Monday, January 21, 2008

Mister Prezzi

ANTONIO LIROSI SORVEGLIA L'INFLAZIONE

di Mauro Suttora

Roma, 30 gennaio 2008

Caro «mister Prezzi», la metto subito alla prova. Il parcheggio di Villa Borghese, qua vicino, ha appena aumentato del 23 per cento l’abbonamento mensile per i residenti: da 135 a 165 euro. Un po’ tanto, anche perché un anno fa c’era già stato un aumento dell’otto per cento. Le sembra giusto?
«I prezzi dei parcheggi sono regolamentati dai Comuni che li danno in concessione».

Quindi dobbiamo protestare con il Comune di Roma?
«Esatto».

Beh, viva la sincerità. Inutile promettere interventi che non si possono fare. Antonio Lirosi, 47 anni, di Polistena (Reggio Calabria), dirigente al ministero dello Sviluppo economico, è stato appena nominato Garante per la sorveglianza dei prezzi dal premier Romano Prodi. Precisa che la sua non sarà l’ennesima Authority, carrozzone burocratico aggiunto al pesante apparato per dare l’impressione di risolvere qualche problema.
«Il mio è un incarico non retribuito e a tempo. Tre anni per fare quattro cose. Primo, creare un sistema di sorveglianza sui prezzi che ci permetta di individuare i fenomeni speculativi in tempo reale. E qui servono le segnalazioni dei cittadini. Ogni Camera di commercio nei capoluoghi di provincia avrà un ufficio prezzi che raccoglierà per telefono, con numeri verdi ed e-mail, le denunce dei consumatori».

Però i governi non hanno potere sui prezzi. Siamo in un libero mercato, quindi ogni commerciante propone i prezzi che vuole.
«Sì, ma dopo avere effettuato una prima verifica sulle lamentele, noi possiamo fare tre cose: mandare la Guardia di finanza in ispezione, segnalare all’Antitrust violazioni della concorrenza come i “cartelli” per tenere alti i prezzi, e infine possiamo rivolgerci direttamente a chi pratica prezzi che si discostano troppo dalle rilevazioni ufficiali».

E che cosa gli dite?
«Qui entriamo nel nostro secondo compito: persuasione e deterrenza. Possiamo scoraggiare comportamenti sul nascere convocando le imprese».

Come fa il ministro dello Sviluppo economico Bersani quando i petrolieri aumentano il prezzo della benzina?
«Esatto. Osservando l’andamento europeo dei prezzi, è facile constatare un divario fra l’Italia e gli altri Paesi proprio in coincidenza degli esodi di agosto e di Natale».

Insomma, i petrolieri fanno i «furbetti» e con la scusa degli sceicchi ci aggiungono qualcosa pure loro.
«Guardi, tutti vorremmo tornare a un anno fa, col petrolio a 50 dollari al barile rispetto ai 100 attuali. Contro l’inflazione importata siamo impotenti: evitiamo almeno di farci più male da soli».

I petrolieri obiettano che in realtà è lo Stato quello che si arricchisce di più grazie agli aumenti dei carburanti, visto che li tassa al 60 per cento.
«Gli aumenti saranno defiscalizzati: non si pagheranno più accise né Iva».

Riuscirete a «raffreddare» anche gli altri prezzi? Con i costi internazionali di materie prime come il grano in aumento, ormai la nostra inflazione sfiora il tre per cento.
«Effettueremo pressione e controllo sociale sulle categorie, promuovendo accordi fra le associazioni delle imprese e dei consumatori. È la nostra terza arma: coordinamento e confronto».

Le dico un nome: Vespasiano.
«L’imperatore che emanò il primo editto sui prezzi?»

Appunto. Fallito, come tutti i calmieri della storia.
«Se è per questo, oggi siamo ancora più esposti alle fluttuazioni dei prezzi mondiali. Quando cinesi e indiani mangiano, bevono e consumano di più, le materie prime scarseggiano e quindi il loro costa aumenta. Ma l’unico modo per abbassare i prezzi è la concorrenza, quindi maggiori liberalizzazioni. Combattiamo il carovita con l’apertura dei negozi la domenica e l’allungamento degli orari».

È questa la vostra quarta arma?
«No. Il quarto obiettivo è la valorizzazione delle buone pratiche. Cioè premiare le iniziative di chi abbassa i prezzi. Pubblicheremo “liste bianche”, offrendo visibilità e promozione ai virtuosi».

Come?
«Con comunicati, campagne, segnalazioni sul nostro sito www.osservaprezzi.it».

Ha un modello estero cui ispirarsi?
«Il sorvegliante dei prezzi in Svizzera. Non fa parte dell’Unione europea, quindi ha più spazio d’intervento. Ma ha ottenuto risultati soprattutto sui prezzi “amministrati”».
Auguri, Mister Prezzi. Speriamo che da questo suo ufficio all’angolo di via Veneto riesca a essere il nostro miglior alleato.

Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino, commenta così la sua nomina: «Lirosi, grazie alla sua esperienza nella tutela dei consumatori, è la persona giusta per questo incarico. Dobbiamo però evitare la dispersione delle risorse in decine di osservatori dei prezzi a volte inefficienti e spesso clientelari. E occorre che la figura di mister Prezzi sia dotata di forti poteri sanzionatori con efficacia immediata, che possano anche sostituirsi ad altri soggetti inefficienti (enti locali, Camere di commercio), arrivando fino alla sospensione o revoca di licenze e autorizzazioni nei casi più gravi».
Come l’incredibile aumento del 32 per cento in soli dodici mesi per il parcheggio romano di Villa Borghese imposto dalla società privata Saba-Abertis. Ma autorizzato dal Comune di Roma.


riquadro: IL MISTER PREZZI SVIZZERO

Viene dall’Emmental, il «Preisüberwacher» (Sorvegliante dei prezzi) svizzero. Rudolph Strahm è nato nella valle dell’Emmen (Emmental, appunto) 64 anni fa, si è diplomato chimico e laureato in economia, e dopo undici anni da deputato socialista nel 2004 è diventato il primo «mister Prezzi» della Svizzera. Fra pochi mesi lascerà il suo incarico (i politici elvetici vanno in pensione a 65 anni).

Niente aumenti postali.
La sua ultima impresa: è riuscito a fermare gli aumenti delle tariffe che le Poste svizzere volevano far scattare dal primo gennaio 2008. Le decisioni dell’anno scorso riguardano fra l’altro le tariffe elettriche e i biglietti del cinema (più costosi che in Germania e Francia, ma dei quali Strahm non ha imposto la diminuzione).

Mediazione sulla sanità.
In una disputa fra le assicurazioni sanitarie private (obbligatorie) e gli ospedali del cantone di Vaud il mister Prezzi ha fatto da mediatore. E ha approvato l’aumento del tre per cento dei biglietti ferroviari dal 9 dicembre 2007, escludendo però i supplementi per le linee a lunga percorrenza.

Mauro Suttora

Friday, January 18, 2008

Il vescovo Milingo torna a Roma

"I sacerdoti devono potersi sposare"

Roma, 16 gennaio 2007

Paura e fastidio in Vaticano: Milingo è tornato a Roma. L’arcivescovo africano 7 anni fa stupì il mondo sposandosi con l’agopunturista coreana Maria Sung in una cerimonia della setta Moon. Dopo tre mesi e un colloquio con Papa Giovanni Paolo II si pentì. Fu riaccolto nella Chiesa cattolica, ma due anni fa è di nuovo fuggito da Zagarolo verso l’America dove si è rimesso con Maria, ha fondato un’associazione di sacerdoti sposati (150 mila nel mondo secondo lui, 60 mila per il Vaticano) e ne ha addirittura nominato vescovi quattro.

Milingo è venuto in Italia per presentare il libro Confessioni di uno scomunicato (edizioni Koiné), scritto con la giornalista Raffaella Rosa. Avrebbe dovuto partecipare a Buona Domenica su Canale 5, ma l’intervista è stata annullata all’ultimo momento. Avrebbe voluto comunicarsi al santuario di Pompei, ma il prete che celebrava la messa gli ha negato la comunione.

L’irritazione del Vaticano è palpabile. Milingo ha trascorso gran parte del 2007 nei due Paesi dove è maggiore il numero di preti sposati: Stati Uniti, dove sono 25 mila, e Brasile. Quest’ultimo potrebbe rivelarsi fertile alla sua predicazione, perché lì i cattolici stanno perdendo terreno in favore degli evangelici. Ecco una sintesi del Milingo-pensiero tratta dal suo libro.

Monsignore, perché ha fondato l’associazione Married Priests Now! (Preti sposati adesso)?
«La vita dei sacerdoti sposati è dura. La condanna della Chiesa pesa come un macigno, perché vengono visti come lebbrosi. (...) Invece sono una risorsa preziosa: per questo bisogna trovare il modo per riconciliare la madre Chiesa con i suoi figli che hanno accettato la chiamata di Dio a servire, ma hanno anche scelto di formare una famiglia».

Perché la Chiesa dovrebbe abolire il celibato obbligatorio per i propri sacerdoti?
«La missione che ho intrapreso non è una questione personale. È ora che la Chiesa rifletta su cosa fare per tornare al 1100, quando venne imposto l’obbligo del celibato. Non c’è alcuna connessione divina fra sacerdozio e celibato, la storia della Chiesa lo dimostra: i preti potevano sposarsi prima dell’introduzione di questa norma. Nei primi secoli si sposavano anche i vescovi. Ci sono stati ben trentanove papi sposati e con figli. Il celibato è stato reso obbligatorio solo nel XII secolo. È diritto di ogni essere umano potersi sposare, e questo diritto dev’essere restituito ai preti. Dal celibato obbligatorio vengono molti peccati come il concubinato e i figli illegittimi. Ma si tratta di un precetto, non di un dogma. L’errore è che la Chiesa lega il celibato al sacerdozio. Ma perderà, se continua su questa strada».

Perché la Chiesa non permette ai sacerdoti sposati di continuare il loro servizio?
«La Chiesa li abbandona, invece dovrebbe essere come una madre che accetta il figlio anche se è disabile. Durante la guerra si fa di tutto per salvare i soldati feriti. La Chiesa, al contrario, non cura i propri sacerdoti feriti, ma li getta nel mondo. Dov’è finito il suo amore materno? Li tratta come il gatto fa con il topo: non lo uccide subito, ma lo paralizza, e ci gioca fino a ucciderlo».

Il Vaticano ha provato a mettersi in contatto con lei?
«Erano venuti da Roma fino a Washington per riportarmi indietro. Alcuni prelati del Vaticano si erano praticamente stabiliti sotto casa mia pur di incontrarmi e convincermi a tornare con loro in Italia».

”NON MI HANNO PLAGIATO”

C’è chi pensa che lei abbia subìto un lavaggio del cervello o che sia stato drogato.
«Sembro uno che ha subito il lavaggio cerebrale? Una persona plagiata può parlare in questo modo? Non sono stato drogato, ragiono benissimo. Anche in questo mio nuovo progetto conservo e obbedisco a tutti i dogmi della Chiesa, mi ispiro ai testi dei padri e agli Atti degli Apostoli. Non accetto solo il celibato obbligatorio, che non ha dato i frutti sperati».

Ma consacrando i vescovi ha provocato uno scisma.
«Non provocherei mai uno scisma, perché sono profondamente cattolico, dalla punta dei piedi ai capelli. Noi crediamo profondamente nella Chiesa cattolica. Il celibato non è un elemento costitutivo del sacerdozio, è una regola medievale, un’eccezione che il Papa può eliminare senza neppure convocare un Concilio. E sappiamo che questo avverrà, forse dopo la nostra morte».

Lei, quindi, non si considera uno scomunicato.
«Assolutamente no. Il Vaticano non ha motivo di scomunicare chi vive la vera tradizione ecclesiastica. Gli apostoli erano sposati».

Come ha vissuto i cinque anni lontano da Maria?
«Ho sofferto quando mi hanno costretto a lasciarla. Ma la mia esperienza del matrimonio e la forza che ho accumulato in questo periodo di sofferenza mi hanno portato a fondare Married Priests Now!»

Che cos’ha di speciale Maria? Perché ha scelto proprio lei?
«Non ho sposato Maria perché l’ho scelta in mezzo ad altre donne. Credo che anche per le persone anziane come me, Dio abbia creato un’anima gemella che può trovarsi in qualunque posto del mondo. Quindi non ho scelto Maria perché ha qualcosa di speciale, ma perché è la persona che il Signore ha previsto per me».

Oggi lei vive insieme a Maria. Com’è cambiata la sua vita?
«Maria non ha cambiato la mia vita come sacerdote e come cristiano. Tutte le mattine mi sveglio alle 4 per dire il breviario, poi faccio tre rosari, mi dedico un po’ alla meditazione e alle 7 celebro la messa. Dopo la colazione, rispondo alle numerose e-mail che ricevo da parte dei sacerdoti sposati. La mia vita è sempre la stessa».

Negli anni di separazione era rimasto in contatto con lei?
«No, non era possibile. Ero sempre scortato da qualcuno, ovunque andassi vedevano l’ombra di Maria».

In che lingua comunicate?
«In italiano, perché lei ha vissuto in Italia diversi anni. Io mi sforzo di imparare qualcosa in coreano».

Mauro Suttora

Thursday, January 10, 2008

Benazir Bhutto

Dopo l'assassinio dei Lady Pakistan

Islamabad, 9 gennaio 2008

Non era una santa, Benazir Bhutto. Intelligente, bella, carismatica e soprattutto dotata di una volontà di ferro. Ma entrambe le volte che aveva governato il Pakistan, dal 1988 al 1990, e poi dal ’93 al ’96, aveva dovuto abbandonare il potere accusata di corruzione.

«Sono tutte macchinazioni dei miei avversari politici, le accuse si basano su documenti falsificati», ha sempre giurato lei. Il problema è che i giudici non le hanno creduto. E non quelli pakistani, ma quelli svizzeri, che nel 2003 hanno condannato lei e il marito Asif Zardari, 51 anni (tre anni meno di Benazir) a sei mesi con la condizionale, per avere riciclato nelle banche elvetiche 11 milioni di dollari.

E il povero marito, che ora di salute non se la passa per niente bene fra diabete e infarti, e si sta curando nella loro casa di Manhattan, si è fatto ben undici anni di carcere in Pakistan con accuse tremende: dal ricatto alla corruzione, fino ad aver fatto assassinare il cognato Murtaza Bhutto nel ’96. «Mister dieci per cento», lo avevano soprannominato, riferendosi alla percentuale che pare esigesse sulle commesse pubbliche, soprattutto nel periodo in cui Benazir ebbe la sciagurata idea di nominarlo ministro (dell’Ambiente).

Ma nonostante tutte queste traversie, la Bhutto era adorata dai suoi sostenitori, e avrebbe sicuramente vinto le elezioni dell’8 gennaio. Perché per i pakistani la famiglia Bhutto è un mito che fa ancora presa.

Un padre fantastico

Zulfikar Alì Bhutto, padre di Benazir, incarna infatti l’unico periodo d’oro nella storia del Pakistan, nazione sfortunata che non possiede neppure un nome. «Pakistan», infatti, è una denominazione artificiale inventata da uno studente nazionalista a Oxford nel 1933, quando assieme all’India faceva ancora parte dell’impero britannico.
P per Punjab, A per Afghania, K per Kashmir, S per Sindh, e Tan per Belucistan, ovvero le regioni islamiche dell’India che volevano l’indipendenza, ma non assieme agli hindu di Gandhi. Il Pakistan è nato con una guerra (contro l’India nel ’47, appunto) ed è poi sempre stato in guerra, o contro l’India per il possesso del Kashmir, o contro il Bangladesh quando nel ’71 ci fu la secessione, o contro se stesso: i militari infatti hanno sospeso la democrazia per ben tredici volte in sessant’anni, con le motivazioni più varie. L’ultima, assai seria, quando dal 1999 l’attuale presidente, generale Pervez Musharraf, ha dovuto fronteggiare la minaccia fondamentalista.

Come i Gandhi in India

L’unica parentesi di governo civile e di benessere economico fu appunto quella di Alì Bhutto, che arrivò al potere all’inizio degli Anni 70 dopo la perdita del Bangladesh, e lo tenne fino al 1976, quando fu cacciato dal generale Zia Ul-Haq. Tre anni dopo Zia lo fece impiccare. Qualche ora prima dell’esecuzione, nel suo ultimo incontro col padre, Benazir gli promise che, come nella dinastia Gandhi in India, lei avrebbe raccolto la fiaccola della sua eredità politica.

Fino ad allora Benazir era solo una studentessa mandata dalla propria ricchissima famiglia a studiare all’estero: prima negli Stati Uniti, con laurea ad Harvard, e poi in Inghilterra, a Oxford. Dopo ben cinque anni di arresti domiciliari, il dittatore Zia le permette di emigrare a Londra. Ma quando l’assassino di suo padre muore, lei torna e viene eletta premier. È il 1988. Nel frattempo l’energica madre Nusrat le impone di sposare il capotribù Zardari, perché gli islamici non avrebbero mai votato una donna non sposata. Lei per un po’ resiste, tanto da venire soprannominata «vergine di ferro», poi cede. La coppia avrà tre figli.

Tutto si gioca lì

Il terzo ritorno in patria stava per regalarle la terza trionfale elezione. Ma il suo assassinio ha bloccato le speranze di chi contava su di lei per sconfiggere gli estremisti islamici.
«Tutto si gioca in Pakistan», dice a Oggi Mario Arpino, presidente Vitrociset (azienda di sistemi elettronici e avionici) e già capo di stato maggiore della Difesa, «perché l’obiettivo principale di Al Qaeda è oggi quello di impadronirsi della bomba atomica, e il Pakistan è l’unico stato islamico ad averla».
Che succederà adesso? «Noi occidentali non dobbiamo cedere alla tentazione di far coincidere la democrazia con le elezioni», avverte Arpino. «Non diamo quindi troppo addosso a Musharraf, che tutto sommato è amico dell’Occidente».

Mauro Suttora