristiano Allam (questo il nuovo nome che si è scelto), 55 anni, vicedirettore del Corriere della Sera, a nuove critiche e minacce sanguinose da parte di fanatici islamici.

Non che non ci sia abituato, Allam, alle condanne a morte (fatwa). A causa dei suoi articoli da cinque anni vive sotto scorta: tre agenti lo seguono ovunque e stazionano sotto casa. Da pochi mesi è diventato padre, e anche la moglie Valentina Colombo, islamista e traduttrice dall’arabo, deve condividere la sua vita blindata. Si sono sposati un anno fa, si risposeranno in chiesa il 22 aprile (giorno del compleanno di Magdi).

Dopo il suo clamoroso gesto è arrivato anche qualche applauso. Quello del quotidiano progressista israeliano Haaretz, per esempio, che lo definisce «uno degli intellettuali più brillanti e coraggiosi d’Europa». Ma forse è solo riconoscenza, per il libro che Allam ha scritto l’estate scorsa: 'Viva Israele' (ed. Mondadori).

In Italia il centrodestra appoggia Allam. Ma neanche Michele Brambilla, vicedirettore (cattolico) del Giornale di Berlusconi, rinuncia a impartirgli una lezione: «Non si passa da una fede all’altra per motivazioni culturali o sociali o politiche. Si passa a un’altra religione per il solo motivo che la si ritiene vera. Si diventa cristiani non perché si crede che l’occidente sia meglio del mondo islamico, ma perché si crede che Cristo sia risorto. La scoperta di questo avvenimento avrebbe dovuto suggerire ad Allam di manifestare più la sua gioia per la nuova vita che una polemica nei confronti della religione da cui proviene».

Insomma, come nota lo stesso Brambilla, Allam ha subìto il singolare destino di vedersi criticato da tutti: cattolici, laici e musulmani. Fra questi ultimi, particolarmente dura è Afef Jnifen. La quale lo ha accusato su La Stampa: «Allam incita all’odio».

Precisando di non essere mai stata praticante, la bella moglie del presidente della Pirelli Marco Tronchetti Provera spiega: «Non posso più tacere sulla disinformazione riguardo al mondo musulmano che Magdi Allam porta avanti da anni. Non sono interessata alla sua conversione, e così credo la maggioranza degli italiani, ma ho ben chiaro qual è il suo obiettivo. Allam grida al genocidio contro gli ebrei e i cristiani nel mondo islamico. Ci sono stati e ci sono casi, ce lo insegna la Storia. Ma ci sono conflitti anche all’interno di una stessa religione, tra sciiti e wahabiti, tra sunniti e sciiti, tra cattolici e protestanti. Di questo, però, Allam non scrive, come non scrive dei tanti sforzi per favorire il dialogo interreligioso. Lui vuole soltanto alimentare i conflitti, infiammare lo scontro di civiltà per cercare di passare alla storia come simbolo e vittima di queste crisi. È diabolico, ma non ci riuscirà».

«Religione violenta»

Cos’ha detto di così grave, il «diavolo» Magdi ora Cristiano? «Oggi in Italia non è possibile a un musulmano convertirsi al cristianesimo in libertà e sicurezza. E questo è inaccettabile. (...) Sono condannato a morte per apostasia per aver deciso liberamente di abbandonare la mia religione di appartenza, l’islam, ereditata dai miei genitori, e di abbracciare quella cattolica».
Ma la sua frase che ha infiammato il mondo intero è stata: «Al di là del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale».

«Nessuno oserebbe dire che poiché Mussolini e Hitler erano cristiani il cristianesimo sia violento», replica Afef, «ci sono tanti esempi di tolleranza e dialogo che la gente magari non conosce, ma Allam non ne parla mai. Lui cita soltanto esempi di conflitti. Eppure nei giorni scorsi in Qatar è stata aperta la prima chiesa cristiana e negli Emirati Arabi la quinta, mentre in Oman sono quattro quelle già presenti. Ancora, in Tunisia c’è la più vecchia sinagoga di tutta l’Africa, il Marocco ha avuto un ministro del Turismo di religione ebraica così come oggi il re ha alcuni consiglieri che professano quella fede, mentre in Libano la Costituzione dice che il presidente debba essere cristiano. Allam ha troppo astio dentro di sé, mi auguro che ora dopo il battesimo trovi pace interiore».

Era per l’islam moderato

Allam non risponde agli attacchi di Afef, ma spiega: « È sconcertante il fatto che proprio chi come me si era prodigato per affermare in Italia la realtà di un islam moderato si è poi invece trovato ad essere il bersaglio prediletto di estremisti e terroristi islamici che sono attivi all’estero, ma si annidano anche tra noi e sono presenti in seno alla vasta rete di moschee in Italia».

È interessante scoprire il percorso che ha portato Allam alla conversione. Ce lo racconta lui stesso: «A quattro anni mia madre Safeya, musulmana praticante, mi affidò alle cure di suor Lavinia, comboniana. Poi sono stato in collegio dai salesiani dell’Istituto Don Bosco alle medie e al liceo al Cairo. Lì ho letto la Bibbia e i Vangeli, ero affascinato dalla figura di Gesù. Ho avuto modo di assistere alla santa messa ed è anche capitato che, una sola volta, mi avvicinai all’altare e ricevetti la comunione.

«Negli anni ’60 la presenza amorevole e lo zelo religioso di mia madre mi hanno avvicinato all’islam, che allora era una fede tollerante. Nell’Egitto di Nasser religione e politica erano separate. Laico era mio padre Mahmoud, come la maggioranza degli egiziani che avevano l’Occidente come modello. Ma il totalitarismo di Nasser, che mirò all’eliminazione di Israele, portò alla catastrofe l’Egitto e spianò la strada al panislamismo, all’ascesa al potere degli estremisti e all’esplosione del terrorismo. Dopo il mio arrivo in Italia all’inizio degli anni ’70 tra i fumi delle rivolte studentesche e le difficoltà all’integrazione, ho vissuto la stagione dell’ateismo sventolato come fede».

«Decisivo Benedetto XVI»

Laureato in sociologia, Allam diventa giornalista di Repubblica, dove resta fino al 2003. «Poi la Provvidenza mi ha fatto incontrare persone cattoliche praticanti di buona volontà, a cominciare da tanti amici di Comunione e Liberazione, fino all’abbraccio di alti prelati di grande umanità come il cardinale Tarcisio Bertone e, soprattutto, monsignor Rino Fisichella che mi ha personalmente seguito nel percorso spirituale di accettazione della fede cristiana. Ma l’incontro più significativo nella decisione di convertirmi è stato quello con il Papa Benedetto XVI».

Mauro Suttora

Wednesday, April 02, 2008

Toglietevi dalla testa il posto fisso

PER MILIONI DI GIOVANI IL LAVORO E' UN MIRAGGIO

Stipendi da fame, zero diritti,nessuna certezza per il futuro. È il precariato made in Italy.
Lo raccontano un film e un libro. La ricerca di un’occupazione non coinvolge solo ragazzi e neolaureati, ma anche i loro genitori. E la politica che cosa pensa di fare?

di Mauro Suttora

Roma, 28 marzo 2008

«Sette anni fa vinco un concorso per responsabile tecnico audio e luci di un teatro. Lo stipendio era di 19 mila euro a stagione, non male. Ma il direttore di palcoscenico ha fatto di tutto per screditarmi. Da tre anni, con la scusa che il teatro è in deficit, ha affidato le responsabilità audio e luci a due dipendenti di una sua società. Io sono stato degradato a semplice tecnico. E i 19 mila euro diventano ottomila, contratto a progetto. Con questa miseria non posso far vivere la mia famiglia. Alla fine, con le trattenute a mio carico, sono settemila euro per nove mesi. Ho chiesto a un avvocato, ma dice che con questo tipo di contratto non posso fare nulla».

Storie di ordinario precariato. Questo è Paco, ex «ragazzo» ormai trentenne di una città del Sud. Dove la piaga picchia forte, perché mentre nel resto d’Italia la media è del 12 per cento, in meridione ogni cento lavoratori dipendenti sono ben 25 quelli a termine. Che salgono a 30 fra i ragazzi e a 40 fra le ragazze.

Un’incertezza che si propaga al resto della vita, che uccide i sogni delle nuove generazioni, e che ora è entrata anche nel dibattito politico, dopo il consiglio di Silvio Berlusconi a una precaria: «Lei è così carina, potrebbe risolvere i suoi problemi sposando il figlio di un miliardario». Era una battuta scherzosa, ma ha fatto arrabbiare molti.

Nominati ed esclusi

Venerdì 28 marzo debutta nei cinema italiani il nuovo film di Paolo Virzì: 'Tutta la vita davanti'. Racconta le vicende dei precari in un call center: grottesche, divertenti, amare.

«I ragazzi vengono selezionati», racconta Virzì, «e poi, come nei reality show,”nominati” ed “esclusi”. Sembrano accettare questa drammaturgia da programma televisivo, dove nel rito è previsto il momento dell’espulsione, che anzi in Tv fa il picco di ascolto. Sono cambiate perfino le parole, non si parla più di assunzioni e licenziamenti… Troppo spesso oggi il mondo del lavoro per i giovani è o precariato o privilegio, cioè raccomandazione. I figli dei privilegiati agguantano i lavori “fichi”, mentre ai figli degli operai restano i call center a quattro ore al giorno per 400 euro al mese».

Nel film l’attore Valerio Mastandrea è il sindacalista che tenta di far prendere coscienza ai ragazzi dei loro diritti. Ma viene respinto perché tutti hanno paura di perdere il posto, e deriso perché considerato uno «sfigato».
«In questi nuovi posti di lavoro», dice Virzì, «i ragazzi sono ignari delle battaglie secolari di genitori e nonni per conquistare diritti. Sono soggetti a tecniche di selezione del personale ispirate ai provini dei casting, ne accettano le regole selvagge. Dove una volta c’era la formazione al lavoro e alla solidarietà, oggi resta solo una competizione dove vince il più forte, e i più deboli sono sopraffatti».

Gli schiavi moderni

La protagonista Isabella Ragonese, filosofa disoccupata e telefonista, si trova immersa in un mondo dove è un valore sapere tutto del Grande Fratello, mentre non conta niente avere studiato Heidegger. Il capo dell’azienda è interpretato da Massimo Ghini, mentre Sabrina Ferilli è la responsabile delle telefoniste. Tutti immersi in un mondo assurdo di «telemarketing» truffaldino.

«Milioni di ragazzi intorno a noi tutte le mattine si infilano dentro questa giungla», spiega Virzì, «dentro al mondo della sottoccupazione, nelle lande dei senza diritti, a cercare di strappare qualche soldo per campare. Con Tutta la vita davanti non pretendiamo di proporre soluzioni, ma di comunicare attenzione, tenerezza, sgomento e inquietudine. Una speranza il film l’affida alle donne, alle diverse generazioni di donne ferite che forse, con la loro spontanea solidarietà, possono ricostruire un linguaggio di civiltà».

Tutta colpa della legge Treu e poi della Biagi del 2003, che prende il nome dal professore di Diritto del lavoro ucciso dai terroristi due anni prima? «I provvedimenti che hanno reso possibili il lavoro flessibile ed i contratti a progetto erano anche animati da buone intenzioni, ma da soli non bastano», dice Virzì, «perché andrebbero accompagnati da una politica sociale, da una scuola che funziona, da un’università che premia i capaci».

Garanzie e flessibilità

Se a sinistra ci si preoccupa dei precari, a destra si risponde che il lavoro dev’essere flessibile, e che i giovani pagano con la precarietà le eccessive garanzie dei lavoratori più anziani, i quali una volta conquistato il posto fisso sono licenziabili con grande difficoltà.

«La chiave della contrapposizione generazionale, con i giovani non garantiti che bussano alla porta e i vecchi che non vogliono uscire dal mondo del lavoro, non serve a spiegare la realtà», dichiara a Oggi Enrico Letta del Pd, sottosegretario uscente alla Presidenza del consiglio. «Oggi si può essere precari anche a 50 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza di vita. Alla flessibilità necessaria e inevitabile del nostro tempo devono accompagnarsi salari adeguati e ammortizzatori sociali per i momenti di difficoltà».

E voi cos’avete fatto? «Il governo Prodi ha messo in campo novità importanti, come la totalizzazione dei contributi, introdotta con la legge 247 del 2007: questo significa che anche periodi lavorativi intermittenti serviranno a costruire una pensione. Non è una novità da poco».

Ma è proprio vero che l’Italia negli ultimi anni si è trasformata in un Paese di precari? «No, non è vero», dice l’ex ministro del Welfare Roberto Maroni per difendere la legge Biagi, «che prevedendo contratti a termine e interinali ha semplicemente favorito l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e dato la possibilità di trovare un’occupazione stabile, scongiurando quindi l’alternativa di lavorare in nero, e introducendo una flessibilità regolata. La Biagi non è una legge contro i lavoratori, come la sinistra vuole far credere. Infatti il governo Prodi l’ha sostanzialmente confermata. Si sventola la bandiera del precariato senza dire che l’Italia ha in realtà una percentuale bassa di lavoratori con contratto a tempo determinato: il 12 per cento, contro il 14 di Francia e Germania e il 18 della Spagna».

I vecchi costano troppo

Insomma, niente problemi se anche i giovani d’oggi, come tutti, passano attraverso qualche anno di gavetta e di collaborazioni prima di conquistare un posto fisso. Il problema nasce quando il precariato si prolunga troppo, diventando cronico. «Oppure quando colpisce i quaranta-cinquantenni che vengono espulsi dal mondo produttivo perché costano troppo», avverte Luigi Furini, autore del libro Volevo solo lavorare (ed. Garzanti), in cui racconta le deprimenti vicende di navigati manager sostituiti da giovanotti malleabili che prendono la metà dei loro stipendi. È la «precarietà di ritorno» cui accennava Letta.

«Sono migliaia ormai i casi di lavoratori di grande capacità ed esperienza che incappano in qualche crisi aziendale o piano di ristrutturazione», dice Furini, «e magari accettano con entusiasmo buonuscite anche consistenti, di parecchie decine di migliaia di euro, per dare le dimissioni. Ma poi non trovano più un altro lavoro, i soldi finiscono, e la pensione arriva soltanto a 65 anni per i maschi e a 60 per le donne».

Come quell’ex dirigente Fiat che a 54 anni ha ricevuto la lettera di licenziamento con annesso il «regalo» dei contributi pagati per arrivare alla pensione. Lui ha accettato, ma ha speso tutta la liquidazione per integrare i contributi mancanti. E adesso è ridotto ad aspettare che il tempo passi, e che arrivi presto la vecchiaia. «Altri ex dirigenti si sono messi in proprio, hanno creato un’attività», racconta Furini, «ma alcuni sono finiti dietro al bancone di un bar a servire cappuccini. Certi indossano la divisa del bar, con la scritta “staff” sulla schiena. “Sto dando una mano a un amico”, spiegano, “mi diverto”. Non confesseranno mai che hanno un disperato bisogno di soldi».

Mauro Suttora