Tuesday, January 29, 2002

intervista ad Andrea De Carlo

Incredibile: un anarchico di successo

di Mauro Suttora

dal trimestrale Libertaria, 1/2002

"L'Afghanistan dei talebani bastardi o qualche altro cavolo di paese fanatico e integralista (...), dove le donne sono schiavizzate e tenute nascoste e per le strade e nei luoghi pubblici e dappertutto vedi solo maschi. (...) Sarebbe bene che anche lì lo sapessero, con tutte le loro barbe e le loro voci gutturali e le loro manifestazioni grottesche di mascolinità, che gli uomini non sono più così indispensabili per la continuazione della specie: basterebbe una buona scorta di seme congelato, si potrebbe fare a meno degli uomini per sempre. E forse non serve nemmeno più quello."

Andrea De Carlo aveva scritto queste righe (a pagina 123 del suo ultimo romanzo Pura vita, pubblicato lo scorso ottobre) prima dell'attacco alle Torri di Manhattan. Ma, nonostante l'estrema attualità di queste sue frasi, lo scrittore milanese non ha partecipato al chiacchiericcio massmediatico sulla guerra. Quasi unico fra i suoi colleghi, visto che praticamente tutti (da Oriana Fallaci a Dacia Maraini, da Tiziano Terzani ad Antonio Tabucchi, da Alessandro Baricco ad Andrea Camilleri) hanno voluto dire la loro sui terroristi islamici.

Il giorno delle Twin Towers

È da anni che De Carlo fugge i giornalisti, l'attualità, la notorietà. Da tempo niente televisione, e rare interviste distillate soltanto in occasione dell'uscita dei suoi libri. Non per supponenza o misantropia, ma semplicemente perché "gli scrittori che prendono posizioni politiche rischiano di apparire patetici", ci dice. "Comunichiamo già attraverso i nostri libri, per il resto il nostro margine di influenza è assai ridotto. L'11 settembre stavo andando alla Mondadori per discutere i dettagli dell'uscita del mio libro, e ho acceso la radio della macchina. Uno speaker stava parlando di due aerei schiantati sulle Twin Towers di New York. Ho pensato che fosse uno scherzo, come quello di Orson Welles sui marziani. Però questa volta la concitazione sembrava troppo autentica: avrebbero dovuto essere più bravi di Orson Welles".

Ma sulla guerra, cosa pensi?

"Mi è piaciuto quello che ha detto Richard Gere al concerto del Madison Square Garden: "Convertiamo la nostra rabbia in energia positiva". Ma l'hanno fischiato. D'istinto, come prima reazione anch'io sarei salito su un piccolo aereo per andare a bombardare Osama bin Laden. Poi però si riflette, anche sulle colpe precedenti degli Stati Uniti e dell'Occidente in generale. Ho vissuto a lungo in America, sono affezionatissimo agli Usa, ma ho trovato l'intervento della Fallaci molto fuori dalle righe. La sua visione dell'Islam straccione rimasto a mille anni fa è riduttiva, sghangherata, miope".

Nel suo libro De Carlo attacca il governo Berlusconi per la repressione a Genova: "Siamo un Paese finto libero dove alla prima manifestazione di strada la polizia può assumere comportamenti sudamericani e massacrare di botte e torturare per giorni la gente che ha arrestato".

Nel 1984 scrisse Macno, la storia profetica di un dittatore sudamericano arrivato al potere grazie al controllo delle tv. Pensava già a Silvio Berlusconi?

"No. E nel 1994, quando si buttò in politica, pensai che lo faceva per salvarsi la pelle nella bufera di Tangentopoli, ma anche perché era animato da uno spirito autenticamente liberista: il classico imprenditore un po' naïf che vuole ridurre il peso dello Stato, rinnovarne la macchina. Incontravo persone impensabili che gli davano credito, in quei primi giorni. Oggi invece ha perso smalto e ingenuità, mi sembra ossessionato da manie di persecuzione, fisicamente sofferente, affondato in modo irrimediabile in un conflitto di interessi da cui avrebbe anche potuto scegliere di tirarsi fuori. Si è alleato con forze terribilmente reazionarie legate a una concezione vecchia dello Stato, provinciali e chiuse, ostili all'Europa. Alleanza nazionale, per esempio, o la Lega Nord".

Favolosi quegli anni... con Fellini

Negli anni Ottanta hai lavorato con Federico Fellini. Il grande regista detestava Berlusconi.

"Sì, ma soprattutto perché le televisioni commerciali della Fininvest interrompevano con gli spot i suoi film, distruggendo così il cinema. Quella di Fellini era una condanna estetica, più che politica. Girò Ginger & Fred, il film che attaccava Berlusconi, nel famoso studio 5 di Cinecittà, cercando di riprodurre la volgarità bestiale e il clima di idiozia che emanano le sue televisioni. Ebbene, qualche anno dopo per ironia della sorte capitò proprio a me di essere invitato in quegli studi, a una trasmissione tv di quelle becere con la mortadella, tipo Gianfranco Funari. Pensavo fosse una visione: era esattamente quello che aveva prefigurato Fellini".

Perché rifiuti la televisione?

"Per fortuna non ne ho bisogno, i miei libri si vendono anche senza questo tipo avvilente di autopromozione. Negli ultimi anni sono stato solo da Mtv, e un paio di volte da Bernard Pivot, quello di Apostrophes e Bouillon de culture in Francia. Invece in Italia c'è la strana idea che gli scrittori siano degli ammazza-audience, e allora per sfuggire alla loro presunta noiosità li si riduce a macchiette o a piazzisti di se stessi. Anche di recente mi hanno invitato a Quelli che il calcio, per esempio, ma non avevo proprio voglia di ridurmi a fare il comico nella curva di uno stadio..."

Sonore stroncature

Non è un mistero che De Carlo non sia amato da tutta la critica italiana. Anche il suo ultimo libro ha rimediato due sonore stroncature sul Corriere della Sera e su Sette. I soloni della sinistra marxista non gli perdonano la sua presunta "leggerezza", che in realtà è soltanto libertà allo stato assoluto: i personaggi dei suoi dodici libri sono tutti degli anticonformisti libertari che mettono in questione l'ordine costituito. Così lo accusano di "ribellismo adolescenziale", rilievo grottesco per uno scrittore che ormai è arrivato ai cinquant'anni. Risultato di tanto livore da parte della nomenklatura culturale: i suoi romanzi si vendono come il pane, soprattutto fra i giovani.

"Ma quando sono andato al festival di Mantova mi sono accorto che i miei lettori coprono uno spettro amplissimo, dai 14 agli 80 anni, uomini e donne".

Si rinnova un po' con De Carlo l'astio che ha circondato un altro scrittore di grande successo commerciale: Carlo Cassola, bollato addirittura come "Liala". La verità è che entrambi sono rimasti estranei alle camarille e alle mafiette del piccolo (e misero) mondo letterario italiano, zeppo di scrittori frustrati ridotti a fare i giornalisti, i critici letterari o i professori perché i loro libri non vendono.

Cassola, accusato di non essere abbastanza "impegnato", negli anni Settanta divenne invece il più politico di tutti gli scrittori italiani, fondando con molti anarchici la Ldu (Lega per il disarmo unilaterale) e assumendo posizioni antimilitariste.

De Carlo ha scritto la sua tesi di laurea sulle comunità anarchiche in Spagna: "Mi interessava la storia dell'anarchia e quella degli esperimenti comunitari in varie parti del mondo. In più mi sembrava che la guerra civile spagnola fosse quasi sempre rappresentata dal punto di vista dei comunisti, che nei confronti degli anarchici avevano avuto colpe terribili".

L'inquietudine contro il potere

Hai mai fatto attività politica, allora? E oggi, pensi che un cittadino normale, non politico di professione, abbia spazi per un impegno politico in Italia?

"Nel 1968, anche se ero molto giovane, avevo capito subito che le mie simpatie erano per gli anarchici, e che invece detestavo i gruppi neostalinisti o neoleninisti che si erano impadroniti del movimento con la pretesa di "guidarlo". Ho raccontato le mie sensazioni a proposito in Due di due. Oggi non vedo molti spazi di impegno. Ma un cittadino normale può sempre esprimere le sue convinzioni attraverso il suo lavoro e la sua vita privata, naturalmente".

Insomma, De Carlo non ama l'impegno diretto. Ma nei suoi libri riesce a distruggere con metodicità tutti i pilastri del potere: dalla famiglia alla scuola, dalla coppia al lavoro fisso, dalle istituzioni (politiche e culturali) al denaro. I suoi personaggi comunicano un'inquietudine esistenziale che alla fine risulta più devastante di un pamphlet politico. Se è lecito un paragone, in lui c'è molto Albert Camus e poco Jean-Paul Sartre. L'unica volta che De Carlo ha preso una posizione politica diretta è stato per denunciare le ruberie del Psi a Milano dieci anni fa, nel libro Due di due.

Ti pesa il non far parte di una "parrocchia precisa"?

"No, anche se è molto comodo trovarsi una collocazione giusta: si viene ripagati in termini di consenso e di protezione. Però sono favori da ripagare: facendo parte del gruppo, mobilitandoti ogni volta che il partito chiama. I miei primi due libri, Treno di panna e Uccelli da gabbia e da voliera, ebbero un grande successo di critica, perfino preoccupante nella sua uniformità. Macno invece fu bistrattato, però vendette molto. Da allora, il successo di pubblico mi ha messo al riparo dalla vulnerabilità che invece può danneggiare molti scrittori".

In totale, De Carlo sta raggiungendo i due milioni di copie vendute. Il penultimo libro uscito nel 1999, Nel momento, è arrivato a 350 mila copie. E anche Pura vita si è installato immediatamente al secondo posto in classifica, superato solo da Andrea Camilleri. Oltre che best seller, inoltre, i suoi sono anche long seller: i lettori che lo scoprono tramite i suoi ultimi libri vanno poi a comprarsi anche i primi, che quindi continuano a vendere. E gli permettono di essere uno dei pochi romanzieri italiani che riescono a vivere del proprio lavoro, senza dover pietire collaborazioni ai giornali, sceneggiature ai produttori di film o marchette televisive.

Molti dei suoi aficionados di oggi non erano ancora nati ai tempi del suo debutto, vent'anni fa. E oggi intrecciano con De Carlo un dialogo diretto attraverso il suo sito internet (www.andreadecarlo.net). Per l'intellighenzia di sinistra De Carlo ha l'imperdonabile colpa di essere riuscito a tratteggiare magistralmente, tramite l'odioso Polidori, protagonista di Tecniche di seduzione, la figura dell'intellettuale fintamente engagé, ma in realtà colluso con il potere e dalla vita privata schifosetta: sfruttatore di giovani "negri" sottopagati che gli scrivono libri poi firmati da lui, e ricattatore sessuale di belle studentesse universitarie. In quello stesso libro per pagine e pagine De Carlo ha messo alla berlina i redattori del settimanale Panorama.

Un altro violento attacco al sistema di potere buroculturale italiano il romanziere lo ha sferrato qualche anno fa in un convegno al Salone del libro di Parigi: "Non è vero che l'Italia di Tangentopoli sia rimasta vittima di un piccolo gruppo di criminali", ha sostenuto, "perché in realtà milioni di persone ne furono direttamente complici. Il nostro paese è stato stuprato e distrutto per quarant'anni senza che si manifestasse una vera opposizione politica. Il trasformismo italiano ha delle capacità incredibili, e i nostri connazionali si distinguono per una viltà ignobile. L'opposizione è stata sedicentemente rappresentata dal Pci, ma gli intellettuali italiani sono omertosi. Anche se non sono direttamente responsabili dello sfacelo, sono conniventi".

È chiaro che con discorsi simili non si ricevono critiche favorevoli sui giornali del gruppo Espresso-Repubblica, non si viene invitati ai festival dell'Unità, non si vincono premi letterari, né si diventa cocchi del regime.

Mauro Suttora

Tuesday, January 15, 2002

Mappa degli euroscettici

MAPPA DEGLI EUROSCETTICI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 15 gennaio 2002

Londra. Altiero Spinelli? «Soltanto un pericoloso stalinista». La prova? «Nel suo Manifesto di Ventotene del 1941 scrisse: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”». 

Il padre dell’Europa unita scomparso nel 1986 è detestato a tal punto dagli euroscettici inglesi che uno di loro, Lindsay Jenkins, autore quattro anni fa del libro «Gran Bretagna tenuta in ostaggio: l’Eurodittatura in arrivo», gli ha dedicato un lungo saggio offensivo, in cui l’antifascista italiano viene definito sprezzantemente «padrino» dell’Unione europea, nonché «lifelong communist» (comunista per tutta la vita). 

Ma Spinelli non aveva abiurato la sua fede in Stalin nel ‘37? Sì, ammette Jenkins, «perché avendo tempo per pensare, in prigione ruppe col comunismo. Ma non si è mai allontanato troppo dalle sue radici, e infatti dopo 40 anni durante i quali la sua stella fu eclissata da altri europeisti come Jean Monnet, nel 1976 tornò sulla scena come deputato e poi eurodeputato del Pci. E, con il suo Club del Coccodrillo, è stato lui negli anni Ottanta il vero artefice del trattato di Maastricht e dell’unione monetaria».
 
Siamo nel principale covo degli euroscettici: gli uffici londinesi in Regent Street del Gruppo di Bruges. Più accaniti di loro contro Bruxelles, in tutto il mondo non ce n’è. Altro che Bossi, Martino, Tremonti. È qui che si distillano le analisi più velenose contro i tecnocrati dell’Unione Europea. È qui che i nemici dell’euro gioiscono ogni volta che il dollaro guadagna un decimo di punto sulla moneta continentale. Ed è qui che aspettano con fiducia il referendum sull’adesione all’euro ipotizzato da Tony Blair: «Se mai avrà il coraggio di farlo, quello sarà il giorno della sua rovinosa caduta», prevedono sicuri.

Perché Bruges? Perché tutto cominciò in quella città belga, dove nel settembre 1988 Margaret Thatcher pronunciò uno dei suoi tanti discorsi contro l’Europa «sociale». Che risultò talmente brillante e ben argomentato da passare alla storia. Al rettore del Collegio d’Europa che l’aveva invitata disse ironica: «Farmi parlare qui è come aspettarsi da Gengis Khan un discorso sulla coesistenza pacifica». 

Per niente intimorita dal trovarsi nella tana del lupo, la Lady di ferro scolpì nel marmo la memorabile frase: «Non abbiamo fatto arretrare le frontiere dello Stato in Gran Bretagna per vedercele reimporre da un Superstato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles». 

Il duello allora era contro Jacques Delors, presidente francese della Commissione, il quale da buon socialista vagheggiava un’Europa «sociale».

«Noi europei», gli ribatteva la Thatcher, «non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in dispute interne e arcani dibattiti istituzionali: niente può sostituire l’azione concreta. L’Europa deve competere in un mondo dove il successo va ai Paesi che incoraggiano l’iniziativa individuale, e non a quelli che cercano di ostacolarla. Per lavorare meglio di loro non c’è bisogno di centralizzare il potere a Bruxelles, né di far prendere le decisioni a una burocrazia non eletta. E’ paradossale che proprio mentre Paesi come l’Urss, i quali hanno cercato di governare tutto centralmente, stanno imparando che il successo dipende invece dal saper distribuire il potere e le decisioni lontano dal centro, qualcuno in Europa voglia muoversi nella direzione opposta».
 
Liberali contro socialisti, quindi. Proprio come nel giugno ‘85, quando al vertice di Milano la Thatcher uscì sconfitta da Bettino Craxi. «Vogliamo indietro i nostri soldi!», aveva esordito Maggie cinque anni prima sulla scena continentale. Craxi gliene concesse un po’, e ci mise sopra pure la scappatoia dell’opt-out (la clausola grazie alla quale oggi Gran Bretagna, Danimarca e Svezia rimangono fuori dall’euro). Ma in cambio i britannici dovettero permettere l’avvio del processo che portò a Maastricht nel ‘92, e poi alla Banca centrale europea.

Contro la quale, peraltro, lord Norman Lamont, già cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) thatcheriano e oggi vicepresidente del Gruppo di Bruges, non rinuncia a lanciare i suoi strali: «Evviva, siamo rimasti fuori dall’euro. Moneta che non ha mantenuto le promesse e aumenta il rischio di recessione in Eurolandia. La ricchezza pro capite in Gran Bretagna ha superato Francia e Germania. L’economia britannica registra risultati superiori. Abbiamo uno dei regimi monetari migliori del mondo. Sarebbe folle buttar via tutto ciò».

Se il cuore orgoglioso dell’euroscetticismo festeggia a Londra il «mancato disastro dell’euro, al quale sono bastati pochi mesi per perdere un quarto del proprio valore rispetto al dollaro», a Strasburgo sono 70 (su 626) gli eurodeputati che agiscono da quinta colonna del tempio del «nemico». 

Ai 36 conservatori inglesi (nel gruppo del Ppe) si aggiungono infatti i 18 del gruppo Edd (Europa delle democrazie e diversità) e dodici «non iscritti» francesi: metà lepenisti e metà del Mouvement pour la France fondato dall’ex giscardiano vandeano Philippe de Villiers (autore del libro «Vi sono piaciute le farine animali? Adorerete l’euro») dopo il referendum su Maastricht che vide i no al 49 per cento. Nel gruppo Uen (Unione Europa delle nazioni), assieme agli italiani di An che vorrebbero passare nel Ppe, ci sono i tre gollisti di Charles Pasqua.

Nel gruppo Edd i nove francesi anti-Ue sono a loro volta divisi fra i gollisti e quelli del partito «Caccia, pesca, natura e tradizioni» guidato da Jean Saint-Josse. Nigel Farage, ex broker 37enne, è il capo del piccolo Independence party inglese, che grazie al proporzionale ha eletto due eurodeputati nel ‘99, e che lo scorso giugno ha presentato 450 candidati anche alle politiche, ottenendo quasi 400mila voti. 

Ci sono poi i tre danesi del «Folkebevælgelsen mod Eu», il Movimento del popolo contro l’Europa fondato da Jens-Peter Bonde, che fin dagli anni ‘70 prende regolarmente il 20 per cento dei suffragi a ogni elezione europea.

Sarà dura anche per Copenhagen entrare nell’euro: dopo il referendum perduto un anno fa dagli europeisti, l’opinione pubblica non dà segni di resipiscenza. Un’altra eurodeputata anti-Ue danese è la teologa Ulla Sandbaek, del «Movimento Giugno», e contro l’euro è nata appositamente l’associazione «Euronej, keep the krone». Hanno  radice religiosa anche i tre europarlamentari euroscettici olandesi del Gpv, un partito collegato alla chiesa riformata.
 
Stessa musica in Svezia, dov’è il Centerpartiet a tenere alta la bandiera antieuropea. L’unico eurodeputato, Karl Eric Olssche, ha aderito al gruppo liberale. Il referendum sull’adesione alla Ue nel ‘94 passò a Stoccolma per il rotto della cuffia: 52 a 48%. Sulla home-page del sito internet del Partito di Centro troneggia un contatore che misura in diretta «le corone che diamo all’Europa», e che aumentano all’impressionante ritmo di cento al secondo: dall’inizio dell’anno son 120 milioni.

L’antieuropeismo trova adepti anche a sinistra. Fanno infatti parte del Team (The European Alliance of eurocritical Moments) i comunisti austriaci e tedeschi, i greci dell’Ean, i verdi polacchi e, fra i Paesi ancora in lista d’attesa per l’Ue, la Nova Stranka e il gruppo Neutro sloveno, che lo scorso settembre ha organizzato a Lubiana un campeggio giovanile antieuropeo. 

Anche a Tallinn, capitale dell’Estonia, si è svolto in ottobre un congresso euroscettico. E nella vicina Finlandia, unico Stato nordico entrato in Eurolandia, c’è il movimento «Vaihtoetho Eu» (Alternativa all’Eu) della signora Ulla Klotzer. In Irlanda il principale antieuropeista è Anthony Coughlan, professore del prestigioso Trinity College a Dublino.

Certo, agli euroscettici manca un vero leader continentale. Ma sarebbe una contraddizione in termini, un antieuropeo conosciuto in tutta Europa. Avrebbe potuto esserlo sir Jimmy Goldsmith, il brillante miliardario inglese noto in Italia soprattutto come padre dell’ex attrice Clio («La cicala»), nonché della splendida Jemina amica della principessa Diana e moglie del campione pakistano di cricket Imran Khan. Ma Goldsmith, amico di Gianni Agnelli (teneva anche lui la barca a Calvi, in Corsica), è morto di cancro al pancreas nel 1997, a soli 64 anni.

Ha visto la morte da vicino anche Jean-Pierre Chévenement, il socialista francese tre volte ministro e tre volte dimissionario che, tornato alla politica, si è smarcato dal Ps e si candida alle presidenziali di primavera con una piattaforma anti-Ue. 

Appoggiato dal famoso scrittore Max Gallo, i sondaggi gli accccreditano attualmente una popolarità del 40 per cento. Darà fastidio più a Lionel Jospin che a Jacques Chirac. A destra, oltre a Pasqua, De Villiers e Le Pen, a rastrellare gli umori chauvinisti della Francia profonda c’è sempre l’ex ministro e presidente gollista Philippe Séguin.

E in Italia? Nel ‘92 gli unici partiti anti-Maastricht furono Lega, Msi e Rifondazione. Oggi solo Bossi si permette uscite pubbliche contro Bruxelles. Antonio Martino era contrario all’euro, ma più che altro perché ne contestava l’artificialità come moneta di transizione: «O lo si fa in una sola volta, o non lo si fa affatto». 

Ma ormai è andata, l'euro ce l’abbiamo in tasca. Così, a parte qualche dubbio del più federalista di tutti, il Marco Pannella che plaude alle critiche di Ralf Dahrendorf contro l’Europa ridotta a burocrazia e chiede invano più potere per il Parlamento, l’euroscetticismo nostrano è soprattutto culturale.

Il suo principale bastione è l’associazione Italiani Liberi di Ida Magli e Giordano Bruno Guerri. Entrambi commentatori del Giornale, la prima ha un passato da ideologa femminista: «Scrivevo su Repubblica dalla fondazione, ma dopo un pezzo contro il Corano mi hanno cacciata. Stessa sorte all’Espresso: l’ultimo mio articolo, contro la Ue, non l’hanno mai pubblicato». In compenso il suo libro 'Contro l’Europa, tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht' (Bompiani, 1997) è arrivato a 30mila copie e otto edizioni. 

Un discreto successo sta avendo anche 'L’Unione fa la truffa' di Mario Giordano, direttore del tg Studio Aperto, pubblicato da Mondadori tre mesi fa. Un altro polemista anti-Ue è Alberto Mingardi, ventenne «anarcocapitalista» che scrive su Libero. Mancano all’appello i noglobal: fra i loro tanti bersagli Bruxelles figura raramente. Forse perché perché non è negli Stati Uniti.
Mauro Suttora

Tuesday, January 08, 2002

Dittatori

LIBERTARIA
trimestrale anarchico
diretto da Luciano Lanza

2002

Dove sono finiti gli anarchici di una volta? Quelli che praticavano il tirannicidio, e che fino a un secolo fa non si facevano troppi problemi nell’infliggere un castigo ritenuto legittimo non solo dagli antichi filosofi greci (i quali giustificavano l’eliminazione violenta dei satrapi), ma perfino dalla Chiesa cattolica?

La classifica che pubblichiamo è desolante. I dittatori del XX secolo (giustamente definito «secolo delle dittature») hanno goduto di vita lunga, sono quasi tutti morti nel proprio letto, e i pochissimi che ci hanno rimesso la pelle sono stati giustiziati solo dopo aver perso il potere (Mussolini, Ceausescu). L’ultrasettuagenario Fidel Castro (soprannominato ormai «Coma andante») si avvia a conquistare il primo posto in questa graduatoria di durata: ancora sei anni, e toglierà a Kim Il Sung lo scettro di tiranno al potere più longevo del mondo. Anche per lui, d’altronde, si intravede una successione in famiglia: gli subentrerà il fratello Raul, così come ai nordcoreani è toccato il figlio di Kim. Insomma, sembra proprio che per i dittatori il potere assoluto rappresenti il miglior elisir di lunga vita..

Attenzione: questa classifica prescinde totalmente dal grado di crudeltà dei singoli regimi. Anzi, quelli che sono correntemente considerati come i tiranni più sanguinari sono addirittura fuori lista: Hitler durò «soltanto» 12 anni, il centrafricano Jean-Bedel Bokassa 14 (dal 1965 al ‘79), Idi Amin Dada oppresse l’Uganda dal ‘71 al ‘79 e Pol Pot sterminò i cambogiani in soli quattro anni, dal ‘75 al ‘79. Buona annata per gli amanti della libertà, il 1979: quell’anno perse il potere anche il nicaraguense Anastasio Somoza, che fu poi giustiziato da un emissario sandinista nel suo esilio di Miami. Ma rimane un’eccezione: Idi Amin è ancora vivo (esiliato in Arabia Saudita), mentre Bokassa è morto di attacco cardiaco nel ‘96 a 75 anni, libero nella propria villa, e Pol Pot si è spento tranquillamente per malattia nella jungla quattro anni fa.

Nella classifica abbiamo inserito anche alcuni personaggi, come re Hassan II del Marocco o l’ex presidente Lee Kuan Yew di Singapore, che non da tutti vengono correntemente definiti «dittatori». Ma per ritenere tale il sovrano marocchino non c’è bisogno di aver letto il devastante libro «Notre ami le roi», né il fatto che Lee abbia da qualche anno abbandonato formalmente il potere diretto significa che la sua presa d’acciaio non continui a opprimere la città-stato asiatica.

Viceversa, altri governanti dalle maniere assai spicce come il giordano re Hussein o l’egiziano Mubarak se la cavano grazie alle graduatorie di Amnesty, Human Rights Watch e Freedom House, che hanno giudicato i loro Paesi «parzialmente liberi». Ma il crinale è certo molto stretto: tecnicamente, anche i capi dello stato del Vaticano dovrebbero figurare nel nostro elenco. Al contrario del serbo Slobodan Milosevic o del croato Franjo Tudjman, i quali sono stati eletti negli anni ‘90 con votazioni dalla regolarità non disprezzabile, perlomeno secondo i criteri balcanici...

Fidel Castro può a ragione gloriarsi di aver visto transitare per la Casa Bianca ben dieci presidenti statunitensi, nove dei quali (tutti tranne il primo, Dwight Eisenhower) hanno cercato in vario modo di eliminarlo. Ma anche Saddam Hussein, dodici anni dopo la guerra del Golfo, è tuttora sul trono in Irak: ancora pochi mesi e riuscirà a entrare nella nostra Top Ten, avendo debuttato nel ‘68. Lo tallona Muammar Gheddafi, mentre l’altro componente del terzetto dei «militari laici arabi», il siriano Hafez Assad, è morto nel Duemila dopo trent’anni di potere: uno più di Stalin, tre più di Mao.

La loro lunga permanenza al governo dimostra un’altra ineffabile legge storica: tutti i dittatori presi via via di mira dagli Stati Uniti come i «cattivi» da eliminare restano saldamente al potere. E’ successo così, oltre che con Castro, Saddam, Gheddafi e Assad, anche con Kim Il Sung, sopravvissuto alla guerra di Corea scatenata nel 1950, con i comunisti vietnamiti tuttora al governo (Ho Chi Minh è deceduto per cause naturali,il generale Vo Nguyen Giap compie 90 anni nel 2002), con l’iraniano Khomeini individuato come il diavolo ma anch’egli morto di vecchiaia, e con tutti gli «evil empires» dell’ultimo mezzo secolo: perfino Osama bin Laden e il mullah Omar hanno perso l’Afghanistan, ma sono liberi. Uniche eccezioni Milosevic (anche se gli Usa vedono come il fumo il Tribunale Onu dell’Aia che lo sta processando), e Manuel Noriega, il caudillo panamense costretto all’esilio a Miami nell’89 (ma con la rivincita dei norieghisti a Panama cinque anni dopo).

E’ impressionante constatare come la classifica accomuni, grazie a un criterio casuale come quello della durata, autocrati di stampo diversissimo fra loro: si va dal dittatore comunista al caudillo sudamericano, dal generale golpista al satrapo asiatico, dal califfo mediorientale al tiranno fascista, dal rispettabile «liberatore» anticolonialista africano degradatosi in vecchio bizzoso e inamovibile (il tunisino Habib Bourguiba, il tanzaniano Julius Nyerere) al narcomafioso (il birmano Ne Win). Una lista sterminata che per motivi di spazio lascia fuori personaggi celebri come l’etiope Menghistu, il polacco Gomulka o l’algerino Boumedienne (14 anni al potere), Nikita Kruscev (11), Juan Domingo Peron (nove, ma con un ritorno democratico nel ‘73), il generale polacco Wojciech Jaruzelski (8), Nicolaj Lenin e il colonnello greco Georgios Papadopoulos (7), il portoghese Marcelo Caetano (6) e i suoi rivali dell’indipendenza mozambicana Samora Machel (11 anni) e angolana Agostinho Neto (4), fino ai re sauditi e ai famigerati generali della «junta» argentina Emilio Massera, Jorge Videla e Leopoldo Galtieri, cacciati nel 1983 dopo la guerra delle Falkland/Malvinas persa contro la «lady di ferro» Margaret Thatcher.

Fantasmi del passato? Mica tanto: spesso ritornano, com’è successo nello sfortunato Congo ex Zaire, dove dopo gli interminabili 32 anni di Mobutu Sese Seko nel 1997 sono iniziati gli altrettanto devastanti quattro anni di Laurent Desiré Kabila, e dove l’attuale Joseph Kabila non sembra meglio. Il mestiere di dittatore, insomma, conviene: durata molta, sfarzi notevoli, rischi pochi...

CLASSIFICA DITTATORI DEL XX SECOLO al gennaio 2002

Paese al potere anni

1) Kim Il Sung (Corea del Nord) 1945-94† 49
2) Fidel Castro (Cuba) 1959-in carica 43
3) Enver Hoxha (Albania) 1945-85† 40
4) Francisco Franco (Spagna) 1936-75† 39
5) Reza Pahlevi (Iran) 1941-79 39
6) Hassan II (Marocco) 1961-99† 38
7) Lee Kuan Yew (Singapore) 1965-in carica 37
8) Antonio Salazar (Portogallo) 1932-68† 36
9) Gnassingbe Eyadéma(Togo) 1967-in carica 35

10)Hassanal Bolkiah (Brunei) 1967-in carica 35
11)Omar Bongo (Gabon) 1967-in carica 35
12)Josip Broz Tito (Jugoslavia) 1945-80† 35
13)Todor Zivkov (Bulgaria) 1954-89 35
14)Alfredo Stroessner (Paraguay) 1954-89 35
15)Saddam Hussein (Irak) 1968-in carica 34
16)Muammar Gheddafi (Libia) 1969-in carica 33
17)F.Houphouet-Boigny(Costa D’Avorio) 1960-93 33
18)Janos Kadar (Ungheria) 1956-89 33
19)Suharto (Indonesia) 1965-98 33

20)Mobutu Sese Seko (Zaire) 1965-97 32
21)Rafael Trujillo (Rep.Dominicana) 1930-61 31
22)Abdal Aziz Saud (Arabia Saudita) 1932-53 31
23)H.Kamuzu Banda (Malawi) 1964-94 30
24)Stalin (Urss) 1924-53† 29
25)Hafez Assad (Siria) 1970-2000† 30
26)Isa Al Khalifah (Bahrain) 1971-99 28
26)Kenneth Kaunda (Zambia) 1964-91 27
27)Mao Tse Tung (Cina) 1949-76† 27
28)Seku Turé (Guinea) 1958-84 26
29)Chiang Kai Shek (Taiwan) 1949-75† 26

30)Ne Win (Birmania) 1962-88 26
31)Walter Ulbricht (Germania Est) 1946-71 25
32)Nicolae Ceausescu (Romania) 1965-89 24
33)Ho Chi Minh (Vietnam del Nord) 1945-69† 24
34)Benito Mussolini (Italia) 1922-45 23
35)Didier Ratsiraka (Madagascar) 1975-in carica 23
36)Eduardo Dos Santos(Angola) 1979-in carica 23
37)Mussa Traoré (Mali) 1968-91 23
38)Robert Mugabe (Zimbabwe) 1980-in carica 22
39)Siad Barre (Somalia) 1969-91 22

40)Deng Xiaoping (Cina) 1976-97† 21
41)Ferdinand Marcos (Filippine) 1965-86 21
42)Julius Nyerere (Tanzania) 1964-85 21
43)Paul Biya (Camerun) 1982-in carica 20
44)Habib Bourghiba (Tunisia) 1957-87 20
45)Ahmadou Ahidjo (Camerun) 1962-82 20
46)Gustav Husak (Cecoslovacchia) 1969-89 20
47)G. Gheorghiu-Dej (Romania) 1945-65† 20
48)Erich Honecker (Germania Est) 1971-89 18
49)Leonid Breznev (Urss) 1964-82† 18

50)Kemal Ataturk (Turchia) 1920-38 18
51)Gamal Nasser (Egitto) 1952-70† 18
52)Saparmurad Niyazov(Turkmenistan) 1985-in carica 17
53)Augusto Pinochet (Cile) 1973-90 17
54)Zin Abidin Ben Ali (Tunisia) 1986-in carica 16
55)Giafar Nimeiry (Sudan) 1969-85 16
56)Jomo Kenyatta (Kenia) 1963-78 15
57)J.-Claude Duvalier(Haiti) 1971-86 15
58)François Duvalier (Haiti) 1957-71 14
59)Menghistu Haile M.(Etiopia) 1977-91 14

60)Jean Bedel Bokassa(Rep.Centrafricana) 1965-79 (†96-75) 14
61)Wladislaw Gomulka (Polonia) 1956-70 14
62)Chun Doo Hwan (Corea del Sud) 1979-93 14
63)Roh Tae Woo (Corea del Sud) 1979-93 14
64)Houari Boumedienne(Algeria) 1965-79 14
65)Chadli Bendjedid (Algeria) 1979-92 13
66)Omar el-Bechir (Sudan) 1989-in carica 13
67)Idris Déby (Ciad) 1990-in carica 12
68)Adolf Hitler (Germania) 1933-45† 12
69)Anastasio Somoza (Nicaragua) 1967-79 12

70)Samora Machel (Mozambico) 1975-86† 11
71)Re Feisal (Arabia Saudita) 1964-75 11
72)Nikita Kruscev (Unione Sovietica) 1953-64 11
73)Ruhollah Khomeini (Iran) 1979-89 10
74)Chiang Ching-Kuo (Taiwan) 1978-88 10
75)Juan Domingo Peron (Argentina) 1946-55 9
76)Idi Amin Dada (Uganda) 1971-79 8
77)Wojciech Jaruzelski(Polonia) 1981-89 8
78)Boris III (Bulgaria) 1935-43 8
79)Hugo Banzer (Bolivia) 1971-78 †2002 7

80)G.Papadopoulos (Grecia) 1967-74 7
81)Nikolaj Lenin (Unione Sovietica) 1917-24† 7
82)Emilio E. Massera (Argentina) 1976-83 7
83)Jorge Videla (Argentina) 1976-82? 6
84)Marcelo Caetano (Portogallo) 1968-74 6
85)Pol Pot (Cambogia) 1975-79 (†‘98) 4
86)Agostinho Neto (Mozambico) 1975-79 4
87)Georgi Dimitrov (Bulgaria) 1946-49 3
88)Alexander Stamboliski (Bulgaria) 1920-23 3
89)Alexander Tsankov (Bulgaria) 1923-26 3
90)Raul Cedras (Haiti) ?-94 ?

Friday, January 04, 2002

Emma, fastidiosa farfalla dell'utopia

Fa nascere il Tribunale internazionale Onu dell'Aia contro la volontà degli Stati Uniti

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 gennaio 2002

Roma. Sta per nascere il Tribunale penale internazionale dell’Onu. Nella sede di «Non c’è pace senza giustizia», l’associazione radicale che da quasi dieci anni si batte per crearlo, Antonella Dentamaro è ottimista: «Ancora poche settimane. Occorrono le ratifiche di 60 Stati, e siamo già a 47. I parlamenti di Portogallo, Slovenia ed Estonia hanno appena votato, devono solo depositare la ratifica. Così il 17 luglio 2002, quarto anniversario del trattato di Roma che ha istituito la Corte, potremo finalmente festeggiare la Giornata della giustizia internazionale».

Porta parecchie firme italiane, il primo tentativo nella storia di far giudicare i crimini di guerra e i genocidi da un tribunale indipendente, non nato «ad hoc» come quelli sulla ex Jugoslavia e il Ruanda, né creato dai vincitori come Norimberga. 

Giovanni Conso ha presieduto la conferenza di Roma che nel 1998 ha scritto lo statuto, Antonio Cassese è stato il primo presidente del Tribunale per l'ex Jugoslavia dal 1993 al '97, Fausto Pocar ne è attualmente giudice. 

Ma soprattutto Emma Bonino gira per il mondo a propagandare l’idea: due mesi fa era in Cambogia, in Thailandia e poi nelle Filippine, un mese fa a Praga con 15 Paesi dell’Est europeo, ora è in Egitto, e il 25 gennaio ad Amsterdam ci sarà un’altra conferenza con Robert Badinter, l’indimenticato «garde des sceaux» di François Mitterrand. 
 
Il principale nemico del Tribunale internazionale permanente si chiama Jesse Helms: un vecchio senatore repubblicano americano che considera la Bonino una fastidiosa farfalla dell’utopia. Il 7 dicembre 2001 è riuscito a far approvare dal Senato Usa a larghissima maggioranza (78-21) una legge che non solo nega qualsiasi aiuto militare a tutti i Paesi che osano ratificare la Corte, ma arriva addirittura a permettere al presidente Usa di «usare ogni mezzo» (cioè la forza) per liberare soldati americani che vengano arrestati dal Tribunale. Per questo la sua legge è stata sarcasticamente battezzata «Hague invasion Act», legge per l’invasione dell’Aia, la città che sarà sede anche della nuova Corte.

Gli Stati Uniti non vogliono che i propri militari possano essere accusati di crimini di guerra durante gli interventi all’estero. Per questo Clinton ha firmato il trattato di Roma solo un anno fa, e la ratifica sembra impossibile. 

Tuttavia il 20 dicembre è avvenuto un colpo di scena: Camera e Senato Usa riuniti hanno bocciato la legge di Helms, rifiutando di inserirla nel bilancio 2002. Poi si vedrà. 

Alla fine, insomma, ha prevalso la posizione aperturista del senatore democratico del Connecticut Christopher Dodd, grande avversario di Helms. E le più di mille Organizzazioni non governative che fanno lobbying a Washington per il Tribunale, da Amnesty a Human Rights Watch, dall’Open Society Institute di George Soros al Partito radicale transnazionale, hanno festeggiato: «È una vittoria importante, perché gli Usa non possono minare la validità di questa istituzione multilaterale proprio mentre chiedono aiuto a tutto il mondo nella lotta contro il terrorismo», dichiara William Pace del Cicc (Coalition for the International criminal court).

Negli Stati Uniti quindi il dibattito è più che mai aperto. Da una parte c’è la consapevolezza orgogliosa di essere l’unica superpotenza mondiale, con annessi oneri e onori. Ma l'isolazionismo americano, che si tramuta in unilateralismo a contatto con le complicate faccende del mondo, si stinge infine in pragmatica ricerca del consenso. 

Per dirla concretamente: certe patate calde gli Usa non hanno voglia di pelarsele da soli. Ecco quindi la Fondazione Ford finanziare la lobby pro-Tribunale internazionale, già innaffiata da contributi (pubblici) di tutti i governi scandinavi, di Germania, Canada e Italia, e perfino dai britannici, i migliori alleati dell’America imperiale. I quali non temono di irritare Washington negando l’estradizione ai terroristi islamici, se rischiano la pena di morte.

Quanto ai fautori della Corte, essi si rendono conto che la collaborazione degli Usa, unici gendarmi mondiali, è indispensabile. Si lavora quindi sui cavilli giuridici, limando per esempio il concetto di «intenzionalità»: i tanto discussi «danni collaterali» non saranno punibili se le vittime civili non vengono colpite intenzionalmente. Come in Bosnia, Serbia e Afghanistan, appunto. Solo bombardamenti indiscriminati tipo Dresda e Hiroshima verranno sanzionati.
Mauro Suttora