Thursday, March 27, 2003

Paolo Mieli sull'Iraq

Corriere della Sera, 27 marzo 2003

Amministrazione Onu per l' Iraq: le ragioni di Blair

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

Davvero non comprendo, caro Mieli, perché lei creda che l' Onu possa e debba amministrare il dopo in Iraq, non avendo saputo e voluto far nulla prima. Mentre nelle tombe di Al-Najaf le truppe anglo-americane trovano gli agenti chimici invano cercati dagli ispettori delle Nazioni Unite...

Luigi Castaldi
Napoli

Caro Castaldi,
ho già detto che non è prematuro discutere adesso del dopo Saddam. E, dal momento che ho ricevuto svariate lettere su questo tema (alcune di consenso a quel che avevo scritto, anche se ho preferito dar conto di due scelte tra quelle sfavorevoli), forse è bene spendere ancora due parole sull' argomento. Due parole per spiegare perché ritengo sensata la proposta di un' amministrazione Onu sull' Iraq avanzata molte settimane fa da intellettuali europei oltreché dai radicali italiani e che ora è diventata motivo di tensione tra il primo ministro inglese Tony Blair, il quale l' ha fatta sua, e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.

Io non tengo le Nazioni Unite in maggior considerazione di quanto le teniate voi. Ma penso che, stavolta, all' origine di ciò che ha messo in crisi il Palazzo di Vetro non siano state un' incertezza o un passo falso di Kofi Annan. E che perciò (cioè per il fatto di non avere colpe particolari nella degenerazione in guerra della situazione preesistente) l' Onu, pur con tutti i suoi difetti, possa tornare utile per una gestione del dopo Saddam condivisa dal consesso internazionale. Tra l' altro il fatto che su questo vi sia diversità di vedute tra il laburista europeo Blair e il conservatore americano Bush potrebbe offrire un' opportunità di rientrare utilmente nel gioco a molti Paesi del nostro continente. E a parti della sinistra che hanno fin qui avversato l' uso delle armi come strumento per dirimere il contenzioso con il dittatore di Bagdad.

Ma c' è dell' altro. Da tempo seguo con grande attenzione quel che dicono in proposito gli arabi riformisti e gli islamici non fondamentalisti. Tutti o quasi concordano con questa proposta. Amir Taheri, un iraniano che ora scrive per i più importanti quotidiani degli Stati Uniti, sostiene che l' America deve guardarsi dall' imporre all' Iraq di domani «questo o quel leader in virtù dei suoi legami con qualche esponente di Washington», che gli Stati Uniti dovranno mantenersi «neutrali e amici di tutti» e che l' epurazione dovrà essere più che cauta: «gli attuali parlamentari iracheni, tranne una settantina, sono riciclabili; si tratta di opportunisti, certo, ma un' amnistia generale dovrebbe esentare soltanto qualche dozzina di criminali, gli esecutori diretti degli ordini di Saddam Hussein» ha dichiarato a Mauro Suttora del Foglio.

L' imam iracheno di New York, Sheikh Fadehl Al-Sahlani, ha ribadito allo stesso Suttora che «un' amministrazione delle Nazioni Unite invece che statunitense sarebbe auspicabile perché gli iracheni la digerirebbero più facilmente: l' Iraq è un paese musulmano e l' Onu viene accettata perché comprende tutti i Paesi musulmani».

Un altro esule iracheno, Kanan Makiya, oggi docente ad Harvard, si è spinto più in là e ha suggerito che il nuovo Iraq, libero, sia «federale, non arabo e demilitarizzato». E ha precisato: «L' Iraq non è l' Afghanistan; è piuttosto ricco e sviluppato, possiede le risorse umane per diventare una grande forza per la democrazia e la ricostruzione nel mondo arabo e musulmano proprio come è stata una grande forza per l' autocrazia e la distruzione».

Potrei continuare, ma vi prego di credermi sulla parola: gli intellettuali che vengono da quell' area geografica sono pressoché unanimi nel ritenere che la prospettiva indicata da Blair sia più saggia di quella di Bush. E io, pur rinnovando le mie riserve su scelta dei tempi e modalità di questa guerra, nell' augurarmi adesso che si concluda al più presto con la deposizione del despota, ritengo che abbiano ragione.

Wednesday, March 19, 2003

E' sparito il diario di Claretta

Il furto dell' epistolario Mussolini Petacci ha ragioni politiche?

"Quel carteggio scotta. Mia zia sapeva che gli inglesi avevano chiesto aiuto a Mussolini per l' armistizio con Hitler", rivelò un mese fa a Oggi il nipote della Petacci, Ferdinando (a lato, col nostro cronista) "Hanno rubato i documenti che potevano mettere in imbarazzo gli inglesi", dice lo storico Luciano Garibaldi

di Mauro Suttora

Oggi 19/03/2003

Il giallo si complica. E i misteri sulla morte di Benito Mussolini, invece di dissolversi, si infittiscono. Il nuovo soprintendente dell' Archivio di Stato, Maurizio Fallace, ha denunciato ai carabinieri il furto di tutta l' annata 1937 del carteggio fra il dittatore fascista e la sua amante, Claretta Petacci, e del diario di quest' ultima. L' unico erede della Petacci, il nipote sessantenne Ferdinando che vive a Phoenix, in Arizona, un mese fa aveva lanciato proprio dalle colonne del nostro giornale, in un' intervista esclusiva, l' allarme sul destino degli scottanti documenti: "Qualcuno non vuole che la verità esca fuori" (Oggi n. 6, 5 febbraio 2003). E adesso la notizia che diario e lettere sono già stati saccheggiati da mani ignote fa lievitare i sospetti.

Ma cosa contiene di così esplosivo il carteggio Mussolini Petacci?
"In teoria, nessuno dovrebbe saperlo", risponde lo storico Luciano Garibaldi, uno dei massimi esperti di quel periodo e autore di molti libri (gli ultimi: La pista inglese, edizioni Ares, e Un secolo di guerre, ed. White Star), "perché da 58 anni tutti i governi lo hanno coperto con il segreto di Stato. Che però per legge dura solo cinquant' anni. Cosicché alla sua scadenza, nel 1995, chiesi di esaminarlo. Ma l' Archivio mi impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent' anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell' epoca, Giorgio Napolitano, specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell' Archivio, soltanto alcune pagine dei diari fra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945".

Perché questa autolimitazione ?

"Perché ero venuto in possesso delle trascrizioni delle telefonate fra Mussolini e Claretta, intercettate dai tedeschi che controllavano tutto. Da quei colloqui emergono i contatti segreti che il Duce aveva con emissari inglesi di Winston Churchill. "Riuscirò a convincere Hitler", dice Mussolini alla sua amante, che in quel periodo drammatico era diventata anche la sua confidente politica. Lui si sfogava con lei perché ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno".

Cosa voleva Churchill da Mussolini?

"Bloccare l' Unione Sovietica che stava dilagando troppo velocemente in Europa, mentre gli occidentali erano ancora fermi sul Reno".

E lei cosa voleva scoprire nei diari segreti di Claretta?

"Quello che scrisse, almeno nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate intercettate dai nazisti. Lei ascoltava tutto, e durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, sul lago di Garda, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Miriam".

E perché Napolitano non le ha permesso di consultarli, visto che il periodo del segreto di Stato è scaduto e il suo lavoro è di tipo storico scientifico, non certo alla ricerca di pettegolezzi privati ?

"La sua è stata una risposta curiosa. Sosteneva che i funzionari dell' Archivio avevano già provveduto a consultare i diari e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava".

Quindi qualcuno ha già letto e studiato i documenti segreti. E come mai è sparito proprio l' anno 1937 ?

"Le lettere di quell' anno non dovrebbero contenere rivelazioni importanti dal punto di vista politico. Con tutta probabilità si tratta veramente di corrispondenza d' amore e di lamentele da parte dell' amante di un uomo che faceva ancora il galletto e si concedeva altre avventure galanti. Magari saranno state vendute a caro prezzo a qualche collezionista privato miliardario. Ce ne sono tanti, in giro per il mondo".

Il valore commerciale del carteggio e del diario, quindi, potrebbe essere alto. È per questo che il nipote Ferdinando chiede di riaverli ?

"Petacci ha tutto il diritto di rientrarne in possesso, come unico erede vivente. Scaduto il termine dei cinquant' anni di segreto di Stato, se non gli vengono restituiti è un furto".

Ferdinando Petacci aveva soltanto tre anni quando l' auto su cui si trovava assieme alla zia Claretta, al padre Marcello Petacci, alla madre e al fratellino venne bloccata a Dongo, sulla riva del lago di Como, nell' aprile 1945. Suo padre venne fucilato, nonostante avesse dichiarato di essere in contatto con gli inglesi (o forse proprio per questo), la mamma violentata dai partigiani e il fratello non si riprese più dallo choc. Ora vive in Arizona e pretende che i suoi diritti vengano rispettati. Anche quello alla privacy: come si fa, infatti, a opporlo proprio ai parenti più stretti ?

Ma l' Archivio di Stato ha intenzioni differenti: "Quest' anno, trascorsi settant' anni, renderemo consultabili i primi atti del carteggio e del diario, quelli relativi al 1933", annuncia il sovrintendente Fallace. Ed è stato proprio durante una riunione preparatoria per questa pubblicazione che è stato scoperto il furto.

Luciano Garibaldi avverte però: "Già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in un baule nel giardino della villa dei conti Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di fuggire da Gardone, qualcuno si premurò di purgarli delle parti più compromettenti. D' altra parte, questo è stato il destino subito da tutti i documenti che potevano provare qualcosa di imbarazzante per gli inglesi. Quelli che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka per esempio: vent' anni fa gliene chiedemmo conto, e lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch' esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla sono poi le copie fotografiche che Mussolini consegnava al ministro Carlo Alberto Biggini".

Ma siamo sicuri che esistano le prove dei contatti fra Mussolini e Churchill?

"Non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano "Caro Winston" o "Caro Benito", ma sui rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l' autista del Duce, mi ha rivelato nel ' 94 di averlo trasportato due volte la notte, di nascosto, da Salò a Ponte Tresa al confine con la Svizzera per incontrarli. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta hanno cominciato a incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante Bill che catturò sia Mussolini che Marcello Petacci, ha scritto due libri. Peccato che l' Istituto Storico della Resistenza di Pavia non permetta ancora l' ascolto delle cassette con la testimonianza di un altro partigiano, ormai deceduto".

Insomma, i misteri sull' oro di Dongo (il tesoro sparito dei gerarchi fascisti) e sulle uccisioni dei partigiani che non accettarono la versione ufficiale continuano. Dureranno ancora per dodici anni, se il governo non si decide a togliere il segreto (che negli Stati Uniti dura solo trent' anni). E forse per sempre, se malauguratamente si verificherà qualche altro strano "furto".

Mauro Suttora

Thursday, March 13, 2003

Vietnam a New York

UNA MOSTRA NEWYORKESE GLORIFICA IL VIETNAM (E TACE SULLE LIBERTÀ VIOLATE)

Due dittature, due misure?

Il Foglio

13 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. Negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti vanno in guerra contro una dittatura, l’American Museum of Natural History (una delle istituzioni culturali più importanti degli Usa, seconda solo allo Smithsonian di Washington) inaugura, sabato 15 marzo, una mostra sulla “vita quotidiana” in Vietnam, altra dittatura che viene però smerciata agli ingenui newyorkesi come simpatica meta vacanziera, dove esoticamente scontare insensati complessi di colpa per la guerra persa 30 anni fa. I ricchi liberal di Manhattan peggio di Chirac? Sembra di sì, a sentire la presidente del Museo Ellen Futter che ha presentato la mostra (visitabile fino al gennaio 2004) in anteprima ai giornalisti: “Vi invitiamo alla più grande esibizione sul Vietnam mai organizzata negli Stati Uniti, in collaborazione con il Museo Etnologico di Hanoi. Vogliamo introdurvi alla conoscenza di una cultura vibrante e della vita quotidiana di una nazione composta da ben 54 gruppi etnici”.

Nella mostra e nei discorsi non si fa il minimo accenno alla desolante situazione delle libertà in Vietnam. A più di dieci anni dalle prime riforme economiche del regime comunista, il bilancio della liberalizzazione politica è nullo. Le speranze di chi si illudeva che alle timide privatizzazioni sarebbero seguite aperture nel campo delle libertà personali sono andate completamente deluse. “Anche l’ultimo anno ha visto nuove repressioni in Vietnam, con decine di persone condannate a lunghe pene in carcere, molte delle quali per reati d’opinione”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto.

Il prigioniero del mese indicato da Amnesty per il febbraio 2003 è Le Chi Quang, laureato 32enne, condannato a quattro anni soltanto per aver osato criticare su Internet il recente accordo sui confini con la Cina. E’ stato arrestato in un Internet cafè il 21 febbraio 2002, e, al processo dell’8 novembre, durato meno di quattro ore, è apparso distrutto fisicamente e moralmente. E’ malato ai reni. “Ma Le Chi Quang è soltanto uno dei numerosi dissidenti nonviolenti arrestati e condannati nel 2002”, avverte Amnesty, “e il governo di Hanoi continua a impedire agli osservatori internazionali di assistere ai processi. Anzi, a nessuna organizzazione per la difesa dei diritti umani è concesso di entrare in Vietnam”.
Lo scorso 20 dicembre il professore di matematica Nguyen Khac Toan, 47 anni, è stato condannato a 12 anni in un altro processo a porte chiuse durato meno di un giorno: accusato di spionaggio solo per aver passato il testo di petizioni a organizzazioni di profughi vietnamiti all’estero.

La repressione dei Montagnards

Tutti gli altri organismi internazionali, da Freedom House a Human Rights Watch, concordano nel definire il Vietnam una dittatura senza libertà di alcun tipo (associazione, espressione, stampa, riunione) e con violazioni dei diritti umani fondamentali. Ma questo non impedisce a molti volonterosi americani di schierarsi dalla parte dei gerarchi comunisti. Lo stesso direttore del Museo Etnologico vietnamita, Nguyen Van Huy, altro non è che un funzionario governativo, e il suo Museo (come la mostra di New York) propaganda un quadro idilliaco di regime.

“La repressione più feroce la stanno subendo i Montagnards”, avverte Marco Perduca, rappresentante del partito radicale all’Onu, “una popolazione che abita gli altipiani del Vietnam centrale. Più di 200 di loro sono stati arrestati negli ultimi mesi, quasi 100 ci risultano attualmente detenuti e picchiati in prigione, e migliaia di loro vengono costretti a fuggire in Cambogia”. Alla faccia della “vibrante diversità” esaltata dalla ignara (o connivente) presidente Futter del Museo di New York, le minoranze vietnamite subiscono una vera e propria deportazione, con tanto di campi profughi oltre confine.

Se i Montagnards (o Dega) hanno la colpa di essere cristiani protestanti, anche i buddisti vietnamiti non se la passano bene. “L’86enne Thich Huyen Quang, patriarca della Chiesa buddista unificata, è detenuto senza processo dal 1982, senza conoscere nemmeno le ragioni del suo arresto”, denuncia l’eurodeputato radicale Olivier Dupuis, che nel 2001 è stato arrestato durante una sua visita in Vietnam. “Ma tutti i membri delle Chiese non riconosciute ufficialmente dal governo vengono perseguitati”. Il quotidiano New York Post e la televisione Fox hanno criticato la mostra. Ma i liberal newyorkesi di sinistra sembrano felici di assolvere il regime di Hanoi.

Wednesday, March 05, 2003

parla Joe Biden


INTERVISTA AL SENATORE CHE GUIDA LA POLITICA ESTERA DEL PARTITO DEMOCRATICO

Il Foglio, 5 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. "Chi l'ha detto che non possiamo attaccare Saddam dopo il 15 marzo perche' fa troppo caldo? Un'eventuale guerra d'estate per i nostri sarebbe piu' difficile, ma per gli iracheni impossibile. Perche' tutta questa fretta? Diamoci il tempo di recuperare il consenso di Francia, Germania, Russia e Cina, altrimenti Saddam puo' gia' sventolare una vittoria: quella di essere riuscito a dividere la grande coalizione contro il terrorismo, l'Onu e perfino la Nato. Invece io dico: non e' vero che il mondo e' contro di noi, lavoriamo per convincere gli alleati".

Joseph Biden, 60 anni, senatore del Delaware dal 1972 (meta' della sua vita), e' la voce piu' importante dei Democratici per la politica estera: e' infatti il capo dell'opposizione nella commissione Esteri del Senato. Non e' ne' liberal ne' pacifista: ha difeso strenuamente gli interventi in Bosnia e Kosovo. Lo incontriamo dopo un discorso che ha tenuto agli studenti della New York University, a Washington Square. Il voto del Parlamento turco contro la guerra a Saddam lo ha scosso: "In un solo anno Bush e' riuscito a dissolvere tutto il consenso internazionale accumulato dopo l'11 settembre. Ricordo la prima pagina di Le Monde allora: 'Siamo tutti americani'. Ora invece ci siamo alienati la simpatia di quasi tutti, perfino di alleati stretti e fedeli come la Turchia".

Biden, come tutti i Democratici, ha difficolta' nel dire chiaramente se e' pro o contro l'attacco. "Sono favorevole ad avere inviato i nostri soldati: mostrare a Saddam che facciamo sul serio e' l'unico modo per disarmarlo. Ma ora non possiamo fare a lui e a Osama il favore di combattere una guerra contro l'opinione pubblica mondiale". Quindi, nuova parola d'ordine: ricucire con gli europei: "Mettiamo la Francia di fronte alle sue responsabilita'. Chiediamo ai francesi di preparare loro stessi una risoluzione con un calendario preciso e minuzioso di tutte le armi di cui Saddam deve rendere conto: tanti litri di sostanze chimiche, una data entro la quale devono uscir fuori, la determinazione della sanzione, e cosi' per tutto il resto..."

Il senatore pero' sa bene che ormai la macchina e' avviata. La sua collega di partito Hillary Clinton ha dato pieno appoggio al presidente Bush sulla guerra. "Infatti, penso che questa mia proposta abbia solo

Iraq: è guerra

Durerà 3 giorni, e sarà un inferno veramente intelligente

Scenari di guerra: il conflitto con l' Iraq segnerà una svolta nella storia militare, per l' uso massiccio di nuove armi e dell' elettronica

Tra le tre opzioni, nel caso gli sforzi per la pace siano vani, è questa l' ipotesi più realistica. "I combattimenti saranno guidati dalla rivoluzionaria Rete centrale informativa" "Perciò serviranno meno soldati e meno tempo che nel 1991", prevedono gli strateghi. L' esordio delle E Bomb, che con le onde magnetiche "accecheranno" Saddam

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 5 marzo 2003

Durerà tre giorni, tre settimane, tre mesi o tre anni ? "Solo una cosa è sicura: non sapremo nemmeno che è iniziata", dice della guerra in Iraq il generale Lewis McKenzie. Lui, canadese, ha comandato le truppe Onu nell' ex Jugoslavia. Ma l' attacco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein, se ci sarà, questa volta difficilmente verrà condotto in nome delle Nazioni Unite. Come accadde già nel 1999, quando la Russia mise il veto alla guerra in Kosovo. Il presidente statunitense George Bush jr, quindi, dovrà combattere da solo la Seconda guerra del Golfo.

Suo padre vinse la prima, 12 anni fa. E anche questa volta la vittoria è sicura: il primo esercito del mondo, che costa 380 miliardi di dollari l' anno (più di tutte le altre forze armate del pianeta messe assieme) e che allinea armi segrete di inaudita potenza, non si farà certo sconfiggere dagli iracheni, che hanno la metà degli armamenti rispetto al ' 91 e sono indeboliti da dieci anni di sanzioni. Ma è proprio la solitudine degli Stati Uniti a rendere importante il fattore tempo. Perché se Saddam se ne andrà dopo tre giorni, per Washington sarà un trionfo. Mentre se si supereranno i tre mesi diventerà un disastro. Ecco quindi i vari scenari, dal più ottimista al più pessimista.

Guerra di tre giorni.

Improvvisamente, ai 19 milioni di iracheni non arriveranno più notizie. A questo si riferisce il generale McKenzie, parlando dell' incertezza sull' inizio del conflitto. Le tv smetteranno di funzionare e le radio nelle case capteranno solo qualche emittente estera, sulle onde medie. Poi però, dopo qualche ora, la voce di Saddam inviterà tutti a deporre le armi e a non opporre resistenza. Attenzione: la "voce" del dittatore iracheno, non lui. Perché, una volta messi fuori uso i media del regime, gli americani trasmetteranno falsi comunicati già confezionati dalla Cia con la voce "campionata" di Saddam.

Nel frattempo i commandos penetrati in Iraq da settimane (non è un mistero che già adesso incursori e 007 angloamericani stiano operando nel Nord, controllato dai curdi) si impadroniranno dei principali pozzi petroliferi. O comunque impediranno agli iracheni di farli saltare in aria. Il primo attacco, come sempre, arriverà dall' aria e di notte. Dopo che gli aerei a stelle e strisce EA 6B avranno neutralizzato i radar nemici, gli F 16 modello CJ si occuperanno di distruggere metodicamente le batterie antiaeree.

Per ironia della sorte, molte delle tremila spedizioni aeree che gli Stati Uniti sono in grado di far partire nelle prime 48 ore di guerra proverranno dalla base Principe Sultan. Cioè proprio dall' installazione militare che Osama Bin Laden odia di più, perché si trova sul suolo "sacro" della sua Arabia Saudita. Gli altri velivoli (in particolare i Super Hornet, i nuovi caccia della Marina che dispongono di sensori che inquadrano 4 bersagli alla volta) partiranno dalle portaerei, dalla Turchia e dal Qatar.

In tutto, gli Stati Uniti questa volta hanno portato nel Golfo Persico 200 mila soldati: meno della metà rispetto a quelli che combatterono nella coalizione della Prima guerra del Golfo. Come mai ? Basteranno ? "Certo", rispondono fiduciosi al Pentagono, "perché quello fu un conflitto pianificato ancora con la mentalità della guerra fredda: grandi quantità di mezzi corazzati che avanzano lentamente nel deserto, a 15 chilometri l' ora.

La prossima, invece, sarà la prima E war, la prima guerra elettronica". "Una battaglia basata sull' uso delle più moderne tecnologie dell' informazione", prevede il generale dell' esercito italiano Carlo Jean, "in cui sarà regina la rivoluzionaria Rete centrale informativa basata sulla fusione dei dati forniti dai vari "sensori", dai satelliti ai ricognitori non pilotati". Questi ultimi sono gli ormai noti Predator, già usati in Afghanistan.

Guerra di tre settimane.

Si tratta dell' ipotesi più probabile: gli stessi strateghi americani ammettono che la guerra potrebbe durare di meno solo se Saddam fuggisse o fosse rovesciato con un golpe. Ma sarebbe comunque una durata ridotta rispetto alle altre guerre degli ultimi dieci anni: sia nel Golfo che in Kosovo e in Afghanistan, infatti, i bombardamenti aerei sono durati più di un mese prima che le truppe di terra si arrischiassero ad attaccare. "Questa volta, invece, 9 bombe su 10 saranno teleguidate", assicura il generale Robert Scales, "rispetto a una proporzione di 1 su 10 che avevamo nel ' 91. Quindi gli obiettivi saranno raggiunti assai più in fretta".

Su quanto le bombe (dalla Bat alla Blackout alle CBU 97) possano essere "intelligenti" è lecito restare scettici, dopo i numerosi "danni collaterali" subiti dai civili in Serbia quattro anni fa. Certo è che negli ultimi 24 mesi il presidente Bush ha concesso alle sue gerarchie militari un aumento di spesa del 25 per cento, fatto senza precedenti in tempo di pace (unica eccezione, il regime di Hitler), proprio per sviluppare al massimo le armi sofisticate.

Alcuni esempi ? Il sistema Longbow che, montato sui vecchi elicotteri Apache, permette di mirare contemporaneamente a 16 carri armati nemici. O la bomba Jdam, ordigno supertecnologico a guida satellitare (l' 80 per cento delle armi americane usano ormai il sistema di posizionamento Gps collegato ai satelliti), capace di colpire l' obiettivo con uno scarto di errore di appena 5 metri: il Pentagono ha ordinato alla Boeing di Saint Charles (Missouri) ben 174 mila di questi ordigni, dal modello "light" (227 kg) alle taglie più forti (450 e 1.000 kg). O la cosiddetta E bomb, un ordigno digitale a microonde in grado di far saltare i bunker di comando iracheni spegnendo luci, mettendo fuori uso telefoni, radio e tv, sciogliendo computer: in sostanza la E bomb, progettata per "uccidere i computer risparmiando uomini", porterà ad "accecare" Saddam, e gli impedirà qualsiasi comunicazione coi suoi comandi.

Sarà importante, per vincere in fretta, impedire alle divisioni dell' esercito iracheno (che Saddam, temendo colpi di Stato, tiene da sempre lontane da Baghdad) di convergere sulla capitale in caso di estrema resistenza. In realtà, calcolano gli statunitensi, anche la tanto declamata fedeltà della Guardia al dittatore è tutta da dimostrare. Pare che il nucleo duro degli irriducibili non sia composto da più di tremila soldati: quelli che comunque non sopravviverebbero alle vendette personali dopo tutti i crimini commessi, e che quindi combatterebbero fino alla morte non avendo nulla da perdere.

"L' aspetto psicologico di questa guerra sarà importantissimo", conferma il comandante in capo americano Tommy Franks, "noi dobbiamo riuscire a far capire, in pochi giorni, che non combattiamo contro l' Iraq ma solo contro Saddam e i suoi fedeli. Per tutti gli altri ci sarà un posto nel nuovo Iraq liberato e democratico, com' è avvenuto a Kabul".

Parole di speranza. Ma paradossalmente tanto più facile sarà raggiungere questo obiettivo di pacificazione quanto più tremenda e rapida sarà la prima ondata di bombardamenti, che deve servire a demoralizzare i fedeli di Saddam. Dopodiché gli americani mirano a "redimere" quanti più soldati nemici possibile, per arruolarli subito in un esercito alleato, utile per mantenere l' ordine in una situazione che sarà comunque difficile. E perfino a Saddam lasciano aperta una porta, per non spingerlo a una vendetta estrema del tipo "muoia Sansone con tutti i filistei": in caso di fuga, gli garantirebbero (malvolentieri) un esilio come quello concesso al caudillo panamense Manuel Noriega nel 1989.

Guerra di tre mesi.

È lo scenario pessimista. Saddam non cede, i bombardamenti mirati fanno flop, ma soprattutto si avvera uno dei seguenti due incubi. Primo: gli iracheni usano le armi di distruzione di massa chimiche e batteriologiche che giuravano di non avere più. Contro gli americani o contro la propria popolazione civile, non importa: la tattica criminale della terra bruciata è stata già usata troppo ampiamente da Saddam contro i "fratelli musulmani" curdi e iraniani negli Anni ' 80 per non considerarlo capace di simili atrocità. I soldati americani, soldati tutti "nuovi" (ultraletali, ultraspietati, intessuti di tecnologie come un cyborg, un vero superguerriero), hanno tute e maschere antigas, anche se di dubbio funzionamento, ma il vero dramma sarebbe dover soccorrere decine di migliaia di civili iracheni agonizzanti, e contemporaneamente combattere.

Secondo incubo: gli irriducibili si trincerano dentro Baghdad, si proteggono con "scudi umani" occidentali (pacifisti, ostaggi), si nascondono in basi militari sotto o accanto a chiese, scuole, ospedali, musei, siti archeologici. E anche Saddam può confondere le onde radio delle comunicazioni americane. Senza contare che più i congegni tecnologici sono avanzati, più si rivelano fragili. E, in un deserto, i granelli di sabbia capaci di bloccare un mirabile ingranaggio abbondano.

Guerra di tre anni.

Significherebbe, per gli Stati Uniti, aver perso la guerra. Una resistenza endemica, come quella già subita dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan, metterebbe a dura prova i nervi delle opinioni pubbliche occidentali. Gli stessi elettori statunitensi non sono teneri con i propri presidenti che perdono: lo dimostrarono contro Jimmy Carter nel 1980, dopo la crisi degli ostaggi in Iran. Per questo Condoleezza Rice, la consigliera più ascoltata da Bush, non prevede in ogni caso per gli Stati Uniti un impegno oltre i 18 mesi in Iraq.

Ma disastri come un missile chimico di Saddam che colpisce Israele, e Sharon che si vendica con un' atomica su Baghdad, potrebbero far sfuggire la situazione di mano perfino alla potenza più forte del pianeta dai tempi dell' Impero romano. Per non parlare di stragi di kamikaze nel nuovo Iraq occupato, ma anche in Europa o di nuovo negli States.
L' Iraq è l' erede dei primi imperi della storia: quelli di sumeri, assiri e babilonesi che prosperarono in Mesopotamia, culla di civiltà. Sarebbe una tragica coincidenza se si candidasse a esserne anche la tomba.

Mauro Suttora