Friday, October 28, 2005

Lapo Elkann Agnelli

ECCO COME SI DISINTOSSICA IN ARIZONA

Oggi, mercoledi 26 ottobre 2005

Wickenburg (Stati Uniti), ottobre
Sarà un ex colonnello pilota militare dell'Air Force, l'aeronautica americana, a tirar fuori Lapo Elkann dalla droga? Pat Mellody, 72 anni, è un personaggio qui a Wickenburg. Siamo nel deserto dell'Arizona, cento chilometri a nord-ovest e un'ora di auto da Phoenix. Ma ai vip con l'aereo privato questo paesino di seimila abitanti offre anche un aeroporto. Vegetazione principale: i saguari, gli alti cactus a ipsilon tipici dei film sul Far West e dei cartoni animati di Gatto Silvestro. Dopo il paese, si imbocca la statale 93 fino ad arrivare in un posto incantevole, con vista mozzafiato sulla valle del fiume indiano Hassayampa e i monti Bradshaw.

Qui c'è il centro di recupero The Meadows (I Prati), fondato da Mellody 27 anni fa. Era un ranch, lo Slash Bar K, dove i turisti giocavano a fare i cowboy con i cavalli e il lazo. «Ma oggi Mellody è diventato il terzo datore di lavoro a Wickenburg», dicono in paese. Al primo posto c'è un'altra comunità, il Remuda Ranch, riservato ad anoressiche e bulimiche. Al secondo c'è la scuola. E al terzo ecco il rehab (centro di riabilitazione) più famoso del mondo, a causa dei famosi che ci arrivano da ogni parte del globo. L'ultima, la modella cocainomane inglese Kate Moss, sta per uscire dai Meadows. C'è arrivata alla fine di settembre, e sta completando i 35 giorni del programma. Stessa sorte attenderebbe Lapo.

Negli Stati Uniti i tossicodipendenti non restano in comunità per anni, come in Italia. I percorsi di riabilitazione sono molto più veloci e costosi. Quello dei Meadows viene mille dollari al giorno, più annessi e connessi (spese alberghiere, farmaci, eventuali cure supplementari). Il totale giornaliero raggiunge a volte anche i 3.000 dollari. I posti sono solo settanta, ci sono piscina e campi da tennis. Viene trattato ogni tipo di dipendenza: non solo da cocaina ed eroina, ma anche da alcol, sesso, gioco d'azzardo. Multi-disorder facility, la chiamano: struttura per vari disordini.

Massimo riserbo, ovviamente, sui clienti. No comment totale su nomi, arrivi, partenze. Ma di se stesso Mellody racconta qualcosa: «Sono cresciuto ad Akron, nell'Ohio, proprio la città dov'è nata la Alcolisti Anonimi. Mio padre partecipò a uno dei primi programmi». Poi, durante la guerra del Vietnam, l'incarico di curare i soldati reduci dalla jungla che si aggrappavano a sostanze di ogni tipo. Infine, l'arrivo in Arizona per gestire Meadows. Ne prende presto il controllo con i suoi programmi che sono un misto di saggezza Zen, New Age e buon senso californiano. Incontra la moglie Pia, infermiera, ex alcolista pure lei, e autrice di quattro libri sul loro metodo in dodici stadi per affrontare le varie dipendenze.

Ogni anno quasi duemila tossici vengono curati a Wickenburg dentro a cinque centri. In paese non sono granché fieri di questo record, preferiscono parlare invece dei 22 mila turisti che nel 2004 hanno visitato i sette ranch dei cowboy sopravvissuti. Ma il calcolo della convenienza è presto fatto: i turisti pagano 100-200 dollari al giorno, i tossici dieci volte tanto. Ormai l'economia del paese è stata essa stessa drogata da questo viavai di celeb rehab. Non molto lontano da Wickenburg c'è Sedona, un'altra piccola «capitale mondiale» dell'anti-vizio e famoso centro del New Age dove ex hippies sono in perenne ricerca di «energie positive».

Lapo è solo l'ultimo dei vip segnalati qui per i motivi più diversi. Nei Meadows, per esempio, è venuta l'anno scorso la modella Elle Macpherson a curare la depressione post-parto che l'ha fatta divorziare dal marito. L'ex marito di Halle Berry, Eric Benet, ha affrontato la sua mania per il sesso e l'incapacità di restare fedele. E poi AJ McLean, uno dei Backstreet Boys, la moglie del senatore George McCain, il figlio del cantante Rod Stewart, il calciatore Paul Gascoigne, una cantante delle Atomic Kitten. Schiava della polvere bianca era pure Whitney Houston, mentre il chitarrista dei Rolling Stones, Ron Wood, si è asciugato dalla bottiglia.

Dentro, perfino una droga blandissima come il caffè è vietata. Qui Lapo Elkann non potrà telefonare, né fumare. Mangerà cibi senza zucchero, e tante fibre. La sua sveglia suonerà alle sei del mattino, andrà a nanna entro le dieci. E dovrà rifarsi il letto. Non riceverà le visite di amici né di parenti strettissimi. Saranno ammesse solo alla domenica verso la fine delle cinque settimane. La sua terapia prevede anche sessioni di gruppo «per condividere e smaltire il dolore» e pittura per rilassarsi (consigliati gli autoritratti, per riacquistare stima in se stessi). Non mancano agopuntura, yoga, t'ai chi, stretching. Una squadra multidisciplinare di psichiatri, psicologi e infermiere segue costantemente ogni malato, uno per uno. Se fanno i bravi, i pazienti vengono ricompensati con una notte nel deserto assieme a un indiano Navajo, il quale a un certo punto agita una penna bianca in aria per simboleggiare l'espulsione del «bagaglio emozionale».

Con le dimissioni dalla clinica la cura non finisce. Come nelle università, infatti, i «laureati» di Meadows vengono caldamente sollecitati a rimanere «alunni», ex allievi in contatto fra loro nelle città di origine. Un po' per non ricaderci, un po' per offrire reti di protezione ai nuovi arrivati. Il motto di Meadows è: «Where recovery becomes reality», dove il recupero diventa realtà. Non ci resta che augurare anche a Lapo che la guarigione diventi realtà.

Mauro Suttora

Friday, October 21, 2005

La famiglia con 16 figli

... e tutti iniziano per J...

Oggi, 20 ottobre 2005

Springdale (Stati Uniti)
Quando Jim Duggar, agente immobiliare dell'Arkansas (lo stesso stato dell'ex presidente Bill Clinton), sposò Michelle nel 1984, l'idea era di avere due figli. Ma con calma, perchè lei era appena diciottenne. Il primo, Joshua, nacque nel 1987. «Subito dopo rimasi di nuovo incinta», racconta Michelle, «nonostante prendessi la pillola. Ma ebbi un aborto spontaneo. Noi siamo molto religiosi, e leggemmo sulla Bibbia che i bambini sono un regalo di Dio. Però, usando gli anticoncezionali, ci sembrava di rifiutarli. Così gliene chiedemmo altri, e iniziai subito la gravidanza di due gemelli, Jana e John-David, che oggi hanno 15 anni. Da allora non abbiamo più smesso: ho avuto quasi un figlio ogni anno».
L'ultima, Johannah, è arrivata due settimane fa. In mezzo: Jill, Jessa, Jinger, Joseph, Josiah, Joy-Anna, i gemelli Jedidiah e Jeremiah, Jason, James, Justin e Jackson, di un anno e mezzo. Tredici parti naturali, tre cesarei. Dieci maschi, sei femmine: totale, sedici. Record mondiale? Chissà, forse in Africa... Quel che è certo, è che tutti i loro nomi iniziano per J. Perchè? «Non c'è un motivo particolare, abbiamo cominciato da mio marito Jim», spiega la supermamma Michelle, «e poi abbiamo continuato così per non far sentire nessuno escluso».

Ma come si svolge la vita in una famiglia con sedici figli? «Col tempo abbiamo sviluppato una strategia giornaliera per assicurare un ordinato andamento delle cose. La nostra casa ha 240 metri quadri con quattro camere da letto, e molti letti a castello. Jim ed io ci alziamo alle sei, i ragazzi alle sette. Ognuno si lava, si veste, si pettina, e i più grandi ne hanno uno o due da accudire. Alle otto ci sediamo per fare colazione. Abbiamo calcolato che ogni settimana consumiamo un'ottantina di litri di latte, quindici forme di pane, sei chili di burro. E poi 35 chili di mele, trenta di patate, 24 di gelato, venti di riso, una quindicina di mais e di frutta surgelata, cinque di carne di pollo... Dimentico qualcosa? Ah, sì, 140 banane. La nostra spesa settimanale per il cibo è sui 500 dollari.

«A colazione leggiamo qualcosa dal libro dei Proverbi, poi ognuno pulisce una parte della casa. I grandi hanno dei compiti fissi, una specie di 'giurisdizione', e si possono far aiutare dai più piccoli a loro affidati. Durante il giorno stiamo attenti a non lasciare le cose in giro e a buttare ogni cartaccia e residuo, ma il disordine si crea comunque. Alle nove comincia la scuola. I nostri figli studiano tutti a casa, abbiamo deciso così dopo aver visto gli eccellenti risultati di altri ragazzi educati in questo modo. In questo modo si crea anche più unità in famiglia. E poi, studiare assieme è più divertente. Io ho cominciato a insegnare a Joshua quando ha compiuto quattro anni. Anche qui, i più grandi insegnano lettura, scrittura e matematica ai più piccoli, e poi si dedicano ai propri compiti individuali. Tutti imparano a suonare il violino e il pianoforte.

«A mezzogiorno interrompiamo per pranzare. Jill, che ha 14 anni, è quella che più spesso mi aiuta a preparare da mangiare. Dopo puliamo i piatti, riordiniamo, e all'una e mezzo quelli che hanno meno di quattro anni vanno a fare il riposino. Con i più grandi, invece, nel pomeriggio io stessa affronto le materie più impegnative: scienza, storia, legge, medicina. Impariamo a memoria molte poesie e anche inni religiosi, per esercitare il cervello. Alle quattro finiscono le lezioni collettive e fino alle cinque tutti studiano per conto proprio. A cena tocca a Jana, la nostra primogenita femmina, aiutarmi a far da mangiare. Alle sette tempo libero per tutti, anche se visto che abbiamo un solo pianoforte da dividere in undici dobbiamo fare i turni fino a sera. I più piccoli si preparano ad andare a letto, e uno dopo l'altro tutti fanno la doccia o il bagno e si lavano i denti.

«Alle nove di sera arriva quello che è forse il momento pìu bello della giornata. Papà, che è tornato dal lavoro, ci legge dei brani della Bibbia e poi ne discutiamo assieme. I più piccoli si addormentano sul divano, e comunque andiamo tutti a letto alle dieci. Intanto la lavatrice è sempre in funzione: facciamo sette bucati al giorno, mettiamo tutto nell'asciugatrice e poi qualcuno mi aiuta a piegare e riporre negli armadi. Una stanza intera l'abbiamo dovuta convertire in armadio per i vestiti da appendere. Calze, mutande e magliette di ciascuno stanno in grandi scatole col nome del proprietario. Le femmine portano calze bianche, i maschi nere, così possiamo fare lavatrici uniformi. A ogni cambio di stagione mettiamo i vestiti che non usiamo più in grossi scatoloni che etichettiamo e portiamo in cantina, per liberare gli armadi.

«Avere tanti figli può sembrare faticoso, ma non è così, perchè tutti aiutano. Lavoriamo in squadra, al muro della sala da pranzo c'è appesa la lista dei compiti di ciascuno. Abbiamo anche delle pagelle mensili, con i voti che ciascuno prende in quattro campi: studio, lavori domestici, musica e igiene personale. Così i bambini si responsabilizzano e imparano a essere premiati o puniti. In casa ci sono sette computer, tutti col filtro per internet, ma niente tv.

«Andiamo a fare la spesa nel minivan con 15 posti, oppure nel bus con 21 posti se dobbiamo comprare parecchia roba. Di solito riempiamo dai cinque ai sette carrelli. Non riceviamo alcun aiuto finanziario esterno, lo stipendio di Jim (dai 50 ai 70 mila dollari annui) ci basta, ma stiamo molto attenti ad approfittare di ogni offerta speciale, e a risparmiare. Compriamo molti vestiti e giocattoli usati... Ogni tanto facciamo una scampagnata col nostro bus. Ho calcolato di aver avuto doglie per un totale di 127 ore, ma se Dio ci benedirà con altri figli li accoglieremo con gioia. So che posso sembrare una pazza a dirlo, ma ce la faremo comunque. Ora stiamo comprando una nuova casa da 700 metri quadri con due grandi dormitori per i maschi e le femmine. Non vediamo l'ora di traslocare, ma siamo comunque una famiglia unita e felice».

Mauro Suttora

Thursday, October 20, 2005

Socialisti Usa e radicali

DIASPORE SOCIALISTE USA (E CONTORNO DI RADICALI)

Il Foglio, 20 ottobre 2005

di Mauro Suttora

E' morto Kemble, neocon dal volto umano e capo dei Social democrats, con il pallino della democrazia

New York. E' morto Penn Kemble. Leader socialdemocratico americano, era dirigente della Freedom House, del Consiglio delle Democrazie, e negli otto anni di Bill Clinton era stato vicedirettore dell'Usia (United States Information Agency). Intellettuale stimato e bipartisan, nel 2002 anche l'amministrazione Bush gli aveva dato un incarico, in una commissione sul Sudan. Nello stesso anno ha firmato un appello per la protezione della libertà a Hong Kong del Pnac (Project for a New American Century), il cuore dell'iniziativa politica neocon. E l'anno scorso è stato tra i promotori dell'appello bipartisan del Foglio per l'invio di soldati Nato in Iraq, firmato fra gli altri da Gianfranco Fini, Umberto Ranieri, Franco Marini e Piero Ostellino.

Strani tipi, i socialdemocratici statunitensi. Nella gioventù socialista Usa, fra gli anni Sessanta e Settanta, sono passati personaggi poi famosi come Jeane Kirkpatrick (ambasciatrice di Ronald Reagan all'Onu) e Paul Wolfowitz. Dirigente dell'organizzazione, con Kemble, è stato Joshua Muravchik, oggi colonna dell'Aei (American Enterprise Institute), il think tank neocon. Del gruppo fa parte anche il quotato saggista Paul Berman, che ha appoggiato la guerra in Iraq ma l'anno scorso ha votato John Kerry. Il socialdemocratico con la posizione di governo più importante, anch'egli impermeabile ai cambi di amministrazione, è Carl Gershman, presidente da ben 21 anni del Ned (National Endowment for Democracy), voluto da Ronald Reagan per combattere l’Impero del Male (l’Urss), e oggi impegnato ad assistere finanziariamente i Paesi in transizione verso la democrazia (all'attivo le rivoluzioni nonviolente in Serbia, Georgia e Ucraina).

La lotta per la democrazia. Questa è la principale mission che si sono dati i Social democrats statunitensi. E non da ieri: il congresso della diaspora socialista Usa risale infatti al 1972, un terzo di secolo fa. Allora l'onusto Socialist Party of America si spaccò in tre proprio perchè all'ex trotszkysta Max Shachtman non andava giù la tolleranza per l'Unione Sovietica. La sua corrente vinse il congresso, e gli "equivalentisti" (quelli che mettevano Usa e Urss sullo stesso livello) se ne andarono. Quei "compagni" esistono ancora, anche se ridotti a poche centinaia: stanno nel Socialist Party Usa e nei Democratic socialists. L'Internazionale socialista riconosce come propri membri americani solo questi ultimi, oltre ai Social democrats.

Il legame con i radicali italiani

Contrariamente all'Italia, non c'è alcuna possibilità di riunificazione fra i socialisti e socialdemocratici statunitensi. I Democratic socialists, infatti, sono il classico partitino la cui settarietà e faziosità è inversamente proporzionale alla propria dimensione. Si accontentano di essere una piccola corrente all'interno del partito democratici. I Social democrats, al contrario, hanno da tempo abbandonato la forma partito e operano esclusivamente come club di liberi pensatori. Sulla politica interna ed economica ci sarebbero diversi punti di contatto, ma la politica estera li divide irrimediabilmente: si accusano reciprocamente di essere falchi e molli pacifisti.

Curiosamente, anche negli Usa come in Italia nelle vicende socialiste appaiono i radicali di Marco Pannella. Un pannelliano fiorentino di 30 anni, Matteo Mecacci, rappresentante del partito all'Onu, ha avuto infatti l'onore due settimane fa di essere invitato a parlare dal palco del Ned nello stesso giorno del presidente degli Stati Uniti. Al mattino George Bush ha tenuto un importante discorso nella sede del Ned di Washington, e nel pomeriggio Mecacci ha dibattuto gli stessi temi a New York con il numero due dell’Onu, Mark Malloch Brown, potente capo di gabinetto del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan.

Mecacci è stato presentato con parole lusinghiere da Gershman, il presidente socialdemocratico del Ned, all’auditorium del palazzo McGraw-Hill del Rockefeller Center, di fronte a una qualificata platea di ambasciatori ed esperti di politica estera: «Il partito radicale transnazionale di Emma Bonino si batte per una riforma dell’Onu, in cui le democrazie contino di più e non vengano ostacolate dalle dittature, che sono ormai soltanto una minoranza fra gli stati rappresentati al Palazzo di vetro». Mecacci ha scritto anche vari editoriali con il segretario radicale Daniele Capezzone sul Washington Times, il quotidiano legato al Pentagono. Destra, sinistra, nonviolenza, guerra? Socialdemocratici americani e radicali italiani non vedono contraddizioni e spargono il loro verbo democratizzatore ovunque.

Mauro Suttora

Wednesday, October 19, 2005

Angela Merkel

Oggi, 12 ottobre 2005

«Chi ha qualcosa da dire non ha bisogno di trucco»: così Angela Merkel, 51 anni, la nuova cancelliera tedesca, risponde ai consulenti «per l'immagine» del partito democristiano tedesco, quando la implorano di tenersi un po' più su, di mettersi un bel rossetto, di passare più spesso dal parrucchiere. Niente da fare. Lei, tetra e tetragona come la teutonica prof di chimica che è, per tutta la campagna elettorale non si è curata della forma, andando dritta alla sostanza. Ha promesso ai suoi compatrioti meno assistenza, meno sussidi, più competizione, più libero mercato. E alla fine ha vinto.

Sarà la prima donna a guidare la Germania dopo mille anni: dai tempi delle imperatrici Teofania di Bisanzio e di sua suocera Santa Adelaide, che dal 983 al 995 fecero da reggenti al minorenne Ottone III. Adolf Hitler si rivolta nella tomba, di fronte a questa signora così poco marziale che si è impadronita del Reich. Ma sotto l'apparenza dimessa e pacioccona, e nonostante il nome, Angela ha un'anima di ferro. Altro che «Angie», come hanno cercato di soprannominarla quelli delle pubbliche relazioni: a ogni suo comizio trasmettevano l'omonima, romantica canzone dei Rolling Stones per ingentilirla. Missione impossibile: come si fa ad addolcire la figlia di un severo pastore luterano cresciuta per 35 anni sotto la dittatura comunista della Germania Est, e sopravvissuta per i successivi quindici alle trappole degli squali della politica, «amici» e nemici uniti nell'invidia della sua rapida ascesa?

Angela Merkel è la più giovane cancelliera del dopoguerra (meglio non risalire fino a Hitler, nominato a 44 anni). E' anche la prima che viene dall'Est, e la prima democristiana divorziata e risposata. Suo padre, oggi quasi ottantenne, continua a vivere nel paesino a nord di Berlino in cui la portò quand'era ancora in fasce. Da Amburgo dov'era nata, infatti, la famigliola nel '54 si trasferisce all'Est, perchè a padre Horst Kasner la chiesa ordina di coprire una parrocchia rimasta senza pastore. «Solo due tipi di persone lasciano la Germania occidentale per quella orientale: i comunisti e gli idioti», commenta il traslocatore. Alla mamma il regime impedisce l'insegnamento: troppo pericoloso mettere in cattedra una che viene dall'Ovest, potrebbe essere una spia.

Angela e i fratellini (un maschio e una femmina) crescono nel clima di sospetto e terrore instillato dalla polizia segreta Stasi. La chiesa viene tollerata, ma suo padre subisce le angherie dei gerarchi: solo negli anni '70 gli concederanno il permesso per viaggiare un po' in Italia e in Gran Bretagna. Ma senza famiglia. «Eravamo i figli di un pastore», ricorda lei, «e dovevamo primeggiare in tutto per sopravvivere». Volontà d'acciaio: a otto anni rimane tre quarti d'ora sul bordo della piscina per trovare il coraggio di tuffarsi la prima volta. Dissimulazione: mai esprimere i propri pensieri, chiunque può fare una spiata. A 14 anni Angela simpatizza per i ragazzi della Primavera di Praga, ma guai a dirlo. Vuole fare la traduttrice, impara perfettamente il russo e l'inglese. Nel 1970 viene premiata dalla scuola con un viaggio all'estero: a Mosca. «Comprai lì, al mercato nero, il mio primo disco dei Beatles: Yellow Submarine».

Ma suo padre commette un'imprudenza: durante qualche riunione privata in parrocchia commenta gli scritti di Andrei Sacharov. Viene etichettato come dissidente, e ad Angela viene impedito di fare l'interprete (mestiere riservato ai fedeli alla linea). Così la ragazza si iscrive a chimica all'università di Lipsia. A 23 anni si sposa con un compagno di studi, dopo soli quattro anni divorzia, ma ne conserva il cognome: Merkel. Pare per non dover tornare al cognome del padre, col quale è in rotta. Tuttora i loro rapporti non sono buoni. Negli anni '80 Angela si specializza in fisica a Berlino, ed entra nella prestigiosa Accademia delle Scienze. Lì conosce Joachim Sauer, il suo secondo marito, più anziano di cinque anni. Figlio di un pasticciere, anche lui divorziato, è un'autorità mondiale nella fisica quantistica. Ma non può partecipare a congressi all'estero perchè rifiuta di iscriversi al partito comunista.

Angela invece naviga meglio, assume qualche incarico nella gioventù del partito che però non le verrà rinfacciato in seguito. I due convivono per tredici anni senza sposarsi. Lo faranno solo negli anni '90, quando lei è un pezzo grosso dc e un vescovo protesta pubblicamente. Ma ancor oggi il marito fa vita riservatissima, non si fa mai vedere assieme a lei in pubblico. La accompagna solo una volta all'anno al festival di Wagner a Bayreuth, ma anche lì rifiuta sempre di parlare ai giornalisti. I quali si vendicano chiamandolo «fantasma dell'opera».

Arriva la data fatidica: 9 novembre 1989. Quella sera crollano il Muro di Berlino e il comunismo. Ma Angela Merkel sembra un personaggio di Milan Kundera: manca l'appuntamento con la storia. Il suo appuntamento è con un'amica per andare in sauna, come ogni settimana. E non vuole mancare l'impegno. Fa la sua prima passeggiata a Berlino Ovest soltanto il giorno dopo. Con calma. L'entusiasmo le arriva qualche settimana dopo, quando si butta in politica per aiutare un partitino messo in piedi dai dissidenti protestanti che aveva conosciuto in famiglia. Poi arriva la riunificazione, e lei finisce nella Cdu nazionale. Anche perchè vari membri del suo ex partito vengono smascherati come collaborazionisti dei servizi segreti.

Inizia la seconda navigazione nella vita di Angela. Che lascia la carriera di scienziata e sceglie la politica a tempo pieno. Il cancelliere Helmut Kohl la nota, la prende sotto la sua ala e la valorizza. Prima la fa eleggere al Parlamento, poi la nomina ministro. C'è bisogno di volti nuovi dell'Est, in più lei è donna e quarantenne. La circospezione e la tenacia appresi dietro la cortina di ferro le tornano utili: «Mio padre mi ha insegnato a non fidarsi mai», confessa. Diventa ministro dell'Ambiente e si scontra con Gerhard Schroeder, allora presidente socialista della Bassa Sassonia. Il quale la umilia su una disputa di centrali nucleari. Lei gli promette vendetta. Ma la vera battaglia Angela la deve sostenere all'interno del proprio partito. La «cocca di Kohl» finisce pure lei all'opposizione quando nel '98 Schroeder vince le elezioni. I democristiani perdono il potere, si scatena la lotta per la successione.

Lei stessa, afferrato il pugnale di Bruto, uccide politicamente il suo padrino: è l'unica ad avere il coraggio di invitare pubblicamente Kohl, colpito dagli scandali, a farsi da parte. Poi però deve soccombere, lei protestante, ai potenti dc cattolici bavaresi, che rifiutano di candidarla al voto del 2002. Ma lei continua imperterrita a macinare politica sedici ore al giorno, non ha figli, si concede poche distrazioni (la lirica, i film di Dustin Hoffman). Un mastino. Edmund Stoiber e Wolfgang Schauble, i suoi rivali all'interno del partito, alla fine devono farle strada: sarà lei a sfidare Schroeder nel settembre 2005. L'attacco più cattivo glielo lancia la giovane e bella moglie del cancelliere socialista: «Non è una donna come le altre», alludendo alla sua scarsa avvenenza e alla mancata maternità. Il voto finisce in parità. Ma lei tiene duro, e alla fine si allea proprio con i socialisti. Senza Schroeder, però: c'era quel vecchio conticino da regolare...

Mauro Suttora

Musulmane

Una serata con Phyllis Chesler, la femminista che difende le donne islamiche dalle donne di sinistra

Il Foglio, 19 ottobre 2005

di Mauro Suttora

New York. Il femminismo è morto? Sì, se non sceglie come priorità il dramma delle donne islamiche. Lo sostiene Phyllis Chesler, 65 anni, dall’alto dei due milioni e mezzo di copie vendute di “Le donne e la pazzia”, caposaldo della letteratura femminista negli anni Settanta. Il sottotitolo del suo nuovo libro-choc (“The Death of Feminism”, che segue “Donna contro donna”, tradotto in Italia nel 2003 da Mondadori) fa imbestialire varie ex compagne: “What’s Next in the Struggle for Women’s Freedom”. Cioè: di cosa dobbiamo occuparci ora, per fa avanzare la libertà delle donne? Per Chesler la risposta è chiara: «L’apartheid schiavista subito dal mondo femminile nell’Islam. Se non capiamo il pericolo per i nostri valori - e per le nostre vite - rappresentato dal razzismo e dal sessismo dei reazionari musulmani, siamo morte: uccise dal virus della passività provocata dalla correttezza politica».

Venerdì sera, Quinta avenue di Manhattan, di fronte all’Empire State Building. La pioggia torrenziale non deterre decine di donne dall’affollare il salone dei dibattiti della Cuny (City University di New York), l’ateneo pubblico che fece aspettare 22 anni anche la Chesler prima di concederle la cattedra di ruolo in Psicologia. Ora però il suo avversario non è più l’establishment accademico maschile, ma il femminismo di sinistra. Incrostatosi esso stesso come nuovo potere, in una palude conformista dove per ogni docente repubblicano ce ne sono sette democratici (proporzione raddoppiata rispetto a trent’anni fa), e in cui i contributi pro-Kerry ad Harvard e negli atenei pubblici californiani (Berkeley, Ucla) hanno superato l’anno scorso di 19 volte quelli pro-Bush.

In questo ambientino, automatiche le proteste contro le organizzatrici del Now (National Organization of Women) e della Cuny appena annunciata la Chesler come protagonista della conferenza. «Davanti a un clima d’intimidazione degno dell’era McCarthy, ringrazio le dirigenti per aver difeso il primo emendamento alla costituzione, proteggendo la mia libertà di parola», esordisce la “traditrice”. Che difende tuttora l’intervento in Iraq, ma che già poche settimane dopo l’11 settembre 2001 suscitò clamore appoggiando l’attacco all’Afghanistan sul New York Times. E non ha migliorato il proprio status di pecora nera pubblicando due anni fa, lei ebrea di Brooklyn, una requisitoria contro “Il nuovo Antisemitismo”.

Il marito di Kabul

In questa sua ultima polemica contro il maschilismo islamico Phyllis Chesler parte da lontano, ma anche da molto vicino: «Nell’estate ‘61 mi trasferii a Kabul, dopo aver sposato il mio fidanzato Alì. Lui proveniva da una potente famiglia afghana, eravamo stati assieme per due anni frequentando l’università qui in America. Alì era delizioso, interessante, coltivato: parlavamo di Simone Signoret, Fellini, Proust e Dostoievski... Peccato che abbia smesso di parlarmi una volta in Afghanistan. Reimmerso nell’ambiente di famiglia, cambiò totalmente. Quanto a me, vissi segregata da quando all’aeroporto di Kabul mi confiscarono il passaporto. Ero praticamente agli arresti domiciliari, Ma anche in casa non potevo mai stare da sola, se volevo leggere o scrivere mi chiedevano perchè fossi così triste dal volerlo fare. Non esiste il concetto di privacy, da quelle parti. Ero prigioniera. Scoprii che il padre di Alì aveva tre mogli.
Dopo qualche mese di incubo riuscii a scappare e a tornare indietro. Baciai la terra quando atterrai all’aeroporto di New York. Ero incinta, ma se lo avessi detto a Kabul non mi avrebbero lasciata partire. Abortii».

Nulla è cambiato negli ultimi 44 anni, sostiene questa fondatrice del femminismo Usa: «Nell’Islam i matrimoni continuano a essere combinati, le donne vengono torturate, per le accusate di adulterio c’è la lapidazione. A scagliare la prima pietra sono il padre o il primogenito... E i maschi musulmani sono ancora affetti dalla sindrome di personalità multipla culturale, come il mio Alì: diversi quando sono in occidente, ritengono noi degli ingenui perchè di personalità tendiamo ad averne una sola... Di fronte a tutto questo, giustifico che gli Stati Uniti usino la propria potenza per sottrarre le donne islamiche al loro tremendo destino, e anche che facciano ricorso allo strumento militare come mezzo estremo».

Segue dibattito. Cagnara. Parlano alcune femministe di estrema sinistra, senza porre domande. Quando la Chesler interrompe i loro comizietti si mettono a urlare contro la censura, il fascismo e Bush. Unica obiezione sensata: le donne saudite stanno peggio delle irachene sotto Saddam, ma Riyad è alleata degli Usa. «Su questo mi trovo più a destra di Bush», risponde ironica Phyllis Chesler.

Mauro Suttora

Wednesday, October 05, 2005

George Clooney

CLOONEY MALATO

Oggi, 2 ottobre 2005

New York (Stati Uniti), ottobre

George Clooney è malato. Una malattia grave, anche se non mortale. Lo ha rivelato lui stesso alla giornalista americana Diane Sawyer, durante una trasmissione della rete Abc girata nella sua villa sul lago di Como. «A tutti, prima o poi, capita nella vita quell'anno in cui si invecchia dieci anni», ha confessato l'attore statunitense, «e a me è toccato un male raro e debilitante, con il fluido spinale che mi esce da naso. E pensare che all’inizio credevo fosse una semplice sinusite...».

Si tratta di una patologia collegata addirittura con il morbo della mucca pazza, perchè colpisce la «dura mater», ovvero la membrana che protegge il midollo spinale. Ma ne è una versione benigna, curabile se individuata in tempo, seppur dolorosa e fastidiosissima: «Praticamente quando starnutivo mi uscivano dei pezzi di testa dal naso», scherza oggi George, anche se all'inizio la sorpresa e la paura sono state grandi. «Dopotutto ho recitato per cinque anni in ER, quindi sono abbastanza abituato a situazioni del genere. Come quel malato che cominciò con un’emicrania, e finì con un tumore al cervello», dice l'attore 44enne, riferendosi al serial Tv che lo ha reso famoso, ambientato in un pronto soccorso (Emergency Room, appunto).

I sintomi del male sono forti mal di testa e perdite di memoria. La star, che negli ultimi tempi ha perso ben quattordici chili, li sta sconfiggendo poco a poco: «Ma sono sicuro che alla fine ce la farò, miglioro ogni giorno. Ho dovuto sottopormi a una quarantina di piccoli interventi chirurgici, mi hanno suturato e infilato tamponi nel naso. Però, tutto sommato, per me che faccio l’attore è stata un'esperienza interessante. Non ricordarsi le cose a breve termine ti colpisce proprio nell’attività professionale, si perde la fiducia in se stessi... Per esercitarmi ora mi tocca contare i gradini quando faccio le scale, e metto bigliettini dappertutto per non dimenticarmi le cose che devo fare».

E i mal di testa? «Ce li ho ancora, ogni giorno. Ma sempre meno, e più leggeri. Cerco anche di stare il più lontano possibile dai farmaci. Mia zia Rosemary Clooney, attrice di successo nei musical, si rovinò la vita e la carriera perchè usava tanti di quegli antidolorifici che ne divenne dipendente. Grazie a Dio io non ho avuto danni permanenti. Ma ogni giorno e ogni notte devo affrontare una piccola sfida. A volte mi sento come se dovessi respirare con una cannuccia stando sdraiato nel fondo di una piscina. E il disturbo peggiora con il passare delle ore che sto in piedi, perchè il peso del cervello spinge il fluido verso il basso e lo fa fuoriuscire... Comunque passare attraverso queste cose ti fa capire che ogni giorno è un regalo. E che non bisogna arrivare alla fine con dei rimpianti: “Ah, se avessi fatto questo, o quest’altro...»

E le donne, i bambini? Il nuovo Cary Grant, uomo desideratissimo dalle femmine dell’intero pianeta, non rimpiangerà un giorno di non aver avuto una moglie e dei figli? «Non prevedo di sposarmi nel prossimo futuro. Lo sono stato in passato, ma ora il matrimonio non rientra proprio fra le mie priorità. Non sto cercando nessuno. E non ho alcun desiderio di diventare padre. Lo so che può sembrare strano, ma non ho mai voluto avere figli. Anche perchè sarebbe una cosa che mi assorbirebbe molto, non prenderei certo una responsabilità simile alla leggera». Lo scapolo 44enne è stato nominato di recente «l'ultraquarantenne più sexy del mondo», ma lui scherza pure su questo: «Anche se avessero specificato “ultraquarantenne col cognome che inizia per C” avrei perso, perchè c'è già Sean Connery...»

Speranze svanite, quindi, per Gianna Elvira Cantatore, la 32enne pugliese che ultimamente era stata accreditata come nuova fiamma di Clooney. I due si erano conosciuti a una festa privata in una villa di Cernobbio, e in seguito ci sono state cene al ‘Gatto Nero’, ristorante a picco sul lago dei Como. Ma era stata lei a fargli la corte, spedendogli un mazzo di margherite nella villa di Laglio, e non viceversa. E, alla fine, anche questa volta lo splendido George ha liquidato la vogliosa candidata con un simpatico sorriso.

Ciò che gli sta veramente a cuore, in queste settimane, è il successo dell’ultimo film che ha diretto, Good Night and Good Luck. E’ la storia di un coraggioso giornalista televisivo americano che negli anni Cinquanta si oppose alla caccia alle streghe del senatore Joe McCarthy. Ma è anche un omaggio a suo padre, reporter tv. Ogni riferimento all’attuale situazione politica statunitense è assolutamente voluto.

Clooney non fa mistero di essere di sinistra: «La mia frase preferita nel film è: “Dobbiamo primeggiare grazie alle nostre idee, non con le bombe...” Mi piace perchè non è una frase che attacca questo o quello, che definisce il bene o il male, ma si limita a constatare che il nostro Paese può fare un sacco di cose positive e sorprendenti, per noi e per i nostri alleati. Quanto a mio padre, il momento più bello del film è stato la prima volta che gliel’ho fatto vedere, proprio qui nella villa mentre era in vacanza in Italia con mia madre. Alla fine si è alzato, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: ‘Tutto vero, bravo’. Per me è stato il massimo».

Il settimanale Newsweek ha già definito Good Night and Good Luck «il miglior film americano dell’anno». E ha tracciato un ritratto trionfale di quello che è non solo un attore, regista, produttore e sceneggiatore di successo, ma anche un uomo simpaticissimo, intelligente, di classe e impegnato. E’ un impegno politico gaudente, però, quello di Clooney. Ancora l’altra sera l’attore è andato a letto alle otto del mattino a Manhattan, dopo aver fatto bisboccia con gli amici alla festa d’apertura del festival del cinema di New York.

Quand’è nella sua villa italiana in vacanza, invece, i suoi orari sono più mattinieri: sveglia alle sette e mezzo, un’ora e mezzo per leggere i giornali, poi palestra, un giro in moto attorno al lago, ed è già l’ora di pranzo: «Alle due suona la campana e tutti, come una piccola mandria, arriviamo per mangiare. Ho sempre dai quindici ai venticinque ospiti. Sono stato molto fortunato con la mia carriera. Molte cose mi sono capitate per caso, ma sicuramente la svolta sono state le puntate di successo di ER, in tv ogni giovedì sera. Senza quel serial non avrei potuto permettermi questa villa».

In cucina ci sono ben quattro frigoriferi. «Una villa del diciottesimo secolo con dentro una superstar del ventunesimo», la definisce l’intervistatrice, con ammirazione per entrambe. «Sono stati questi suoi soffitti affrescati a conquistarmi», confessa Clooney, «ma nella camera matrimoniale non ci dormo, è troppo grande. Ha un bagno privato che da solo è più grosso del mio vecchio appartamento...»

E' la prima volta che i telespettatori americani possono vedere gli splendori di villa Oleandra, la magione con quindici camere da letto che Clooney possiede in riva al lago: «L'ho comprata dalla famiglia dei miliardari Heinz, e mi sento un po’ in colpa perchè sono un cattolico di origine irlandese: per molto tempo non ho avuto una lira. Ma tutto sommato è positivo avere complessi di colpa sui soldi, si possono utilizzare responsabilmente».

Ora Clooney vuole realizzare un altro sogno: aprire un casinò a Las Vegas. Lo farà in società con Rande Berger, marito di Cindy Crawford (ex top model e moglie di Richard Gere) e con gli inseparabili Brad Pitt e Matt Damon: «Ma sarà un casinò di classe, dove si entrerà solo se si è vestiti bene, e ci saranno feste danzanti... Come la prima volta che andai a Las Vegas con mia zia, e fui colpito dall’eleganza del posto». Insomma, la star di Ocean Eleven e Twelve vuole copiare le imprese di Frank Sinatra e Dean Martin non solo sullo schermo, ma anche nella realtà. Un quarto dei guadagni verrà però versato in beneficenza, promette Clooney.

E Brad Pitt? Sposerà la sua Angelina Jolie a villa Oleandra, come si sussurra? Clooney smentisce. Ma se non lo facesse, che matrimonio segreto sarebbe?

Mauro Suttora