Wednesday, October 18, 2006

intervista ad Alain Elkann

Ci chiamiamo Agnelli ma siamo dei leoni

«Trascorro molto tempo a Torino per stare vicino al piccolo Leone», dice lo scrittore, che ha appena pubblicato il romanzo «L’invidia». «Ammiro la forza d’animo dei miei figli»

Oggi, 18 ottobre 2006

di Mauro Suttora

l mio nipotino Leone si è dimostrato simpaticissimo fin dall’inizio: nascendo un po’ prematuro mi ha permesso di dedicargli questo libro. Non sapevamo se ne avremmo avuto il tempo, dovevamo andare in stampa, c’è stata un po’ di suspense... Ma lui ha risolto ogni problema».

Alain Elkann è nonno a 56 anni. E sembra strano, perché ne dimostra venti di meno. Il padre di John (Yaki), principale erede della famiglia Agnelli e vicepresidente Fiat, ha avuto questo regalo meno di due mesi fa dalla nuora Lavinia Borromeo, anche se non ha partecipato alla scelta del nome: «Leone suona forte, solare, internazionale: mi piace. Va bene, per un maschio primogenito. E poi comincia per elle, una lettera di famiglia: come Lavinia e Lapo...»

A proposito, come sta l’altro suo figlio, dopo la disavventura di un anno fa?
«È a New York, sta benissimo ed è felice, nonostante sia braccato dai paparazzi. Da padre, sono orgoglioso di come si sia risollevato da solo. Sono contento per lui, ora lo vedo tranquillo. Ha saputo superare questo incidente della vita con carattere, coraggio e forza di volontà. Sono qualità che apprezzo molto in lui. Si sapeva già che Lapo è generoso e disponibile, ora ha dimostrato di essere anche un uomo forte».

Che rapporto ha con i suoi figli?
«Ottimi rapporti con tutti e tre, mi piacciono le famiglie unite. Con la nascita di Leone ho provato una gioia immensa, perché vedo la famiglia che continua: diventare genitori è una grande e bella avventura, lo è stato per me e lo è oggi per mio figlio Yaki».

Lei però è sempre in giro per il mondo: Roma, New York, Parigi, Londra. Come fa a stare vicino ai figli?
«Ho avuto l’onore di essere nominato presidente della fondazione del Museo egizio a Torino. Così ora mia moglie Rosi ed io viviamo metà del nostro tempo a Moncalieri, nella casa di mia madre, e metà a Roma. Sono contento che Rosi si trovi bene a Torino, è diventata anche per lei una seconda patria elettiva. Per me questo incarico nel museo è un grande privilegio. E, ovviamente, ci permette di stare più vicini a Lavinia, Leone e Yaki».

E sua figlia Ginevra?
«Sta a Londra, fa la regista, il suo primo film 'Vado a messa' è stato apprezzato nei festival di Miami, Venezia, Guadalajara... Con lei ho un ottimo rapporto, che in parte descrivo anche nel mio libro, con confessioni abbastanza profonde e rivelatrici. A proposito, quando parliamo del libro? Perché lei continua a chiedermi dei parenti...»

Caro Elkann, siamo un settimanale familiare, quindi di famiglie e parenti siamo curiosissimi. D’altra parte, anche questo suo ultimo libro (L’Invidia, edito da Bompiani) è parecchio autobiografico. Per esempio, la sua seconda moglie Rosi Greco [che durante l’intervista siede sempre accanto ad Alain, sul divano della bella casa romana, ndr] è presentissima nel libro. Aver chiamato «Rossa» la moglie del protagonista, il quale scrive in prima persona, è un indizio plateale. E lei ne sembra assai geloso: non vuole che Rossa incontri il pittore Julian Sax (di cui è invidioso) perché teme che alla fine, con la scusa di farle un ritratto, quello riuscirebbe a portarsela a letto.

A proposito, chi è nella realtà questo Sax che la ossessiona tanto?
«Sax è un grande artista, un pittore internazionale quotatissimo che il protagonista del mio libro vorrebbe intervistare. Ma si rivela inarrivabile, strafottente, antipatico. E alla fine il protagonista pensa perfino di ucciderlo».

Ci riesce?
«Lo scoprirà il lettore».

Lei ha mai invidiato qualcuno in questo modo?
«L’invidia è un peccato tremendo, uno dei sette vizi capitali. Ma esiste anche un tipo di invidia positiva che è una forma di rispetto e venerazione verso qualche personaggio assai speciale, da parte di qualcuno ben conscio di non possedere quel talento. L’invidia è un difetto diffusissimo in Italia, dove si tende a essere riduttivi e a non riconoscere il genio. Quando invece si prova sincera ammirazione per un grande artista - o uno scienziato, un politico, un industriale - non c’è niente di male se la si vive ed esprime. Senza arrivare all’ossessione, come capita al mio personaggio».

Non ha risposto alla domanda. Fuori i nomi.
«Tutti i grandi pittori, alcuni dei quali ho conosciuto personalmente. Francis Bacon, per esempio, l’ho addirittura pedinato a Parigi una trentina d’anni fa, dopo averlo incrociato per caso in boulevard Saint Germain vicino alla brasserie Lipp. Era un uomo piccolo, camminava fermandosi davanti alle vetrine di negozi di vestiti. Volevo scoprire dove andava. Ho potuto invece soddisfare la mia curiosità con Balthus, che ho conosciuto in Svizzera: elegante come un principe, fumava in continuazione e gli portavano sigarette e whisky su un vassoio. Aveva una moglie giapponese, pittrice anche lei, ma sinceramente non l’ho invidiato. Ammiro la sua opera, tanto che ho messo un suo quadro del 1949 nella copertina del libro: un gatto che mangia un pesce, sta appeso in un ristorante a Parigi».

Perché è attratto dai pittori?
«Perché da piccolo avrei voluto dipingere. Ma tutti gli artisti mi affascinano, desidero conoscerli. Ho incontrato Truman Capote agli Hamptons, vicino a New York: piccolo di statura, voce da bimbo, possedeva acutezza di giudizio e un’intelligenza cattiva, che amava esercitare contro il suo avversario Gore Vidal. Fra gli italiani mi colpì molto Leonardo Sciascia. Una sera lo incontrai alla libreria Einaudi di Milano con Elvira Sellerio, e poiché andavo a Parigi mi chiese di chiedere a Milan Kundera una prefazione per Jacques le Fataliste di Diderot. Così conobbi Kundera. Ma sono attratto da tutti gli uomini che creano qualcosa di grande da soli, i self-made men...»

Mentre i suoi figli portano avanti l’eredità Fiat.
«Provo un grande... mi lasci trovare la parola giusta... rispetto per i miei figli, che hanno dovuto assumere ruoli aziendali in età molto giovane. Questo ha tolto loro la giusta spensieratezza che i ragazzi dovrebbero avere. Il loro è un destino privilegiato, ma anche molto difficile».

Mauro Suttora

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