Tuesday, November 22, 2005

Il wrestler Guerrero

CON LA DROGA NON SI VINCE MAI, ANCHE EDDIE HA PERSO

Oggi, 14 novembre 2005

Eddie Guerrero: decine di milioni di fans del wrestling lo adoravano, in tutto il mondo. E quando lo hanno trovato morto, il mattino della scorsa domenica in una stanza d’albergo a Minneapolis, con lo spazzolino ancora in bocca, il dolore per la scomparsa di questo «eroe» trentottenne è stato istantaneo e planetario. Una valanga di messaggi di cordoglio si è riversata sul suo sito internet e nei programmi Tv di questa strana disciplina, a metà strada fra lo sport e il circo. Eddie si drogava, strabeveva, si dopava. Tutti lo sapevano. Lui non lo nascondeva. Ma proprio per questo risultava vero, maledetto e, tutto sommato, simpatico.

Il wrestling o lo si ama o lo si odia. Lo detestano soprattutto i genitori dei ragazzini che vengono ipnotizzati dallo spettacolo trucido di energumeni che se la danno di santa ragione, senza regole apparenti, dentro e fuori dal ring. La scorsa primavera alcune associazioni e parlamentari anche in Italia hanno chiesto di bandirlo dai teleschermi, perchè troppo violento. Ma i palasport di tutto il pianeta si riempiono quando i campioni del wrestling arrivano in città con il loro spettacolo. E Italia Uno, di fronte a tanto successo, ha raddoppiato lo spazio dedicato ai «lottatori»: da una a due ore ogni sabato sera, dalle sette alle nove. Ogni giorno alle 19.30 il canale Sport Italia offre mezz’ora degli spettacoli originali americani con i sottotitoli. E vanno a ruba videogiochi, tatuaggi, magliette, dvd, figurine, pupazzi, perfino uova di Pasqua...

Eddie Guerrero avrebbe dovuto arrivare in Italia proprio questa settimana, assieme agli altri campioni: Dave Batista, Randy Orton, Christian, JBL. Tutto esaurito a Roma, Milano, Livorno, Ancona, Bolzano. Come la Formula Uno di Bernie Ecclestone, anche il wrestling mondiale è controllato da un’unica persona: Vince McMahon, 60 anni, cresciuto in una roulotte con la madre e i suoi amanti, primo cadetto di una scuola militare Usa a finire sotto corte marziale, processato e assolto una dozzina d’anni fa per aver somministrato steroidi agli atleti della sua organizzazione, la Wwe (World Wrestling Entertainment).

Negli ultimi anni la mania per il wrestling è esplosa, tanto che McMahon ha trovato conveniente dividere in due lo spettacolo che porta in giro per il mondo: da una parte i «blu» del torneo Smackdown, dall’altra i «rossi» del Raw. Mentre una va in tournée nell’emisfero nord, l’altra copre quello sud. Uno dei più grandi wrestlers della storia è stato il giapponese Antonio Inoki, oggi 62enne: intelligentissimo, finita la carriera sul ring si è dato alla politica ed è diventato ministro dello Sport.

Eddie Guerrero, invece, era messicano. Fiero delle proprie origini, e infatti come soprannome aveva scelto “La Raza”. Praticamente tutti nella sua famiglia sono lottatori: padre, zio, fratelli maggiori, cugino, nipoti (fra cui Chavo, ora una star anche lui). A 25 anni la sua fama esce dai confini del Messico, Eddie comincia a esibirsi fra Stati Uniti e Giappone. Nel 1994 il suo migliore amico e collega Art Barr viene trovato morto per abuso di alcol e stupefacenti. Eddie non si riprenderà più da questa scomparsa. Nel frattempo si è sposato con Vicky, dalla quale ha tre figlie: Shaul (oggi 14enne), Sherilyn, 9, e Kaylie Marie, 3.

Nel Capodanno 1998 è vittima di un gravissimo incidente automobilistico. Riporta fratture multiple causate da un volo di trenta metri fuori dalla sua auto, ma sopravvive e dopo soli sei mesi torna sul ring. Inizia però la dipendenza dagli antidolorifici, per superare le continue fitte provocate dalle vertebre incrinate per sempre. Nel giugno 2001 il gran patron McMahon convince Eddie a ricoverarsi in un centro di riabilitazione da alcol e droga, dopo che il wrestler si presenta ad uno show televisivo in uno stato inguardabile. Viene così sospeso per permettergli le cure mediche necessarie. A novembre McMahon lo riaccoglie a braccie aperte nella federazione, dopo che sembra avere superato i suoi problemi di dipendenza. Poi però viene arrestato per guida in stato di ebbrezza, e la Wwe lo licenzia.

Ma Guerrero ce la fa a sollevarsi per l’ennesima volta dalla polvere, e riottiene una parte nella continua telenovela che la Wwe mette in scena. «Ultimamente i suoi grandi duelli erano con un altro supercampione, Rey Mysterio», spiega Marco Bianchi, dirigente assicurativo a Udine e appassionato di wrestling nonostante i suoi 46 anni: «Eddie sosteneva di essere il vero padre del figlio di Rey, tanto che si presentava sul ring con una maglietta con su scritto ‘I am your papi’. Ciò aizzava l’ira di Ray. La mossa più spettacolare di questo Mysterio è la cosiddetta 619, ovvero il prefisso telefonico della città di San Diego. Significa che quando lui la infligge ai suoi avversari, fingendo di dar loro un doppio calcio sul viso, è come se chiamasse la moglie a casa per avvertirla che ha vinto, e che quindi sta tornando...»

Ma come fanno questi incredibili sbatacchiamenti, calci su ogni parte del corpo, strangolamenti simulati, urla di dolore e colpi proibiti, ad affascinare tante persone? «Beh, l’intreccio narrativo è sempre sorprendente», spiega il dottor Bianchi, «e tutte le risse, polemiche e alleanze improvvise riescono a essere spettacolari e a far sorridere. Sono bravi anche i commentatori, e poi non si tratta di buffoni. Ci sono atleti veri, Kurt Angle per esempio ha vinto l’oro alle Olimpiadi del ‘96 ad Atlanta. Certo, siamo lontani dalla lotta greco-romana classica o dal catch, ma tutto sommato vedere due che si menano senza farsi del male può essere liberatorio. Insomma, perchè la boxe sì e il wrestling no?»

Eddie Guerrero era alto 1 e 76, pesava cento chili. Aveva dovuto faticare il doppio per convincere i promoters di essere abbastanza grosso per battersi. E poi, sarà anche vero che nel wrestling è tutto finto, ma ci vuole comunque una grossa forza e abilità per cadere sulla schiena da tre metri di altezza senza farsi troppo male. Bisogna essere come minimo eccellenti incassatori.

Ultimamente Guerrero era diventato molto religioso, aveva trovato conforto nella fede. Sua moglie lo aveva riaccolto a casa dopo le ultime sbandate con le sostanze proibite. Sembrava avercela fatta. Invece la droga se l’è preso per sempre. E anche questa, si spera, sarà una lezione per i teenager assetati di emozioni truculente che si eccitano col wrestling.

Mauro Suttora

Bob Woodward

22 novembre 2005

Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.

Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.

La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.

Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.

Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.

Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.

Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.

Mauro Suttora

Monday, November 21, 2005

Kristol/Fukuyama al Cfr

Al Council on Foreign Relations incontro sulle prospettive della destra statunitense in Iraq. Kristol a confronto con Fukuyama

UNA SERATA TRA CONSERVATORI CHE CHIEDONO A BUSH PIU' DECISIONE

Il Foglio, 23 novembre 2005

di Mauro Suttora

New York. "Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema - Saddam - e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perchè dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George Bush, è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria". William Kristol, direttore del settimanale di Rupert Murdoch Weekly Standard e leader neocon, era tranquillissimo l'altra sera al Council on Foreign Relations. Anche perchè una volta tanto giocava in casa: il titolo del dibattito infatti era "Guerra in Iraq: le prospettive dalla destra". I suoi interlocutori: Gary Rosen, vicedirettore del mensile Commentary fondato da Norman Podhoretz, e Francis Fukuyama, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Perfino il moderatore non era neutrale: Roger Hertog, finanziere di Wall Street e finanziatore della stampa conservatrice.

E' stato Fukuyama, quindici anni fa avventato teorico della "fine della storia" (dopo il crollo dell'Urss), a fare il controcanto ai neocon: "Ora mi considerano quasi un apostata, ma mi stupisce che proprio loro, avversari ideologici di un qualsiasi progetto di ingegneria sociale in politica interna, per quella estera propugnino invece il progetto più straordinariamente ambizioso di questo tipo: democratizzare il Medio Oriente. Impresa nobile e auspicabile, ma la cui fattibilità è ancora tutta da dimostrare."

A Kristol le attuali polemiche sulla presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq e i fallimenti dell'intelligence importano poco: "Bush non si è certo svegliato una mattina dicendo 'Hey, andiamo a farci questa bella avventura in Iraq'. Non era neanche inevitabile andarci. Secondo gli europei, per esempio, abbiamo fatto una cosa terribile. Ma anche rispettati conservatori americani come Brent Scowcroft dopo l'11 settembre continuavano a ragionare con la mentalità del containement, che bene o male ci ha assicurato mezzo secolo di pace. A tutti costoro però dobbiamo chiedere: qual era l'alternativa alla rimozione di Saddam? Avremmo dovuto tenere le nostre truppe sul suolo sacro dell'Arabia Saudita per continuare a proteggerla dal dittatore. Le sanzioni all'Iraq stavano per essere tolte..."

"I realisti, anche repubblicani, erano disposti a trovare un accordo con un altro dirigente baathista dopo la caduta di Saddam", aggiunge Rosen, "ma sarebbe stato questo un risultato decente? E, parlando di alternative: senza guerra oggi Saddam sarebbe ancora lì. Ma è provato che con uno come lui nè la deterrenza nè il containement funzionavano. Oggi ci confronteremmo con l'incubo non solo delle armi atomiche, chimiche e biologiche irachene, ma anche con il pericolo che Saddam le dia aa Al Qaeda".

A Fukuyama che teme una "metastasi terrorista" dopo l'attentato in Giordania Kristol risponde che non vede questo pericolo: "Ora non è peggio di tre anni fa. Abbiamo seri problemi in Iraq, ma nel resto del mondo gli attentati non sono aumentati. Quanto ai vari sondaggi secondo i quali l'antiamericanismo sarebbe aumentato a causa del nostro intervento, domando: ma 30/40 anni fa, quando certi satrapi mediorientali berciavano contro di noi e volevano espropriarci, le cose andavano meglio? Né oggi mi risulta che improvvisamente i giovani arabi o islamici non vogliano piu venire a studiare negli Stati Uniti. Quanto agli iracheni, l'80 per cento vogliono che restiamo. E allora perchè dovremmo indicare stupidamente una data per il nostro ritiro? Quello sì che sarebbe un disastro, se fosse precipitoso. Sarebbe una tragedia anche se perdessimo l'appoggio degli sciiti: allora sì che dovremmo andarcene. E dove, poi? In una base in Kuwait, per poi tornare se scoppia la guerra civile? Uno scenario da incubo. Tutto questo ci costa 80 morti al mese? Sì, ed è tremendo. Ma se fosse vero che la maggioranza degli iracheni non ci vuole, altro che 80 morti... Non mi preoccuperei neppure eccessivamente per l'aumento dell'isolazionismo qui da noi: una leadership forte riesce a far comprendere al Paese che dopo l'11 settembre è necessario un nostro livello di coinvolgimento più alto all'estero".

Mauro Suttora

Friday, November 18, 2005

Bob Tisch

PORTACHIAVI, ALBERGHI, FOOTBALL. COSI' BOB TISCH DIVENTO' L'ANTI TRUMP

di Mauro Suttora

Il Foglio, 18 novembre 2005

Addio allo zio Paperone piu' simpatico d'America

New York. La sua famiglia traslocava ogni tre anni. Così, ogni volta risparmiava tre mesi d'affitto: lo sconto iniziale offerto dai proprietari per attirare nuovi inquilini. Non che i genitori di Bob Tisch fossero poveri. Suo padre, emigrato dalla Russia, era piccolo imprenditore nel ramo vestiti, e poi si è dato alla pallacanestro. Ma la depressione degli anni '30 costringeva anche la classe media a risparmiare su tutto.

Gli inflissero un nome impressionante, quando nacque nel 1926: Preston Robert. Mai usato. Bob scorrazza per Bensonhurst, il quartiere di Brooklyn dove ebrei e italiani convivono nei termini di una perenne tregua armata. Il "C'era una volta in America" del ragazzo Tisch si dipana poi (causa i traslochi triennali) nel Bronx, e quindi di nuovo a Brooklyn, dove prende il diploma liceale. Tutte le estati nel campeggio gestito dalla mamma, piccolo investimento familiare. Infine la guerra, e nel '44 l'università. Lì lo incontra Joan, mentre lui vende portachiavi di fronte allo stadio di football: uno per dieci cents, due per quindici. Si sposano nel '48.

Bob è ancora studente di legge ad Harvard quando consiglia a suo padre di comprare un vecchio albergo del New Jersey per 175mila dollari. Lo rimettono a posto, aggiungono una piscina e inventano "promozioni" bizzarre, come le tre renne fatte venire apposta dalla Finlandia per trascinare una slitta invernale. Successone. Iniziano gli anni '50: la famiglia Tisch ha tanti di quei soldi che si mette a giocare a Monopoli con terreni, case e hotel ad Atlantic City. Il fratello di Bob, Larry, fiuta gli affari e compra alberghi decrepiti, anche a Manhattan, per pochi dollari. Poi arriva Bob che li restaura, aumenta le tariffe e li gestisce. Controlla tutto: vuole assumere di persona perfino i fattorini.

Nel 1956, quando costruisce il suo primo grande albergo in Florida, paga sull'unghia 17 milioni di dollari. Nienti prestiti, il contrario di Donald Trump. Il primo anno ha già fatturato 12 milioni. Il segreto: le convenzioni aziendali. Nel 1960 l'antitrust costringe il colosso del cinema Loews a dividersi in due: da una parte la produzione dei film, dall'altra le sale. I fratelli Tisch comprano queste ultime con 65 milioni. Poi ne demoliscono alcune per costruirci alberghi, come il Summit da 800 camere a Lexington Avenue, primo nuovo hotel a Manhattan dai tempi della Depressione. E l'Americana con duemila stanze è l'albergo più alto del mondo (cinquanta piani) quando apre nel '62.

Bob e Larry non sanno più dove mettere i soldi. Differenziano gli investimenti, e nasce un "conglomerato": comprano società di tabacco (Lorillard), assicurative (Cna), di orologi (Bulova). Mentre il fratello coltiva la passione della tv (presidente Cbs per nove anni) e il figlio Steve quella cinematografica (produttore di "Forrest Gump"), Bob si dà al servizio civico. Negli anni '70 inventa i "power breakfast", i leggendari "breakfast da Ti...sch" che tiene ogni mattina nel suo hotel Regency di Park Avenue, e ai quali partecipano Henry Kissinger, l'allora sindaco di New York David Dinkins, e politici, finanzieri, industrali, attori. Si mangia, si chiacchiera e si fanno affari.

Bob Tisch ha una simpatia straordinaria ("larger than life") e contagiosa. S'impegna per tirar fuori la Grande Mela dalla crisi finanziaria del '76: viene nominato "ambasciatore di New York a Washington" dal sindaco, e conserva questa carica informale e gratuita fino al '93. Coagula gli investimenti per il centro congressi Javits. Nel '76 e '80 è presidente organizzativo delle convention democratiche, ma il suo impegno è bipartisan. Nell'86 Ronald Reagan lo nomina a capo delle Poste Usa, che subiscono la concorrenza dei corrieri privati.

A Bob piace lavorare anche di domenica, e quindi fino a 35 anni non vede neanche una partita di football. Ma a 65 anni vuole togliersi un altro sfizio, e compra la metà della squadra dei New York Giants. Rischia di passare alla storia soprattutto per questo, a giudicare dai necrologi di ieri. Coincidenze: l'altro proprietario, Wellington Mara, è morto tre settimane fa a 89 anni, di tumore. Il fratello Larry, dopo aver finanziato la costruzione di metà New York University (compreso il restauro della stupenda villa Acton, campus fiorentino), è scomparso due anni fa. Oggi l'impero Tisch vale 74 miliardi di dollari. Un anno fa a Bob è stato diagnosticato un tumore al cervello. Lui ha continuato a far colazione al Regency e a regalare centinaia di milioni per costruire palestre nelle scuole. Il Paperone simpatico è morto il 15 novembre a 79 anni nella sua casa di Manhattan.

Internet resta agli Usa

MA COSI’ HA VINTO LA LIBERTA’

quotidiano PuntoCom
venerdi’ 18 novembre 2005

Ci si comincia a dividere già sul nome del vertice: Smsi (Sommet Mondial sur la Societé de l’Information), alla francese, o Wsis (World Summit on the Information Society), all’inglese? I 17 mila delegati provenienti da tutto il mondo che ieri hanno aperto a Tunisi la megaconferenza dell’Onu vorrebbero, nella grande maggioranza, togliere agli Stati Uniti il controllo sull’ente che gestisce Internet, l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
Si tratta di una società privata della California senza scopo di lucro che dagli anni ‘90 regola la concessione degli indirizzi web e risolve le dispute. La sua sede è a Marina del Rey (Los Angeles). In teoria dipende dal ministero del Commercio statunitense, ma nella pratica non ha mai subìto interferenze, né ne ha imposte alla rete. Una gestione notarile, abbastanza libertaria, che si è limitata ad assecondare la spontaneità del mercato. Aggiungendo per esempio i nuovi suffissi tematici .biz (per le utenze d’affari), .info (per i media), .coop (cooperative), .name (per i privati), o quello geopolitico .eu (Europa).

«Ma chi ci garantisce che in futuro gli Usa continuino con l’attuale laissez-faire, soprattutto in caso di emergenze terroristiche?», si chiede il quotidiano francese di sinistra Libération. La risposta, probabilmente, ha il nome di un giornalista proprio di Libération, Christophe Boltanski, picchiato e accoltellato il 12 novembre da una squadraccia paragovernativa tunisina. Boltanski aveva osato scrivere articoli su sette dissidenti tunisini incarcerati, e sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Tunisia, Paese considerato “moderato”. E’ subito tornato in Francia, sconvolto. Ma quello tunisino è solo uno dei tanti regimi repressivi che amerebbero controllare direttamente i server internet per poterli censurare più agevolmente. Il sito del partito radicale italiano, per esempio, che appoggia i dissidenti, in questi giorni è stato oscurato in Tunisia.

Non a caso i principali avversari dell’attuale monopolio Usa su Internet sono Paesi autoritari o dittatoriali come Cina e Iran. Per loro è essenziale controllare il traffico sulla rete, e quindi limitare l’odierna condizione di sostanziale festosa anarchia autogestita. Anche perchè, appena in un Paese il potere comincia a vacillare, si assiste immediatamente a un’esplosione di blog politici, come nelle ultime settimane in Siria. Ma, ovviamente, i regimi polizieschi si nascondono dietro all’antiamericanismo per coagulare consenso sull’ipotesi di un passaggio di poteri dall’Icann americano all’Onu: «Basta con il controllo unilaterale degli Usa» è il loro slogan.

Fra un’Icann americana e un’Onu condizionata dalle dittature, la soluzione potrebbe stare nel mezzo: un’agenzia tecnica come la Uit (Unione internazionale delle telecomunicazioni), che da Ginevra coordina da sempre i traffici e le frequenze di radio, tv e telefoni. Ma mentre sotto l’amministrazione Clinton gli Usa sembravano orientati ad accettare una rapida internazionalizzazione dell’Icann, lo scorso giugno l’amministrazione Bush ha dichiarato che intende mantenerne il controllo per un tempo indefinito. E questa posizione nazionalista ha aizzato reazioni simmetriche di segno opposto. Ormai il conflitto si è totalmente politicizzato, è diventato una questione di principio.

Fra i venti membri del consiglio d’amministrazione dell’Icann c’è un italiano, Roberto Gaetano, che da trent’anni lavora per agenzie dell’Onu fra Vienna e Ginevra. Presidente dell’Icann fino al dicembre 2007 è Vinton Cerf, al quale proprio la scorsa settimana il presidente Usa George Bush junior ha conferito la massima onoreficenza civile statunitense, la Medaglia della Libertà. Cerf può essere considerato il papà di Internet: ne ha inventato lui il software fondamentale, il TCP/IP.

A finanziare fino agli anni Settanta il progetto Arpanet, predecessore di Internet, fu il Pentagono. Ma, paradossalmente, proprio la principale caratteristica tecnica richiesta dai militari statunitensi, e cioè la flessibilità del sistema di comunicazione, con il massimo decentramento per consentirgli di funzionare anche dopo un attacco che ne mettesse fuori uso alcune parti, è oggi l’ostacolo più grosso per i “normalizzatori”: «Controllare il flusso della rete è impossibile», avverte Leonard Kleinrock, scienziato dell’Ucla (University California Los Angeles), «sarebbe come pretendere di controllare il flusso degli oceani».

Per una volta, quindi, i libertari, i giovani, gli hackers, i noglobal abitualmente schierati contro gli Stati Uniti in quasi tutti i campi, si ritrovano involontariamente ma inevitabilmente schierati al fianco dell’America: a chi ha a cuore la libertà del web conviene l’attuale approccio non burocratico dell’Icann. Il che non vuol dire che anche dentro agli Stati Uniti non esistano forti spinte per una maggiore intrusione poliziesca in Internet: l’emergenza terrorismo spinge automaticamente le autorità a chiedere barriere, controlli, divieti. Ma finora i libertari hanno avuto la meglio.